La Cassazione si pronuncia sulla retroattività delle norme in materia di prescrizione breve: orientamenti della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti umani a confronto (Cass. pen. n. 9615/2012)

Redazione 13/03/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

 

Con sentenza 6.10.2010, la corte di appello di Genova, in parziale riforma della sentenza 21.3.2001 del tribunale della stessa sede, ha ridotto la pena inflitta a G.P. e C.A. a tre anni e otto mesi di reclusione; ha confermato la dichiarazione di responsabilità di entrambi in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta ,uniti dal vincolo della continuazione, commessi, il primo,in qualità di membro del consiglio di amministratore e liquidatore, il secondo di socio e amministratore di fatto della Domino srl, dichiarata fallita il 26.7.1990.

Il difensore di G. ha presentato ricorso, integrato con memoria depositata il 26.10.2011, per i seguenti motivi:

1. vizio di legge, in riferimento agli artt. 157 e 161 c.p., L. n. 251 del 2005, art. 10: l’applicazione dei più brevi termini di prescrizione deriva dal principio della irretroattività della norma più severa, sancito dall’art. 7 paragrafo 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Questa norma prevede, implicitamente, anche il principio della retroattività della legge penale meno severa. Pertanto la corte territoriale, avrebbe dovuto disapplicare la norma interna contrastante con il diritto comunitario e dichiarare la prescrizione di tutti i reati.

2. vizio di legge in riferimento alla L. n. 87 del 1953, art. 23, comma 2: la sentenza ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità della L. n. 251 del 2005, art. 10, senza tener conto delle argomentazioni dell’ordinanza n. 22357/2010, emessa dalla seconda sezione della S.C., con la quale è stata sottoposta alla Corte costituzionale la suddetta questione. Quanto meno, avrebbe dovuto attendere la pronuncia del giudice delle leggi;

3. vizio di motivazione, in quanto la corte di merito non ha reso comprensibili i passaggi logico, argomentativi che hanno portato a negare la concessione delle attenuanti generiche. Non ha dato alcuna giustificazione al mancato rilievo della documentazione, da cui risulta la concessione, da parte del tribunale di sorveglianza, della detenzione domiciliare, nonchè del differimento della pena, a norma dell’art. 147 c.p.. Con la memoria,depositata il 26.10.11, il difensore rileva che la corte ha omesso di tener conto, nella sentenza, del certificato medico, prodotto a dimostrazione della fondatezza della richiesta di concessione delle attenuanti generiche.

Il ricorso non merita accoglimento.

Quanto alle censure formulate in ordine alla prescrizione, preliminare appare l’esame dell’eccezione di legittimità costituzionale per la prima volta formulata dalla difesa in sede di discussione, della L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3 per contrasto con l’art. 117, comma 1 della Carta Costituzionale e con l’art. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

E’ chiaro il riferimento alì ordinanza di questa Corte – Sezione 2 – n. 22357 del 27/5/2010, che ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma L. n. 251 del 2005, ex art. 10, laddove esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, per i processi già pendenti in grado di appello o avanti alla corte di cassazione, sul rilievo che per effetto della norma comunitaria, da ritenersi “norma interposta”, rispetto al parametro dell’art. 117 Cost. – secondo lo schema delineato dalla Corte Cost. con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 – dovrebbe, nell’interpretazione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, operare non solo il principio della irretroattività della legge penale più severa, ma anche implicitamente il princìpio della retroattività della legge penale meno severa “lex mitior” – in essa inclusi i profili inerenti la riduzione dei termini di prescrizione. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, questo collegio ritiene di non aderire alla impostazione interpretativa di tale decisione,perchè sul parametro interposto dalla norma comunitaria non consta esistere una giurisprudenza costante e consolidata della C.E.D.U., idonea a collegare i profili della “lex mitior” all’istituto della prescrizione, essendo, com’è noto, le singole decisioni della Corte Europea in materia ad efficacia limitata al caso concreto. Comunque la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha interpretato il principio della ragionevole durata del processo in una generale impostazione, secondo cui non è riconosciuta un’ aprioristica prevalenza all’interesse alla speditezza del processo, che non può non rapportarsi alla specificità dell’accertamento, nel quale assumono determinante rilievo la natura del reato e la complessità del quadro probatorio.

