La Cassazione viola le garanzie Cedu: si riapre il processo per l’imputato, ma senza nuove prove (Cass. pen. n. 37413/2013)

Redazione 12/09/13
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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Trento, con ordinanza in data 18 gennaio 2012, dichiarava inammissibile l’istanza avanzata da D.M. di revisione della sentenza emessa il 12 giugno 2002 dalla Corte di Appello di Venezia. L’istanza era fondata sulla necessità di conformare una pronuncia giudiziaria nazionale ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo, ipotesi introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 2011 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. “nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea della Corte dei diritti dell’uomo”.

L’ordinanza impugnata osservava che la Corte costituzionale, con la citata sentenza, ha sottolineato che la riapertura del procedimento deve essere valutata in rapporto “alla violazione accertata … tenendo conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta”, e la restituito in integrum a cui l’istante fa riferimento non può che riguardare il diritto violato che, nel caso di specie, atteneva alla violazione del principio del contraddittorio, nel senso della necessità, non rispettata avanti alla Corte di cassazione, di una completa informazione circa l’addebito, ivi compresa la qualificazione giuridica; la nuova udienza fissata avanti alla Corte di cassazione, con congruo anticipo rispetto alla data di effettiva celebrazione, ha assicurato il pieno rispetto dei diritti dell’imputato, come stabilito dalla Corte di giustizia, pronuncia da cui non è sorto il generico ed incondizionato diritto ad un nuovo processo.

La stessa Corte di merito aggiungeva che la regola della rappresentanza della parte ad opera del difensore, prevista per i giudizi avanti alla Corte di cassazione, non costituisce un limite al diritto di difesa nè, in particolare, risulta essere oggetto di censura nella sentenza della Corte dei diritti di cui si tratta.

Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo mancanza o, in subordine, carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione.

Il ricorrente afferma che l’ordinanza impugnata non risponde ai quesiti giuridici sollevati dalla difesa e sostiene che il rimedio della riapertura straordinaria ex art. 625-bis c.p.p. non appare adeguato ai fini di una restitutio in integrum, sia perchè il D. non aveva potuto partecipare personalmente al giudizio nè fare dichiarazioni e chiedere l’assunzione di prove a proprio favore, stante i limiti intrinseci del rimedio predisposto dal ricorso per cassazione, sia perchè la stessa giurisprudenza successiva della Cassazione aveva optato non per una nuova discussione in iure, ma per un annullamento con rinvio, proprio al fine di consentire all’imputato di chiedere, se del caso, nuove prove; il ricorrente afferma che nella vicenda de qua ricorre proprio la necessità, alla luce della diversa qualificazione giuridica, di assumere nuove prove e lamenta che su tali argomentazioni difensive vi sia assenza di motivazione o motivazione solo apparente oppure, in subordine, che la motivazione stessa sia contraddittoria o viziata da manifesta illogicità.

Il Procuratore ******** presso la Suprema Corte ha chiesto il rigetto del ricorso, per le seguenti considerazioni: a) la violazione accertata dalla sentenza CEDU si era verificata nel giudizio di legittimità e ad essa si era posto rimedio applicando l’art. 625 bis c.p.p.; b) l’ordinanza impugnata effettivamente non prende in esame le argomentazioni sviluppate dalla parte circa le prove deducibili, ma la ragione è che si trattava di una questione di diritto, suscettibile di essere oggetto di diretta pronuncia da parte del giudice di legittimità e, comunque, nell’ambito del procedimento riaperto si sarebbero potute e dovute sviluppare le doglianze circa l’asserito pregiudizio delle prerogative difensive; c) il fatto che nella sede di legittimità non fosse prevista la presenza personale dell’imputato non comporta alcun contrasto rispetto alla pronuncia CEDU, essendo sufficiente la presenza del difensore a rappresentare le questioni suscettibili di condurre ad un annullamento con rinvio.

