L’alloggio del portiere non si può locare a terzi (Cass. n. 18501/2012)

Redazione 26/10/12
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Svolgimento del processo

Il 5 giugno 2004 il Tribunale di Napoli rigettava la domanda proposta da L., R., A. e ******, volta ad ottenere la dichiarazione di finita locazione di un immobile acquistato dal loro dante causa N.A. e destinato a portineria, che, a loro avviso, non era stato mai adibito dal Condominio, di cui l’immobile faceva parte, ad abitazione del portiere e/o portineria, bensì utilizzato come deposito.

Su gravame degli originar attori la Corte di appello di Napoli il 24 ottobre 2006 ha rigettato la proposta impugnazione.

Avverso siffatta decisione propongono ricorso i M., affidandosi a due motivi, corredati dei prescritti quesiti.

Resiste con controricorso l’intimato Condominio.

Le parti hanno depositato rispettive memorie.

Motivi della decisione

1.-Con il primo motivo ( violazione e falsa applicazione degli artt. 832, 1133, 1135, 2697, 2727, 2728, 2725, 2730, 2731, 2934, 2935, 2946 c.c.; artt. 447 bis e 667 c.p.c.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia – art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), in estrema sintesi, i ricorrenti lamentano che erroneamente il giudice dell’appello, a fronte della loro eccezione di estinzione del vincolo, avrebbe ritenuto soddisfatto l’onere probatorio a carico del Condominio con la unica produzione in giudizio dell’atto di compravendita del notaio ******** del 1 agosto 1964, che avrebbe comprovato la esistenza del vincolo di destinazione, mentre essi appellanti avevano sostenuto la estinzione dello stesso per non uso conseguente all’esercizio del servizio di portierato.

La censura è infondata nei sensi di seguito precisati. Infatti, l’atto per notaio ******** era, dal punto di vista storico e giuridico l’unico atto cui non poteva non riferirsi il giudice del merito, essendo quello con cui gli originari acquirenti avevano “caratterizzato” l’immobile de quo ed è per questo che l’ha ritenuto fondamentale.

In quel documento “si dava espressamente atto che gli acquirenti avevano convenuto sulla destinazione a portineria dei locali in questione” (p. 7 sentenza impugnata) e dopo, sulla base del documento del suo tenore letterale e delle intenzioni degli originari acquirenti, quali da esso ragionevolmente emergevano, ha qualificato obbligazione propter rem il vincolo predetto e, seguendo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cass. n. 6474/05).

Ne ha, quindi, dedotto, anche a seguito della prova testimoniale, che non vi era stata alcuna dismissione del servizio, per cui sussisteva quel vincolo, fondato sulla dimostrazione del diritto del proprietario e suscettibile di trasmissione in favore dei successivi acquirenti anche in mancanza di trascrizione, peraltro possibile ex art. 2646 c.c. (Cass. n. 4435/01; Cass. n. 11068/95) essendo, invece, necessario che sia stata assunta dal Condominio una deliberazione che avesse escluso l’immobile adibito a portineria o ad alloggio del portiere dalla utilizzazione comune (Cass. n. 4435/01).

Alla luce di tale dictum, che la sentenza impugnata condivide, e per quanto si evince anche dalla parte finale della nota di trascrizione dell’atto notaio ********, così come riportata dal resistente Condominio, non vi è motivo di ritenere che, in realtà, in quell’atto si sia voluto costituire una servitù o addirittura un diritto reale di uso ex art. 1021 c.c. a favore del Condominio, ma solo una obbligazione propter rem che, per quanto accertato in sede di merito, non si è affatto estinta.

Di vero, a suffragio dell’assunto degli attuali ricorrenti non vi era alcuna delibera assembleare nè un fattuale cambio di destinazione del predetto locale, ma solo è risultato un occasionale intervallo di tempo nella sospensione del servizio di portierato, che trovava ragionevole spiegazione nei tempi di reclutamento del dipendente (portiere) e delle modalità di determinazione contrattuale proprio di un ente di gestione (p. 8 sentenza impugnata).

In presenza di tali elementi cade l’elemento fondante la censura, ossia il mancato uso secondo la destinazione pattizia dell’immobile e correttamente il giudice dell’appello ha ritenuto che il Condominio, a fronte della dedotta esistenza del rapporto locatizio (assunto fatto proprio dagli appellanti), non doveva che limitarsi ad una mera contestazione, peraltro corredata dalla produzione del documento originario, mentre i M. avrebbero dovuto provare il fatto costitutivo della domanda e il fatto impeditivo all’accoglimento della eccezione sollevata dal Condominio, ossia che l’immobile non fosse solo portineria, ma alloggio del portiere.

