La diffusione dei dati personali relativi ai singoli condomini nella ordinaria gestione condominiale non viola la privacy (Cass. n. 1593/2013)

Redazione 23/01/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza dell’11/11/2009 il Tribunale di Milano respingeva la domanda, proposta ex art. 152 d.lgs. n. 196 del 2003 dalle sigg. **** e M.P. nei confronti dei sigg. **** e An..Pe. nonché del Garante per la protezione dei dati personali, di risarcimento dei danni subiti in conseguenza di “condotte lesive della loro privacy”, consistite nella dichiarazione resa durante l’assemblea condominiale del 18/1/2008 dal condomino P. secondo cui “bisogna capire dove sono andati a finire questi soldi, il perché sono usciti, visto che la descrizione dei bonifici sono generiche – ad esempio vorremmo sapere cos’è, anche perché in generale sono stati sottratti circa cinquantaseimila Euro al condominio”, e nel successivo invio ai condomini del verbale assembleare ove la stessa risultava raccolta da parte del suddetto I., amministratore subentrato nella carica e funzione allo Studio P. delle suindicate sigg. P.E. e M.P. .

Avverso la suindicata pronunzia le P. propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con separati controricorsi il Pe. e lo I., il quale ultimo ha presentato anche memoria.

L’intimato Garante per la protezione dei dati personali non ha svolto attività difensiva.

 

Motivi della decisione

Con il 1^ motivo le ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 7, 11, 20, 21, 22 d.lgs. n. 196 del 2003, in riferimento all’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..

Si dolgono che il giudice abbia erroneamente affermato che “i fatti ed i comportamenti denunciati da parte ricorrente sfuggano alla disciplina istituita dal codice della Privacy, letto come volto semplicemente a disciplinare la raccolta ed il trattamento dei dati personali”, laddove “la formazione di un documento in centinaia di esemplari e la sua distribuzione fra centinaia di persone non sfugge affatto alla normativa sulla Privacy”, e “il verbale di assemblea nel quale si afferma che vi sia una sottrazione di fondi per decine di migliaia di Euro e altrettanto palesemente si indica il preteso responsabile, è strumento: – di formazione del dato personale, oltretutto oltraggioso ed ingiusto; – di diffusione dello stesso; – di conservazione e di impossibilità di eliminazione dello stesso dato, che va a colpire la dignità ed il decoro”.

Con il 2 motivo denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 599 c.p., 2043 c.c., in riferimento all’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..

Si dolgono che il giudice abbia erroneamente ritenuto che l’amministratore I. “vada esente da critiche perché avrebbe agito disciplinatamente e essendovi obbligato dal proprio ufficio, mentre il *********. si sarebbe limitato a porre dei dubbi”, laddove “sul dovere dell’amministratore di condominio di non eseguire delibere nulle o contrarie alla legge si sono formate intere biblioteche giuridiche”, e, “venendo alla posizione del *********. , si deve rilevare che il Tribunale ha travisato il preciso contenuto del documento, allorché ha asserito che tale convenuto si sia limitato a porre una domanda”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Va anzitutto osservato che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sé stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366, 1 co. n. 4, c.p.c., che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonché delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

È cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dalle odierne ricorrenti.

Già sotto l’assorbente profilo dei requisiti ex artt. 366, 1 co. n. 6, c.p.c. e 369, 2 co. n. 4 c.p.c. (cfr., da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), va posto in rilievo come esse facciano richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito [es., al “verbale di assemblea nel quale sono state esposte valutazioni inaccettabili in odio all’ex amministratore”, al risultare “per tabulas che alcune frasi sono state soppresse e non riportate nel verbale (sostituendole con i punti di sospensione), a dimostrazione di lucida limatura del contenuto della discussione”], di cui lamentano la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso, ovvero, laddove riportati, senza puntualmente ed esaustivamente indicare i dati necessari al reperimento in atti degli stessi (v. Cass., Sez. Un., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279).