Con note di replica alle osservazioni del Procuratore generale, il difensore del ricorrente sostiene che la riapertura del processo non è concetto assimilabile o riducibile ad una mera discussione giuridica sul nomen iuris e che la stessa giurisprudenza della Cassazione ha disposto l’annullamento con rinvio a prescindere dalla acclarata necessità di assumere nuove prove, per dare modo all’imputato di ripensare la propria strategia, se del caso ed eventualmente, sia in punto di fatto che in punto di diritto; pertanto, ad avviso del difensore, la riapertura piena della procedura, come richiesto dalla Corte di Strasburgo, non potrebbe che essere operata ritornando ad una fase di merito, posto che la Corte di Cassazione può solo disporre, ma mai attuare nella pienezza una riapertura del processo.

Il ricorrente aggiunge che sarebbe inaccettabile ritenere che la domanda di nuove prove avrebbe dovuto essere sollevata a suo tempo nel momento in cui si operò la riapertura del processo ex art. 625 bis c.p.p., sia perchè la giurisprudenza successiva della stessa Corte di cassazione ha disposto il rinvio al grado di merito sganciato da una specifica domanda a tal fine, sia perchè non si potrebbe rimproverare alla difesa di non avere previsto che l’evoluzione del sistema avrebbe reso possibile ciò che all’epoca dei fatti non era ipotizzabile.

Motivi della decisione

1. I motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.

2. Per comprendere il contenuto e i limiti della questione in esame occorre ripercorrere i momenti principali della vicenda de qua.

Con sentenza n. 23024 in data 4 febbraio 2004, la sezione sesta della Corte di cassazione, pronunciandosi su ricorso del D., il quale, in sede di merito, era stato ritenuto responsabile dei delitti di falso continuato in atti pubblici fidefacienti e di corruzione continuata per atti contrari ai doveri d’ufficio ex artt. 81 e 319 c.p., rigettava il ricorso stesso, riqualificando, però, i fatti corruttivi quali reati di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p. e ritenendo, in relazione alla pena edittale stabilita da quest’ultima norma, che fossero infondate le doglianze relative alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Con la sentenza in data 11 dicembre 2007, pronunciando su ricorso di D.M., la Corte Europea dei diritti dell’uomo, affermava la violazione da parte della Corte di Cassazione nazionale dell’art. 6, paragrafi 1 e 3, (a) e (b) della Convenzione, in particolare del diritto dell’imputato di essere informato in modo dettagliato non solo dei motivi dell’accusa, ma anche della qualificazione giuridica attribuita ai fatti oggetto di accusa, che, quindi, rappresenta un presupposto essenziale per un processo equo, poichè la Corte di Cassazione aveva proceduto ad una diversa, e più grave, qualificazione giuridica del fatto, senza che nè il pubblico ministero nè uno dei Giudici del collegio avessero segnalato, prima della Delib., l’opportunità di procedere ad una riqualificazione giuridica dei fatti; il ricorrente non era mai stato avvisato circa tale eventualità e, di conseguenza, non aveva mai avuto la possibilità di dibattere la nuova accusa in contraddittorio.

Concludeva, pertanto, la Corte che era “stato leso il diritto del ricorrente ad essere informato in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico nonchè il suo diritto a disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa” e, in assenza di domanda di equo soddisfacimento, “un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rappresenta(va) in linea di massima un mezzo adeguato per porre rimedio alla violazione contestata”.

La Corte di cassazione, investita della questione con ordinanza della Corte di Appello di Venezia, che, provvedendo quale giudice dell’esecuzione su ricorso proposto dal D., aveva dichiarato la ineseguibilità ex art. 670 c.p.p. del giudicato, con sentenza n. 45807 del 12 novembre 2008, riconosciuta “la forza vincolante delle sentenze definitive della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’art. 46 della Convenzione”, dopo aver provveduto alla revoca della sentenza del 4 gennaio 2004, disponeva la “nuova trattazione del ricorso” con riferimento al quale si era verificata la violazione constatata dalla Corte dei diritti dell’uomo, “limitatamente al punto della diversa qualificazione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e poi ritenuta dai giudici di merito”. A tale risultato la Suprema Corte perveniva applicando “per analogia” la norma dell’art. 625 bis c.p.p. ritenuta idonea “a rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell’ambito del giudizio di legittimità e nelle sue concrete e fondamentali manifestazioni che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte di cassazione”.

All’esito della nuova trattazione del ricorso suddetto, la stessa Corte, con sentenza n. 36323 del 25 maggio 2009, lo rigettava, qualificando i fatti corruttivi quali reati di corruzione in atti giudiziari ex art. 319 ter c.p..

