La Banca deve provare che ignorava lo stato d’insolvenza dell’impresa per evitare la revocatoria della cessione di un credito Iva (Cass. n. 25284/2013)

Redazione 11/11/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 12 giugno 2006 la Corte di appello di Roma confermava la sentenza in data 3 ottobre 2002 con la quale il Tribunale di Frosinone aveva rigettato l’azione revocatoria promossa dal fallimento della s.r.l. ****** 2 nei confronti del Banco di Napoli, ai sensi della *******., art. 67, comma 1, n. 2, e, in subordine ai sensi del comma 2, dello stesso articolo. In particolare, la Corte di appello – premesso che la revocatoria aveva ad oggetto la cessione del credito di rimborso IVA, effettuata dalla fallita società al Banco di Napoli in data 9 ottobre 1996 e che, in esecuzione della cessione, il successivo 13 maggio 1997 era stata accreditata alla banca la somma di L. 600.000.000 – osservava, per quanto ancora interessa, che: 1) l’azione revocatoria *******., ex art. 67, comma 1, n. 2, era infondata poichè, anche a non voler condividere l’assunto secondo cui la cessione del credito IVA non costituirebbe mezzo anormale di pagamento, la detta cessione “pur non assimilabile al pagamento in danaro contante o titoli di credito, costituisce per prassi commerciale un pagamento per certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, tale cioè da escludere, proprio per tale sua qualità, l’indice presuntivo di consapevolezza da parte dell’accipiens dello stato di insolvenza del cedente”; pertanto, doveva darsi rilievo alla situazione di inscientia proclamata dalla banca, non contraddetta da altri elementi e non escludibile solo per il fatto che cessionaria del credito fosse una banca, soggetto dotato di particolari strumenti di indagine, anche perchè la situazione di insolvenza del cedente era stata indicata genericamente e non comprovata dall’appellante fallimento; 2) l’azione revocatoria ai sensi della *******., art. 67, comma 2, proposta in via subordinata, era infondata in quanto l’atto revocabile, da individuare nella cessione e non nel successivo pagamento da parte dell’Ufficio IVA, era avvenuta oltre l’anno dalla dichiarazione di fallimento.

Il fallimento della s.r.l. ****** 2 propone ricorso per cassazione avverso detta sentenza, deducendo due motivi. La s.p.a. S.G.A. – ******à per la Gestione di *******à, quale cessionaria del credito in virtù del contratto stipulato in data 31 dicembre 1996, e la s.p.a. Intesa San Paolo, società incorporante la s.p.a. San Paolo IMI, a sua volta incorporante il Banco di Napoli, resistono con distinti controricorsi.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il fallimento ricorrente deduce la violazione della *******., art. 67, comma 1, n. 2, ed il vizio di motivazione lamentando che la sentenza impugnata aveva contraddittoriamente affermato sia che la cessione di crediti non era assimilabile al pagamento in denaro contante o in titoli di credito, sia che la cessione di un credito IVA non consentiva, per la certezza di esazione paragonabile ai mezzi ordinari, l’operatività di una presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza in capo alla banca cessionaria. Pertanto, non era chiaro se la Corte territoriale aveva ritenuto che la cessione de qua doveva considerarsi un mezzo normale di pagamento ovvero se aveva ritenuto che la cessione pur essendo un mezzo anormale di pagamento non consentiva al fallimento di valersi della presunzione di cui alla *******., art. 67, comma 1.

Entrambe le affermazioni erano, tuttavia, infondate. La prima perchè il soddisfacimento del creditore non era immediato, ma avveniva in via mediata e indiretta quale effetto finale di altre forme negoziali.

La seconda perchè l’anormalità del mezzo di pagamento rendeva operante la presunzione juris tantum di conoscenza dello stato di insolvenza e, quindi, non poteva essere addossato al fallimento alcun onere probatorio.

Il motivo è fondato. Invero, una volta esclusa la normalità del mezzo di pagamento, la Corte territoriale avrebbe dovuto presumere la conoscenza dello stato di insolvenza, secondo quanto prevede la L. Fall., art. 67, comma 1, e non avrebbe potuto addossare l’onere probatorio della scientia decoctionis al fallimento.

Inoltre, del tutto incongruamente la sentenza impugnata assume che nella specie mancava la prova dello stato di insolvenza, atteso che lo stato di insolvenza è un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare soltanto da un punto di vista logico, mentre da un punto di vista giuridico detto stato viene assorbito nel requisito soggettivo della conoscenza dei relativi segni esteriori, la cui mancanza o insufficienza finisce, perciò, per rilevare non come prova della mancanza dello stato di insolvenza, ma come prova della mancanza della relativa conoscenza (Cass. 28 febbraio 2007, n. 4766, in motivazione).

