L’avvocato che svolge attività part-time non può cumulare l’indennità di maternità con quella pagata dalla Cassa forense (Cass. n. 15072/2013)

Redazione 17/06/13
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Svolgimento del processo

L’Avv.to B.M. iscritta all’Albo degli avvocati ed anche insegnante scolastico di ruolo (part-time) lamentava avanti il Giudice del lavoro il rigetto della domanda di corresponsione da parte della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense dell’indennità di maternità in quanto già percepita a carico del’INPDAP in relazione al rapporto subordinato con il Miur; il Tribunale di Arezzo accoglieva la domanda con sentenza del 24.2.2005. La Corte di appello di Firenze con sentenza del 11.1.2008 rigettava l’appello della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense. La Corte territoriale rilevava che l’art. 70 D. Lgs n. 151/2001 (che disciplina l’indennità di maternità per le libere professioniste) non stabiliva alcun divieto di cumulo e che l’art. 71 del detto Decreto legislativo, che obbligava l’iscritta alla Cassa a dichiarare l’inesistenza di altro trattamento per maternità, non prevedeva alcuna conseguenza se l’iscritta avesse percepito altro trattamento. La giurisprudenza costituzionale e di legittimità aveva stabilito che l’indennità di maternità ha la finalità di garantire che la lavoratrice non subisca una sostanziale decurtazione del suo tenore di vita durante questa fase particolare della vita e che nel caso di specie la lavoratrice avrebbe percepito solo una scarsa copertura dal rapporto part-time perdendo il trattamento collegato ai contributi alla Cassa collegati all’effettiva attività professionale svolta. L’art. 70 stabiliva peraltro (sino al 2003) non un trattamento massimo, ma minimo correlato alla contribuzione versata. Si imponeva pertanto una interpretazione conforme della norma nel senso di “non ritenere ostativa alla cumulabilità dell’indennità di maternità a carico della Cassa con altre erogate da diversi enti di previdenza la previsione di apposita dichiarazione da corredare alla domanda”. Altrimenti opinando la disposizione finirebbe con il porsi in contrasto con gli artt. 31 secondo comma e con lo stesso art. 3 della Costituzione facendo perdere all’avv.to B. l’indennità di maternità gestita dalla Cassa e correlata ai i ben più consistenti renditi professionali goduti nel periodo di riferimento pregiudicando fortemente il livello di reddito goduto in precedenza.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Cassa con un motivo, corredato da memoria difensiva ex art. 378 c.p.c.; resiste l’intimata con controricorso.