3. Quest’ultima sentenza mette in evidenza due punti importanti ai fini della presente decisione: il primo riguarda la conferma dell’ordinanza letta in udienza con la quale si era ribadito che dinanzi alla Corte di cassazione non è prevista la partecipazione personale dell’imputato e che l’eventualità di una diversa qualificazione giuridica va rappresentata al difensore e non anche all’imputato; il secondo concerne i limiti della revoca della sentenza di legittimità del 4 febbraio 2004, “revocata limitatamente alla diversa qualificazione giuridica, ma non anche rispetto alla ricostruzione dei fatti, considerata corretta e logica nella sua complessiva esposizione delle decisioni di merito”.

I suddetti due punti contengono gli elementi essenziali per il rigetto delle deduzioni del ricorrente, unitamente ad una corretta interpretazione della sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011.

4. Con tale sentenza la Corte costituzionale, superando la posizione assunta con la sentenza n. 129 del 2008, osserva che la giurisprudenza ha sperimentato diverse soluzioni ermeneutiche intese a salvaguardare i diritti riconosciuti dalla CEDU, superando le preclusioni connesse al giudicato e, tra queste, anche l’utilizzo dello strumento previsto dall’art. 625-bis cod. proc. pen., il quale, però, “non può comunque rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione (quale quella riscontrata nella vicenda oggetto del giudizio a quo)”. La stessa Corte indica, poi, l’obiettivo perseguito: “porre l’ interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata”. Nel caso di specie esaminato dalla Corte costituzionale il ricorrente era stato condannato sulla base delle dichiarazioni rese da tre coimputati, non esaminati in contraddittorio perchè in dibattimento si erano avvalsi della facoltà di non rispondere.

Risulta, pertanto, evidente che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. è funzionale alla individuazione di uno strumento idoneo ad assicurare la riapertura del processo di merito e non anche di quello di cassazione, come si desume dalla specificità del caso che è alla base della pronuncia di illegittimità costituzionale e dalla circostanza che la stessa Corte costituzionale riconosce che il ricorso all’art. 625 bis c.p.p. è idoneo a porre rimedio alle ipotesi di inosservanza della Convenzione EDU verificatesi nell’ambito dello stesso processo di legittimità, poichè consente, appunto, di restituire l’interessato in una situazione equivalente a quella nella quale si sarebbe trovato se non vi fosse stata una inosservanza della medesima Convenzione.

Nel caso in esame, appunto, la violazione dei principi della Convenzione si è verificata con la modificazione “a sorpresa” della qualificazione giuridica del fatto operata con la stessa sentenza della Corte di cassazione, di modo che la riapertura del processo di legittimità, con la possibilità concessa alla difesa di dibattere la questione giuridica, dopo essere stato specificatamente informato anche della nuova qualificazione giuridica del fatto, avendo così il tempo di preparare le proprie difese (la revoca della sentenza è del 12 novembre/11 dicembre 2008, e la nuova udienza di discussione si è svolta in data 25 maggio 2009) e di svolgerle in contraddittorio con l’accusa avanti alla Corte di cassazione, ha consentito di ripristinare il diritto violato.

5. La doglianza del ricorrente, secondo la quale il rimedio adottato con l’utilizzo dello strumento offerto dall’art. 625 bis c.p.p. non potrebbe considerarsi adeguato al fine di ripristinare il diritto violato, non consentendo all’imputato di ripensare la propria strategia difensiva e chiedere, se del caso, nuove prove, non può essere accolta per plurime considerazioni.

6. In primo luogo, deve osservarsi che tale questione non è stata sollevata davanti alla Corte di cassazione successivamente alla revoca ex art. 625 bis c.p.p., nè si può dire, come argomenta il ricorrente, che non si può “rimproverare alla difesa di non aver chiesto qualcosa che, all’epoca dei fatti, era a malapena concepibile”, poichè era già stata adottata una soluzione giuridica (l’utilizzo dell’art. 625 bis c.p.p. per rimediare ad una violazione della Convenzione EDU) a quel tempo “a malapena concepibile” e il giudizio di cassazione instauratosi a seguito della revoca della precedente decisione avrebbe potuto avere qualsiasi esito, anche quello, certamente prevedibile e prospettabile dalla difesa, di un annullamento con rinvio, per mettere in condizioni l’imputato di chiedere nuove prove specificamente indicate e ritenute in ipotesi essenziali al fine di contestare la diversa qualificazione giuridica del fatto.