In proposito, si può ragionevolmente pensare che se la conoscenza dello stato di insolvenza è una condizione dell’azione revocatoria è necessario che lo stato di insolvenza sussista effettivamente, poichè, altrimenti, non potrebbe essere conosciuto. Tuttavia, la giurisprudenza più risalente – partendo dall’incontrovertibile assunto che nel giudizio sulla revocatoria fallimentare non si può certo porre in discussione la sussistenza dello stato di insolvenza, accertato dalla sentenza dichiarativa di fallimento che rappresenta la fonte dell’azione revocatoria – ebbe a orientarsi, dopo una iniziale incertezza ed a far tempo da Cass. 28 gennaio 1972, n. 198 (conf. Cass. 14 dicembre 1973, n. 3397;; Cass. 9 agosto 1983, n. 5334; contra Cass. 14 dicembre 1973, n. 3397) nel senso di una presunzione assoluta dell’esistenza dell’insolvenza al momento del compimento dell’atto.

Successivamente la giurisprudenza, pur confermando la presunzione di legge sull’esistenza obiettiva dello stato di insolvenza, ha dato ulteriore senso all’affermazione, precisando che nell’azione revocatoria ha esclusivo rilievo l’indagine sulla conoscenza o meno dello stato medesimo da parte del terzo (Cass. 13 giugno 1975, n. 2370; Cass. 23 novembre 1976, n. 4426; Cass. 13 giugno 1978, n. 2936; Cass. 29 novembre 1985, n. 5953; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4559).

Questo orientamento merita di essere ulteriormente precisato. Invero, l’accertamento dell’insolvenza, sebbene sia indiscutibile che l’insolvenza è sempre anteriore al momento in cui viene accertata, non si può estendere, in assenza di una esplicita previsione, sino al momento del compimento dell’atto oggetto della revocatoria. Al riguardo, sulla base dell’id quod plerumque accidit è possibile soltanto una presunzione variamente articolata sulla base della natura dell’atto e, in particolare, della presenza o meno di elementi di anormalità. Questa presunzione, peraltro, non può avere e non ha carattere assoluto poichè gli elementi di anormalità possono trovare moventi diversi da quelli dell’insolvenza (Cass. n. 3397/1973 cit.).

Tuttavia, pur potendosi escludere, come si è detto, una presunzione assoluta di sussistenza dello stato di insolvenza, quest’ultimo non assurge ad autonomo requisito dell’azione revocatoria. Infatti, il legislatore del 1942, abbandonata la rigida via di una determinazione giudiziale dell’inizio dell’insolvenza (già seguita dal codice di commercio del 1882) e scartata la via di una retrodatazione legale non ha certamente seguito la strada dell’accertamento, volta per volta, della data di inizio dell’insolvenza, suscettibile di evidenti diseconomie e di possibili pronunzie contrastanti.

Il legislatore ha scelto la strada di non dare rilievo autonomo alla sussistenza dello stato di insolvenza, preferendo inglobare tale elemento in quello soggettivo della sua conoscenza. Con il che, poichè l’insolvenza si manifesta con segni esteriori, ciò che conta è la conoscenza o meno di tali segni esteriori e, quindi, l’esistenza o meno di tali segni esteriori. La conseguenza di tale scelta del legislatore consiste nel fatto che lo stato di insolvenza non si può considerare oggetto di uno specifico onere di allegazione e di prova, ma è compreso nell’elemento della conoscenza dello stato di insolvenza del quale segue il regime di allegazione e di prova.

Pertanto, non esiste una presunzione iuris et de iure di sussistenza dello stato di insolvenza, ma un regime di allegazione e probatorio differenziato in relazione alla esistenza o meno nell’atto impugnato di elementi di anormalità.