Quindi, nessuna violazione dell’art. 2697 c.c., è addebitabile al giudice a quo e lo stesso quesito non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, con l’effetto che risulta assorbito il profilo del vizio motivazionale, indicato e formulato in tal senso.

Di qui, anche il rigetto della eccezione del resistente Condominio (p. 9-11 controricorso) in ordine alla corrigenda motivazione ex art. 384 c.p.c. con la richiesta di dare una qualificazione giuridica diversa, ossia di vera e propria servitù o comunque di un diritto reale di uso ex art. 1021 c.c. a suo favore e soggetto a prescrizione ventennale per non uso o in applicazione dell’art. 1073 c.c. o del comb. disp. att. artt. 1026 e 1014 c.c., a quanto previsto nell’atto notarile.

Di vero, a prescindere dalla circostanza che la qualificazione giuridica di quanto dedotto in giudizio è compito esclusivo del giudice del merito, che si sottrae al sindacato di legittimità se congruamente e logicamente motivato, come è accaduto nel caso in esame, va osservato che la deduzione importerebbe una valutazione in fatto che è preclusa a questa Corte (Cass. n. 4148/74).

Per concludere su questo punto va affermato che il giudice a quo ha accertato in modo compiuto che nell’atto per notaio ******** l’immobile era soggetto al vincolo di destinazione; vincolo che si configurava come obbligazione propter rem stante la costituzione di tale vicolo per volontà delle originarie parti acquirenti e che, in quanto caratterizzato dalla tipicità, è sorto nel contratto del dante causa secondo il contenuto previsto dalla legge, ossia, come nella specie, in favore del condominio, cui per voluntas legis, come è pacifico, si applicano le norme sulla comunione (art. 1104 c.c.) (Cass. n. 25289/07; Cass. n. 5888/10).

2.- Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1579, 1988, 2697, 2702, 2720, 2727, 2729, 2735, 2934, 2935; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia – art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), in buona sostanza, i ricorrenti lamentano che erroneamente il giudice dell’appello avrebbe ritenuto provato da parte del Condominio il mantenimento del vincolo (p. 12 ricorso).

La censura, così come proposta, e ribadita nei quesiti (p. 16 ricorso) è in realtà rivolta a una rivisitazione delle prove diversa da quella attuata nella sentenza impugnata.

Di vero, il giudice dell’appello ha dato rilievo non solo al documento per così dire pattizio, ma anche alle deposizioni testimoniali, anche sotto il profilo della loro attendibilità (v. p. 8 sul teste C., sentenza impugnata), alle voci inserite nel “bilancio”, all’annuale incasso da parte del Condominio di un importo inferiore al comune canone, sostenendo che si trattava di una mera indennità per l’utilizzo del locali ed escludendo una valenza confessoria alle ricevute rilasciate dall’amministratore e inserite in atto approvato dall’assemblea (p. 9-10 ricorso).

Appare, quindi, di tutta evidenza che la motivazione risulta appagante sotto ogni profilo, sia logico che giuridico, anche perchè confortata da puntuali richiami a giurisprudenza di questa Corte (v. p. 9 sentenza impugnata e poi p.10 ) a parte la considerazione che il primo quesito non coglie la ratio decidendi della decisione ed in parte si appalesa meramente enunciativo, mentre il secondo risulta smentito per quanto sopra evidenziato.

Ma, anche a volerla ritenere, come deduzione di un errore di diritto, oltre quanto evidenziato in sentenza e di cui si è dato conto, in linea di principio va affermato che in presenza di una obbligazione propter rem il c.d. corrispettivo è irrilevante al fine di escludere la sussistenza di una tale obbligazione che costituisce, comunque, un vincolo di i destinazione al bene ed è insensibile, pertanto, ad ogni connotazione economica, essendo esso caratterizzato dalla situazione giuridica del bene stesse, del quale segue le vicende nel corso del tempo, a meno che non risulti dismesso per espressa e ritualmente redatta volontà delle parti.

Circostanza questa che, come detto, non è risultata provata.

Conclusivamente il ricorso va respinto e le spese che seguono la soccombenza vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.200, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori come per legge.

Redazione