Come da questa Corte – anche a Sezioni Unite – ripetutamente affermato, l’indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto, tale prescrizione ritenendosi soddisfatta qualora a) il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369, 2 co. n. 4, c.p.c., per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso (art. 372 p.c.) oppure di. documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso (v. Cass., Sez. Un., 25/3/2010, n. 7161; Cass., Sez. Un., 2/12/2008, n. 28547. Da ultimo v. Cass., Sez. Un., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157).

Ne consegue che la ricorrente non pone invero questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisi vita dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Va ulteriormente sottolineato che il requisito – del pari a pena di inammissibilità richiesto all’art. 366, 1 co. n. 3, c.p.c. – della sommaria esposizione dei fatti di causa non risulta invero soddisfatto (neanche) allorquando come nella specie vengano nel ricorso pedissequamente riprodotti (in tutto o in parte) gli atti e i documenti del giudizio di merito (nel caso, in particolare, il ricorso ex art. 152 d.lgs. n. 196 del 2003; l’impugnata sentenza dei giudice di merito), in contrasto con lo scopo della disposizione di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata, in immediato coordinamento con i motivi di censura (v. Cass., Sez. Un., 17/7/2009, n. 16628), essendo necessario che vengano riportati nel ricorso gli specifici punti di interesse nel giudizio di legittimità (cfr. Cass., 8/5/2012, n. 6909), con eliminazione del “troppo e del vano”, non potendo gravarsi questa Corte del compito, che non le appartiene, di ricercare negli atti del giudizio di merito ciò che possa servire al fine di utilizzarlo per pervenire alla decisione da adottare (v. Cass., 16/2/2012, n. 2223; Cass., 12/9/2011, n. 18646; Cass., 22/10/2010, n. 21779; Cass., 23/6/2010, n. 15180; Cass., 18/9/2009, n. 20093; Cass., Sez. Un., 17/7/2009, n. 16628), sicché il ricorrente è al riguardo tenuto a rappresentare e interpretare i fatti giuridici in ordine ai quali richiede l’intervento di nomofilachia o di critica logica da parte della Corte Suprema (v. Cass., Sez. Un., 11/4/2012, n. 5698), il che distingue il ricorso di legittimità dalle impugnazioni di merito (v. Cass., 23/6/2010, n. 15180).

A tale stregua difetta invero nel caso un’esposizione in termini comprensibili e stringenti delle ragioni di censura, dalle quali, così come formulate nella indistinzione dei profili di merito e di diritto, altro non è dato pertanto evincere se non che gli elementi valutati dal giudice sono asseritamente suscettibili di una diversa lettura, conforme alle attese e deduzioni dell’odierna ricorrente (v. Cass., 1/12/1999, n. 13359; Cass., 29/11/1999, n. 13342).

Va per altro verso osservato che, come questa Corte [argomentando dal rilievo che ai sensi dell’art. 4, comma 1 lett. b), “dato personale” oggetto della tutela apprestata dal d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. Codice della privacy, e già dalla L. n. 675 del 1996 ) è “qualunque informazione” relativa a “persona fisica, persona giuridica, ente o associazione”, che siano “identificati o identificabili”, anche “indirettaraente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”] ha già avuto modo di affermare, i dati dei. singoli partecipanti al condominio raccolti ed utilizzati per le finalità di cui agli artt. 1117 ss. c.c. sono senz’altro da ricondurre a tale nozione, e conseguentemente assoggettati alla disciplina posta dalla suindicata fonte.

Si è al riguardo precisato che, in ambito condominiale, le informazioni relative al riparto delle spese, all’entità del contributo dovuto da ciascuno e alla mora nel pagamento degli oneri pregressi possono essere peraltro oggetto di trattamento anche senza il consenso dell’interessato.

Argomentando dall’art. 24 d.lgs. n. 196 del 2003, si è in proposito sottolineato che le attività di gestione ed amministrazione delle parti comuni implicano la possibilità di raccolta, registrazione, conservazione, elaborazione e selezione da parte dell’amministratore delle informazioni concernenti le posizioni di dare ed avere dei singoli partecipanti al condominio.