7. In ogni caso, la sentenza n. 36323 del 2009 della Suprema Corte ha avuto cura di precisare che la questione da esaminare, a seguito della revoca della precedente decisione, era di puro diritto, non toccando la essenza contenutistica dell’imputazione e la ricostruzione dei fatti “considerata corretta e logica nella sua complessiva esposizione delle decisioni di merito”.

8. A sostegno della sua tesi la difesa ricorrente cita due sentenze di questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 18590 del 29/04/2011, Corsi, Rv. 250275; Sez. 6, n. 20500 del 19/02/2010, *****, Rv. 247371; alle quali può aggiungersi anche: Sez. 5, n. 6487 del 28/10/2011 – 17/02/2012, ***********, Rv. 251730), le quali hanno ritenuto configurabile una nullità a seguito della riqualificazione dell’imputazione operata in sentenza senza il previo contraddittorio.

Ma deve osservarsi che tali pronunce riguardano ipotesi di riqualificazioni operate in sede di merito e non in sede di legittimità, sicchè l’annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione aveva l’intento di riportare il processo al punto in cui si era verificata la stessa nullità. Comunque, tale giurisprudenza è superata da quella successiva e maggioritaria, secondo la quale non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l’imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l’ordinario rimedio dell’impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità (Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, *****, Rv. 251961; Sez. 2, n. 32840 del 09/05/2012, ********** e altri, Rv. 253267; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012 19/02/2013, *********, Rv. 254649; Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 – 17/01/2013, ******, Rv. 254135; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, *******, Rv. 254357). Nè vale osservare, in contrario, che i limiti del giudizio di legittimità non consentirebbero l’esercizio di un’adeguata attività difensiva. Infatti, la questione della qualificazione giuridica del fatto (e non dell’accertamento materiale dello stesso) rientra fra i casi tipici del ricorso per cassazione (art. 606 c.p.p., lett. b) e quindi può essere adeguatamente discussa anche in ultima istanza. Comunque, come già rilevato, anche ove sia ipotizzabile la contestazione in fatto della diversa qualificazione giuridica, è imprescindibile che con il ricorso per cassazione sia formulata una richiesta di annullamento con rinvio, che specificamente indichi nuovi elementi di fatto, non valutati dal giudice di merito e non prospettati perchè non attinenti alla originaria qualificazione, che consentirebbero di escludere la diversa e nuova qualificazione: nel caso in cui la difesa ricorrente non assolva a tale onere la relativa richiesta di annullamento con rinvio sarebbe viziata da genericità (art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c)).

9. Sebbene sia irrilevante nel caso di specie, non essendo state le relative richieste prospettate nella opportuna sede, non è superfluo osservare che le nuove prove che la difesa ricorrente vorrebbe chiedere in sede di merito non attengono alla specifica questione della riqualificazione giuridica, bensì tendono a mettere in discussione in radice quella ricostruzione dei fatti, confermata nei due gradi di merito, e ritenuta dalla Suprema Corte “corretta e logica”. In tal modo, però, si utilizza in modo improprio l’intervento additivo della Corte costituzionale con riferimento all’art. 630 c.p.p., che, come precisato dalla stessa Corte supera “la tradizionale preordinazione del giudizio di revisione al solo proscioglimento del condannato”, avendo la finalità di togliere la copertura del giudicato a quei vizi processuali che implicano compromissioni di particolare rilevanza dei diritti riconosciuti dalla Convenzione EDU, recuperando, con la riapertura del processo, le garanzie violate, ponendo l’interessato “in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza della Convenzione” (ex plurimis: Grande Camera, ******** c. Italia, sentenza 17 settembre 2009, p. 151; Sejdovic c. Italia, sentenza 10 novembre 2004, p. 55; Somogyi c. Italia, sentenza 18 maggio 2004, p. 86). L’obiettivo perseguito dalla Corte costituzionale è, appunto, quello di “porre l’interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertata, e non già rimediare a un difettoso apprezzamento del fatto da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato” (sent. n. 113 del 2011 cit.).

