L’Iva va versata anche se l’azienda versa in difficoltà finanziarie (Cass. pen. n. 29751/2013)

Redazione 11/07/13
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Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Torino confermò la sentenza emessa il 29.6.2011 dal giudice del tribunale di Torino, che aveva dichiarato F. A. colpevole del reato di cui all’art. 10 ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per avere omesso di versare l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale per il 2005, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, per un ammontare di € 60.378,00 e lo aveva condannato alla pena di mesi 2, giorni 20 di reclusione, oltre pene accessorie.
L’imputato propone personalmente ricorso per cassazione deducendo mancata assunzione di una prova decisiva e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza dello elemento soggettivo del reato nonché alla valutazione della oggettiva impossibilità dell’imputato ad adempiere regolarmente al pagamento dovuto. In particolare, ribadisce che le difficoltà finanziarie lo avevano costretto a tacitare alcuni creditori (fornitori e dipendenti) nel tentativo di evitare il fallimento e nella speranza di rimediare successivamente al versamento dell’imposta dovuta.

Motivi della decisione

La denunciata mancanza di assunzione e di valutazione di una prova decisiva costituisce una censura assolutamente generica, in quanto non viene nemmeno indicato di che prova si tratterebbe.
Per il resto il ricorso consiste in sostanza nella quasi testuale pedissequa riproduzione del contenuto dell’atto di appello. 1 motivi, pertanto, sono inammissibili per genericità ai sensi dell’art. 591, primo comma, lett. c), cod. proc. pen., in quanto, ovviamente, non tengono alcun conto delle motivazioni contenute nella sentenza impugnata e quindi non possono contenere né contengono, come imposto dall’art. 585 cod. proc. pen., la indicazione specifica delle censure che si rivolgono ai singoli capi e punti del provvedimento impugnato con la indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono le censure stesse. E’ infatti giurisprudenza costante che è inammissibile per genericità il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a enunciare ragioni ed argomenti già illustrati in atti o memorie presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato (Sez. V1, 8.5.2009, n. 22445, *******, n. 244181); e che è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. VI, 11.3.2009, n. 20377, ******, m. 243838; Sez. V, 27.1.2005, n. 1 1933, *********, n. 231708; cfr. anche Sez. VI, 29 ottobre 1996, ***********, n. 206507; Sez. II, 26 giugno 1992, **********, n. 192556; Sez. III, 7 dicembre 1990, *******, n. 186143; Sez. IV, 2 dicembre 1988, *********, n. 180769; Sez. VI, 7 aprile 1988, D’A1terio, n. 179874).
Il ricorso, comunque, si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque manifestamente infondato, avendo la corte d’appello fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sulla sussistenza dello elemento psicologico del reato e sulla insussistenza di cause di giustificazione.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi.
In applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in € 1.000,00.

Per questi motivi

La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 25 giugno 2013.

Redazione