Ancora, si è affermato che ragioni di buon andamento e di trasparenza giustificano una comunicazione di questi dati a tutti i condomini, non solo su iniziativa dell’amministratore in sede di rendiconto annuale o di assemblea ovvero nell’ambito delle informazioni periodiche trasmesse nell’assolvimento degli obblighi scaturenti dal mandato ricevuto, ma anche su richiesta di ciascun condomino, il quale è investito di un potere di vigilanza e di controllo sull’attività di gestione delle cose, dei servizi e degli impianti comuni che lo facoltizza a richiedere in ogni tempo all’amministratore informazioni sulla situazione contabile del condominio, comprese quelle che riguardano eventuali posizioni debitorie degli altri partecipanti (v. Cass., 4/1/2011, n. 186).

Si è al riguardo per altro verso posto in rilievo che i dati personali oggetto di trattamento debbono essere: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati.

Ancora, che la liceità del trattamento trova fondamento anche nella finalità del medesimo, quest’ultima costituendo un vero e proprio limite intrinseco del trattamento lecito dei dati personali, che fonda l’attribuzione all’interessato del potere di relativo controllo (tanto con riferimento alle finalità originarie che ai successivi impieghi), con facoltà di orientarne la selezione, la conservazione e l’utilizzazione; che l’interessato ha diritto a che l’informazione oggetto di trattamento risponda ai criteri di proporzionalità, necessità, pertinenza allo scopo, esattezza e coerenza con la sua attuale ed effettiva identità personale o morale (c.d. principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza) (art. 11 d.lgs. n. 196 del 2003).

All’interessato è pertanto attribuito il diritto di conoscere in ogni momento chi possiede i suoi dati personali e come li adopera, nonché di opporsi al trattamento dei medesimi, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta, ovvero di ingerirsi al riguardo, chiedendone la cancellazione, la trasformazione, il blocco, ovvero la rettificazione, l’aggiornamento, l’integrazione (art. 7 d.lgs. n. 196 del 2003).

Al di là delle specifiche fonti normative, è in ogni caso il principio di correttezza (quale generale principio di solidarietà sociale – che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale – in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui – nei limiti dell’apprezzabile sacrificio -, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai fai si affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi: cfr. Cass., 20/2/2006, n. 3651; Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 15/2/2007, n. 3462; Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 24/7/2007, n. 16315; Cass., 30/10/2007, n. 22860; Cass., Sez. Un., 25/11/2008, n. 28056. Da ultimo cfr. Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., 19/8/2011, n. 17685) a fondare in termini generali l’esigenza del bilanciamento in concreto degli interessi, e, conseguentemente, il diritto dell’interessato ad opporsi al trattamento, quand’anche lecito, dei propri dati (v. Cass., 5/4/2012, n. 5524).

Imprescindibile rilievo assume a tale stregua il bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, dovendo al riguardo tenersi conto del rango di diritto fondamentale assunto dal diritto alla protezione dei dati personali, tutelato agli artt. 21 e 2 Cost., nonché all’art. 8 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni che, spettando a “chiunque” (art. 1 d.lgs. n. 196 del 2003) e ad “ogni persona” (art. 8 Carta), nei diversi contesti ed ambienti di vita, “concorre a delineare l’assetto di una società rispettosa dell’altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza” (così Cass., 4/1/2011, n. 186).

Ne consegue, da un canto, che Le esigenze di funzionalità e di efficienza del condominio non possono considerarsi prevalenti sai diritto alla riservatezza e alla tutela dei dati (del condominio e) dei condomini (v. Cass., 4/1/2011, n. 186). E per altro verso, che fondamentale rilievo assume al riguardo il rispetto dei c.d. principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza (art. 11 d.lgs. n. 196 del 2003).

A tale stregua le informazioni riportate nei prospetti contabili o come nella specie nei verbali assembleari debbono essere comunicati solamente agli aventi diritto alla relativa conoscenza, e cioè ai condomini (a prescindere ovviamente dal relativo numero).

Non anche, a chi non vi abbia viceversa interesse (arg. ex art. 25 d.lgs. n. 196 del 2003).