10. Pertanto, la rinnovazione integrale del processo o la ripresa del procedimento per il compimento di specifiche attività, dipenderà dal tipo di vizio processuale riscontrato dalla Corte EDU. Certo è che se il vizio processuale si è verificato in sede di legittimità, spetta alla stessa Corte porvi rimedio (argomenta ex art. 185 c.p.p., commi 2 e 3), adottando le necessarie iniziative e pervenendo agli esiti processuali indispensabili per ripristinare le garanzie violate.

11. Per quanto riguarda la doglianza del ricorrente di non avere a suo tempo potuto partecipare personalmente al giudizio, essa, come si è detto, ha già trovato risposta nella sentenza n. 36323 del 2009 di questa Corte.

Deve aggiungersi che certamente la presenza di un imputato riveste una importanza fondamentale nell’interesse di un processo penale equo e giusto (**** c. Olanda, sentenza del 22 settembre 1994, p. 33; Poitrimol c. Francia, sentenza del 23 novembre 1993, p. 35), e l’obbligo di garantire all’imputato il diritto di essere presente nella sala di udienza sia durante il primo procedimento nei suoi confronti, sia nel corso di un nuovo processo – è uno degli elementi essenziali dell’art. 6 (********* c. Bulgaria, sentenza, 24 marzo 2005, p. 56). In effetti, sebbene non menzionata espressamente nel paragrafo 1 dell’art. 6, la facoltà per l’”imputato” di prendere parte all’udienza deriva dall’oggetto e dallo scopo dell’art. nel suo insieme. Del resto, i commi c), d) ed e) del paragrafo 3 riconoscono a “ogni imputato” il diritto a “difendersi personalmente” “esaminare o fare esaminare i testimoni” e “farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”, il che non è concepibile in sua assenza (******* c. Italia, sentenza del 12 febbraio 1985, p. 27, e ******** c. Italia, sentenza 1 marzo 2006, p. 81). Tuttavia la Corte di Strasburgo riconosce che già in appello la presenza personale dell’imputato non riveste l’importanza decisiva che ha nel giudizio di primo grado (********** c. Austria, sentenza 19 dicembre 1989, p. 106), in quanto le modalità di applicazione dell’art. 6 della Convenzione in appello dipendono dalle particolarità del procedimento in questione.

In particolare, le procedure dedicate esclusivamente a punti di diritto e non di fatto, possono soddisfare le esigenze dell’art. 6 anche se la corte d’appello o di cassazione non hanno dato al ricorrente la facoltà di esprimersi personalmente dinanzi ad esse, purchè vi sia stata una pubblica udienza in primo grado (Monnell e ****** c. Regno Unito, sentenza 2 marzo 1987, p. 58, per il giudizio di appello, e ****** c. Svizzera, sentenza del 22 febbraio 1984, p. 30, per la Corte di cassazione) e ciò perchè la giurisdizione interessata non ha il compito di accertare i fatti, ma solo quello di interpretare le norme giuridiche controverse (Ekbatani c. Svezia, sentenza del 26 maggio 1988, p. 27).

In un caso in cui i motivi di appello avevano ad oggetto esclusivamente la qualificazione giuridica del fatto, la Corte di Strasburgo manifesta la sua “difficoltà a comprendere come, nella fattispecie, la presenza fisica del ricorrente all’udienza di appello avrebbe potuto influire in qualche modo sulla qualificazione … che stava alla base della sua condanna” (Grande Camera, ***** c. Italia, sentenza 18 ottobre 2006).

Analogamente, del resto, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha ritenuto che i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione (ex plurimis, ******** c. Polonia, sentenza 21 luglio 2009; ****** c. Svezia, sentenza 8 febbraio 2005; Tierce e altri c. San Marino, sentenza 25 luglio 2000; ****** c. Paesi *****, sentenza 27 marzo 1998; ******* c. Svezia, sentenza 29 ottobre 1991). La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorchè al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative. In applicazione di tali principi, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 1423 del 1956, art. 4 e della L. n. 575 del 1965, art. 2-ter, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117 Cost., comma 1, (sent. n. 80 del 2011).

12. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2013.

Redazione