Motivi della decisione

Con il proposto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 70 e 71 D. Lgs n. 151 /2001; nonché l’omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione della sentenza impugnata. L’interpretazione offerta dalla Corte territoriale della normativa in materia è in contrasto con la formulazione letterale dell’art. 71 del citato Decreto legislativo del 2001 che non consente alla Cassa di erogare il trattamento di maternità allorché la lavoratrice abbia già goduto per lo stesso titolo di un trattamento a carico di altro ente previdenziale come nel caso di specie avendo l’Avv.to B. già ottenuto la provvidenza in parola dall’INPDAP in virtù di un rapporto di lavoro part-time nel comparto scuola. La ratio della norma era quella di impedire il cumulo della prestazione; sussisteva inoltre un diverso sistema di finanziamento delle gestione della maternità per le libere professioniste e per i dipendenti pubblici e non sussiste alcun dubbio di legittimità costituzionale in quanto la giurisprudenza della Corte costituzionale non ha mai affermato il diritto della lavoratrice a mantenere lo stesso livello di reddito precedente il periodo di gravidanza.
Il motivo appare fondato e pertanto va accolto. Il thema decidendum è la retta interpretazione dell’art. 71 D. Lgs n. 151 /2001 che così recita al primo comma l’indennità di cui all’art. 70 è corrisposta, indipendentemente dall’effettiva astensione dell’attività dalla competente cassa dall’interessata a partire dal compimento del sesto mese di gravidanza ed entro il termine perentorio di 180 gg. dal parto. Al secondo comma si aggiunge “la domanda, in carta libera, deve essere corredata da certificato medico comprovante la data di inizio della gravidanza e quella presunta del parto, nonché dalla dichiarazione redatta ai sensi del DPR 28.12.2000, n. 445 attestante l’inesistenza del diritto alle indennità di maternità di cui al Capo 2 ed al Capo 11”. Ora, alla luce delle due norme, il diritto in parola può essere richiesto a condizione che la lavoratrice ne faccia domanda, documenti idoneamente lo stato di gravidanza e la data presunta del parto ed attesti con dichiarazione ad hoc l’inesistenza di altro trattamento di maternità come lavoratrice pubblica o autonoma. Si tratta, sotto quest’ultimo profilo, di un requisito essenziale per l’erogazione della prestazione posto che l’art. 71 dispone che la domanda “deve essere corredata”: la finalità della norma è in piena evidenza quella di evitare il cumulo di prestazioni da parte di più enti previdenziali per lo stesso evento e cioè la situazione di maternità, come peraltro previsto anche per altre prestazioni di natura assistenziale o previdenziale. La formulazione della norma appare del tutto chiara ed univoca e non consente una interpretazione diversa dall’impossibilità di godere del trattamento previsto dall’art. 70 nel caso in cui la richiedente goda già di una prestazione di altro ente in quanto, diversamente opinando, la disposizione sarebbe inutiliter data e non avrebbe alcuna utilità; l’argomento per cui l’art. 70 non prevederebbe alcun divieto di cumulo tra prestazioni erogate da più enti per lo stesso titolo è privo di pregio in quanto l’art. 70 definisce i termini della prestazione, mentre l’art. 71 regola in dettaglio le condizioni di erogazione tra le quali in particolare che si documenti- attraverso una autocertificazione- l’insussistenza di prestazioni per la maternità già concessi in virtù di diversi rapporti assicurativi. Infine non possono condividersi i dubbi di legittimità costituzionale della norma in discorso, una volta interpretata alla luce del suo univoco significato letterale e sistematico, in relazione agli artt. 3 e 31, comma secondo, della Costituzione (ed anche in riferimento agli artt. 32 e 37 della Costituzione) posto che la giurisprudenza costituzionale ha precisato che l’indennità di maternità “serve ad assicurare alla madre lavoratrice la possibilità di vivere questa fase della sua esistenza senza una radicale riduzione del tenore di vita che il suo lavoro le ha consentito di raggiungere e ad evitare che alla maternità si ricolleghi una stato di bisogno economico” (Corte cost. nn. 1/1987, n. 276/88, n. 332/88, n. 61/91, n. 132/91, n, 423/95; n. 3/98), ma che l’orientamento della Corte delle leggi così come ricostruito nello stesso provvedimento impugnato parla di una “radicale” riduzione del tenore dello vita, nonché di uno stato di bisogno, situazioni che quindi certamente non coincidono automaticamente con una determinazione dell’indennità in una misura ridotta rispetto alla precedente retribuzione goduta prima dello stato di gravidanza. Lo stesso concetto di “tenore di vita” (cfr. sentenza n. 3/1998) non è sovrapponibile a quello di livello retributivo goduto in senso stretto, essendo valutabile nel suo complesso e tenuto conto di plurimi elementi di giudizio. Peraltro non è neppure automaticamente estensibile una giurisprudenza formatasi in gran parte in ordine alle prestazioni di maternità godute in relazione ad una singola professione o ad un singolo rapporto di lavoro autonomo o subordinato al caso in esame, in cui si discute del vantato cumulo tra prestazioni per maternità provenienti da enti diversi per tipologie di lavoro diverso (professionale e di dipendenza pubblica). Si deve anche ricordare che questa Corte, in relazione proprio all’indennità di maternità dovuta alle libere professioniste, ha osservato che la determinazione del sistema indennitario “rientra nella discrezionalità del legislatore che è libero di modulare diversamente nel tempo e a seconda delle categorie di lavoratrici madri, il livello di tutela della maternità con misure di sostegno legate a fattori di variabilità incidenti ora sulla salvaguardia del livello di reddito delle fruitrici dell’indennità ora ad esigenze di bilancio, tenuto conto dell’incidenza quantitativa delle erogazioni che, per quanto riguarda la professione legale, è mutata rispetto ai primi anni di applicazione della legge” (cass. n. 22023/2010). L’evoluzione della medesima normativa in esame per effetto della legge n. 289/2003 mostra peraltro, essendo stata introdotta una misura massima per le l’indennità di maternità in favore delle libere professioniste, la mancanza di correlazione stretta tra livelli retributivi goduti (e contributi erogati) e la misura della prestazione di maternità. Infine la considerazione per cui la lavoratrice in concreto abbia subito una riduzione molto sensibile del tenore di vita precedentemente goduto in quanto ha ottenuto la sola prestazione a carico dell’INPDAP in relazione ad un rapporto part- time non appare risolutiva per decidere la presente controversia in quanto ciò è avvenuto per scelta della stessa ricorrente che non ha optato per il trattamento offerto dalla Cassa, ma per quello dell’ente di previdenza pubblico, senza quindi usufruire degli ingenti (secondo la difesa della lavoratrice) contributi professionali versati. Ma questa conseguenza è stato il frutto di una decisione della stessa lavoratrice che- secondo la decisione impugnata – ha presentato domanda alla Cassa dopo aver già ottenuto il trattamento INPDAP e quindi senza una preventiva informazione sulla normativa del settore che avrebbe, con ogni probabilità, evitato questa penalizzante soluzione.
Si deve quindi cassare la sentenza impugnata e, non necessitando la controversia ulteriori approfondimenti istruttori, può decidersi la causa nel merito con il rigetto della domanda.
Stante l’assenza di precedenti di legittimità sussistono giusti motivi per compensare le spese tra le parti dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte: accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa le spese dell’intero processo.

Redazione