Deve pertanto evitarsi una relativa diffusione generalizzata, rivolta a soggetti indeterminati.

Incombe al riguardo all’amministratore del condominio adottare le opportune cautele per evitare l’accesso a quei dati da parte di persone estranee al condominio (v. Cass., 4/1/2011, n. 186).

Orbene, diversamente da quanto sostenuto dalle odierne ricorrenti, dei suindicati principi il giudice del merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.

Da un canto, ha correttamente escluso che la più sopra riportata affermazione del condomino An..Pe. possa invero ricondursi alla nozione di “dato personale” di cui al suindicato art. 4, comma 1 lett. b), d.lgs. n. 196 del 2003, correttamente evidenziando che “con l’espressione contestata… non si attribuisce o si fa richiamo ad alcuna informazione riguardante una persona, e nella specie, le due ricorrenti, ma ci si chiede dove siano finite delle somme di denaro facenti capo al condominio e per quale motivo sono stati effettuati dei bonifici a favore dello Studio P. ”, salva la eventuale relativa rilevanza sotto altri e differenti profili, diversamente tutelabili (“a prescindere dal carattere diffamatorio o meno della dichiarazione in esame”).

Per altro verso ha accertato e dato atto che nella specie “lo I. ,… nel rispetto dei suoi compiti istituzionali, si è limitato a trasmettere copia della delibera assembleare ai singoli condomini, senza divulgare o elaborare differentemente il verbale e quanto ivi riportato”.

Con il 3 motivo le ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 162 c.p.c., in riferimento all’art. 360, 1 co. n. 3, c.p.c..

Si dolgono che il giudice, in caso di mancanza dei “presupposti per il ricorso ex art. 152 del Codice”, non abbia disposto “la conversione del rito e di procedere quindi all’esame del merito della pretesa attorea secondo le forme dell’ordinario giudizio di cognizione”.

Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

A parte il rilievo che (anch’esso) risulta formulato in violazione degli artt. 366, 1 co. n. 6, c.p.c. e 369, 2 co. n. 4 c.p.c. (cfr., da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), va osservato che la richiesta applicazione delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, con ricorso al procedimento speciale ivi previsto all’art. 152, non consente al giudice di disporre, in caso di rigetto come della specie della domanda per relativa infondatezza, alcuna “conversione del rito”, non rimanendo in tal caso integrata alcuna ipotesi legittimante l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, neanche ai sensi dei pure invocati artt. 156 e 162 c.p.c..

Non si tratta infatti di nullità dell’atto introduttivo non conformato al modello legale (ricorso anziché citazione), sanabile col raggiungimento dello scopo e di eventuali inosservanze di regole del procedimento ordinario; né di disporsi la rinnovazione dell’atto, essendosi la parte convenuta nella specie invero costituita (cfr. Cass., 18/8/2006, n. 18201); e neppure di trattazione della controversia, da parte del giudice adito, con un rito diverso da quello previsto dalla legge, non determinante alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa laddove la parte non deduca e dimostri che dall’erronea adozione del rito le sia derivata una lesione del diritto di difesa (cfr. Cass., 27/1/2012, n. 1201).

Nel caso trovano invero applicazione il principio della domanda (art. 99 c.p.c.), la cui interpretazione rientra nella valutazione del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità ove come nella specie congruamente motivata (cfr, da ultimo, Cass. 24/7/2012, n. 12944), nonché il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunziato (art. 112 c.p.c.) (v. Cass., 22/3/2007, n. 694S; Cass., 19/4/2006, n. 9087), alla cui stregua va coordinata anche l’applicazione de] principio iura novit curia di cui all’art. 113, 1 co., c.p.c. (che fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili. alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti: cfr., da ultimo, Cass., 24/7/2012, n. 12943).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo in favore di ciascuno dei controricorrenti Pe. e I., seguono la soccombenza.

Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore dell’intimato Garante per la protezione dei dati personali, non avendo il medesimo svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per onorari, oltre ad accessori come per legge, in favore di ciascuno dei controricorrenti, sigg. Pe. e I. .

Redazione