La Corte costituzione con sentenza n. 236 (camera c. 22.6.2011,decisione 19.7.2011), ha dichiarato infondata la questione sollevata dalla secondo sezione della Corte di cassazione, in quanto ha ritenuto che la L. n. 251 del 2005, art. 10, comma 3, – nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione, se più brevi, nei processi pendenti in appello o avanti alla Corte di cassazione – non si ponga in contrasto con l’art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e quindi non violi l’art. 117 Cost., comma 1. Il principio di retroattività della lex mitior, come in generale “le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione”, concerne secondo la Corte le sole “disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono” (decisione 27 aprile 2010, ******** contro Italia; nello stesso senso, sentenza 17 settembre 2009, ******** contro Italia). Il principio riconosciuto dalla CEDU, quindi, non coincide con quello che vive nel nostro ordinamento, regolato dall’art. 2 c.p., comma 4. Quest’ultimo infatti riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni. La diversa, e più ristretta, portata del principio convenzionale è confermata dal riferimento che la giurisprudenza Europea fa alle fonti internazionali e comunitarie, e alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Sia l’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia l’art. 49 della Carta di Nizza, infatti, non si riferiscono a qualsiasi disposizione penale, ma solo alla “legge che prevede l’applicazione di una pena più lieve”.

Del resto la sentenza ******** riguardava proprio una questione relativa alla pena, e non è senza significato che, nel richiamare la precedente e consolidata giurisprudenza sull’art. 7 della CEDU e sulla sua portata, la Corte Europea abbia avvertito l’esigenza di chiarire la nozione di pena cui fa riferimento la citata norma convenzionale, specificando che si tratta della misura che viene “imposta a seguito di una condanna per un reato”, e non di qualsiasi elemento incidente sul trattamento penale. Perciò è da ritenere che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità.

Una volta individuati i limiti oggettivi del principio di retroattività in mitius, riconosciuto dalla Corte Europea sulla base dell’art. 7 della CEDU, è agevole la conclusione che esso non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perchè si produca l’effetto estintivo del reato. Del resto dalla stessa giurisprudenza della Corte Europea emerge che l’istituto della prescrizione, indipendentemente dalla natura sostanziale o processuale che gli attribuiscono i diversi ordinamenti nazionali, non forma oggetto della tutela apprestata dall’art. 7 della Convenzione, come si desume dalla sentenza 22 giugno 2000 (Coeme e altri contro Belgio) con cui la Corte di Strasburgo ha ritenuto che non fosse in contrasto con la citata norma convenzionale una legge belga che prolungava, con efficacia retroattiva, i tempi di prescrizione dei reati.

Ne consegue l’infondatezza delle doglianze formulate nei primi due motivi.

Quanto alle censure sulla motivazione, esse si pongono in ingiustificato contrasto con l’orientamento interpretativo,secondo cui il trattamento sanzionatorio e specificamente la concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito e quindi non richiedono un’analitica valutazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli, indicati dalle parti o desunti dalle risultanze processuali,essendo sufficiente l’indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti. (sez. 1, 21.9.1999, n. 12496, in Cass Pen. 2000, n. 1078, p. 1949).

Nel caso in esame,non è quindi censurabile la motivazione della sentenza impugnata, laddove fa riferimento alla spiccata capacità a delinquere, dimostrata, ex art. 133 c.p., comma 2, n. 2, dai precedenti penali anche specifici dell’imputato, e alla gravità del fatto, a norma dell’art. 133 c.p., comma 1, n. 2. Sotto il primo profilo, la corte ha messo in evidenza il primario rilievo del ruolo rivestito dal G.. Alla luce di questi decisivi argomenti, la corte ha rilevato che gli elementi prospettati dalla difesa (tra cui è evidentemente compreso lo stato di salute del G.) non hanno pari consistenza. Nè risulta che possano avere in sede di quantificazione del trattamento altre decisioni dell’autorità giudiziaria, in sede esecutiva, adottate con criteri e finalità del tutto diversi.