In conclusione lo stato di insolvenza soltanto da un punto di vista logico è un requisito oggettivo della revocatoria fallimentare, mentre da un punto di vista giuridico viene assorbito nel requisito soggettivo della conoscenza dei relativi segni esteriori. La mancanza di questi segni esteriori finisce, perciò, per rilevare non come prova della mancanza dello stato di insolvenza (che pure in ipotesi particolari potrebbe egualmente sussistere), ma come prova della mancanza della relativa conoscenza (Cass. n. 4766/2007 cit.). In contrario non si potrebbe obiettare che, così ragionando, in presenza di apparenti segni esteriori di una insolvenza in realtà insussistente, il convenuto in revocatoria subirebbe egualmente la revoca dell’atto. Infatti, in questo caso, spostando sempre il rilievo delle circostanze dal piano oggettivo a quello soggettivo, il convenuto sarebbe ammesso a provare l’inscientia decoctionis attraverso la prova delle circostanze specifiche ed obiettive che dimostrano l’insussistenza dell’insolvenza e che sorreggono l’inscientia decoctionis. Il che, del resto, nella sostanza è stato affermato più volte dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il convenuto in revocatoria è ammesso a provare la sussistenza di “circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa” (Cass. 7 agosto 1996, n. 7231; Cass. 20 giugno 1997, n. 5540; Cass. 9 gennaio 1998, n. 119; Cass. 23 aprile 2002, n. 5917; Cass. 18 maggio 2005, n. 10432; Cass. 9 maggio 2007, n. 10629; Cass. 6 agosto 2009, n. 17998).

Tanto premesso in via generale, non può esservi dubbio sulla anormalità di un pagamento tramite cessione di un credito, anche se questo è di sicura esigibilità. Infatti, la cessione di credito, sostituendo (o aggiungendo) un debitore ad un altro, lascia il credito almeno temporaneamente insoddisfatto e si traduce, quindi, in un modo di estinzione dell’obbligazione solo potenziale, e comunque non di pronta soluzione, rispetto al quale risulta irrilevante l’eventuale conseguimento degli effetti sperati, trattandosi in ogni caso di un atto solutorio che non è considerato dalla legge nè dalla prassi come un mezzo ordinario di pagamento (Cass. 10 giugno 2011, n. 12736 con specifico riferimento ad un credito IVA; Cass. 5 luglio 1997, n. 6047; Cass. 23 aprile 2002, n. 5917; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1617; Cass. 5 marzo 2007, n. 5057).

La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata sul punto con rinvio alla Corte di appello che si atterrà al seguente principio di diritto: “in tema di azione revocatoria fallimentare la cessione di credito in funzione solutoria, quando non sia prevista al momento del sorgere dell’obbligazione ovvero non sia attuata nell’ambito della disciplina della cessione dei crediti di impresa di cui alla L. n. 52 del 1991, integra sempre gli estremi di un mezzo anormale di pagamento, indipendentemente dalla certezza di esazione del credito ceduto; ne consegue la presunzione della conoscenza dello stato di insolvenza in capo al cessionario, che può vincere tale presunzione non con una prova diretta dell’insussistenza dello stato di insolvenza, che rappresenta solo da un punto di vista logico un presupposto dell’azione, ma con la prova di circostanze tali da fare ritenere ad una persona di ordinaria prudenza ed avvedutezza che l’imprenditore si trovava in una situazione di normale esercizio dell’impresa”.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione della *******., art. 67, comma 2, art. 2697 c.c., nonchè artt. 115 e 116 c.p.c., lamentando che la Corte d’appello erroneamente aveva individuato l’atto revocabile nella sola cessione poichè quest’ultima aveva natura pro solvendo e, pertanto, l’effetto estintivo del debito della fallita società si era verificato soltanto al momento del pagamento da parte del debitore ceduto. Ne conseguiva che erroneamente la Corte di appello non aveva ammesso i mezzi istruttori (riportati in ricorso) diretti a provare la scientia decoctionis in capo alla banca cessionaria.

Il motivo è infondato. Invero, la cessione di credito, che si perfeziona col solo consenso dei contraenti, produce immediatamente l’effetto reale tipico di trasferire al cessionario la titolarità del credito (indipendentemente dal fatto che il contratto venga stipulato in funzione solutoria o a scopo di garanzia); pertanto, il pagamento del debitore ceduto al cessionario estingue un credito di quest’ultimo. Ne consegue che l’atto revocabile, rispetto al quale deve sussistere il requisito temporale del c.d. periodo sospetto, è solo la cessione di credito mentre resta indifferente il fatto che soltanto il successivo pagamento da parte del debitore ceduto estingue, in caso di cessio pro solvendo, l’obbligazione del cedente verso il cessionario. Infatti, dopo la cessione il debitore ceduto adempie, con il pagamento, una obbligazione propria verso il cessionario e la liberazione del cedente è soltanto l’effetto finale del negozio di cessione, condizionato al pagamento del debitore ceduto (Cass. 7 febbraio 1991, n. 1295; Cass. 16 marzo 1991, n. 2821; Cass. 18 agosto 1992, n. 9603; Cass. 19 gennaio 1995, n. 575).

P.Q.M.

accoglie il primo motivo del ricorso e rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 ottobre 2013. 

Redazione