Il difensore di C. ha presentato ricorso per i seguenti motivi:

1. vizio di motivazione in relazione al capo A: nella valutazione delle dichiarazioni della teste P. non è dato il giusto rilievo alla nota, a firma P. del 6.12.1990. La corte cade in contraddizione, laddove non ha dato rilievo all’accertato versamento, da parte della Selezione Garda della somma di L. 292.911.577 a pagamento della merce;

2. vizio di motivazione in relazione al capo B): la corte ha dato ingiustificato rilievo esclusivo alle dichiarazioni del dottor S., senza specificare quale sia il rapporto tra questi e la società *****. Ha affermato poi che non vi è traccia dell’importo versato dalla ****** alla *****, riferibile a una quota della provvista in contestazione e, contraddittoriamente, afferma che ,a parziale restituzione dell’importo ricevuto, la ****** trasferì alla ***** 4 effetti cambiari, che posti all’incasso, vennero protestati.

3. violazione di legge, in relazione al capo C): la corte ha omesso di motivare ,sotto il profilo soggettivo, che gli amministratore della società fallita non sono stati in grado di fornire indicazioni per reperire i beni mancanti, a causa della qualità che ne ha favorito la dispersione.

4. violazione di legge, in riferimento agli artt. 157 e 160 c.p.: la corte non ha ritenuto di applicare la normativa introdotta dalla L. n. 251 del 2005, secondo cui i reati sono prescritti.

In maniera non corretta ha poi affermato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata dai difensori in riferimento all’art. 10 della citata legge.

5. vizio di motivazione concernente il trattamento sanzionatorio, in relazione al mancato rilievo al minimo edittale e alla negata concessione delle attenuanti generiche.

I primi tre motivi sono da valutare inammissibili, in quanto, da una lato mancano di specificità, dall’altro contengono argomenti che propongono una serie di critiche a valutazioni fattuali contenute nella decisione impugnata, assolutamente immeritevole di censura in sede di giudizio di legittimità, in virtù della sua fedele corrispondenza alle risultanze processuali e della loro razionale interpretazione.

Sotto il primo profilo, va ribadito che la mancanza di specificità del motivo è da ravvisare non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la carenza di correlazione tra le ragioni argomentative della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione in sede di legittimità, in quanto queste ultime non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza impugnata, ma ripetono la critica formulata nei confronti della decisione del giudice di primo grado, determinando un irrituale regredire dello svolgimento del processo. Quanto al secondo profilo,va rilevato che le censure non possono essere esaminate, nell’alveo del delimitato sindacato riconosciuto dal legislatore a questa corte, in cui rientra esclusivamente la verifica dell’adeguatezza dei passaggi argomentativi, di cui il giudice di merito si è servito per supportare il proprio convincimento.

Con esse,infatti, il ricorrente pretende la rilettura del quadro probatorio e, contestualmente, il sostanziale riesame nel merito.

Questa pretesa è tanto più inammissibile nel caso in esame, in cui la struttura razionale della motivazione della sentenza ha una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa ed è saldamente ancorata agli inequivoci risultati dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, esaminati e valutati positivamente, a smentita delle osservazioni critiche dei ricorrenti.

Sul quarto motivo, si richiamano le argomentazioni espresse dalla sentenza n. 236/2011 della Corte costituzionale.

Quanto alle doglianze sul trattamento sanzionatorio, va ugualmente ribadita la correttezza e la insindacabilità dell’esercizio, da parte della corte, del potere discrezionale che legittima l’esclusiva indicazione degli elementi ritenuti decisivi.

Nel caso in esame, non è quindi censurabile la motivazione della sentenza impugnata, laddove fa riferimento alla spiccata capacità a delinquere, dimostrata, ex art. 133 c.p., comma 2, n. 2, dai precedenti penali anche specifici dell’imputato, e alla gravità del fatto, a norma dell’art. 133 c.p., comma 1, n. 2.

I ricorsi va quindi rigettatati con condanna ciascuno dei ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti singolarmente al pagamento delle spese processuali.

Redazione