Istigazione ed induzione alla coltivazione di droga (Cass. pen. n. 17752/2012)

Redazione 10/05/12
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Svolgimento del processo

Il PROCURATORE GENERALE presso la Corte d’Appello di Trento ricorre in cassazione avverso la sentenza, in data 18.02.2011, della stessa Corte con la quale F.M., in riforma della sentenza di condanna del GUP del Tribunale di Rovereto del 15.12.2009, è stato assolto dai reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 82, perchè il fatto non costituisce reato.

Premette il ricorrente che il F. era stato giudicato in primo grado per avere pubblicamente istigato alla coltivazione e consumazione di marijuana mediante indicazioni su diversi siti internet sul modo di seminare, fra crescere, far maturare e ottenere una resa, provvedere al raccolto, con precisazione dei valori THC, CSD e CSN e pubblicizzando, inoltre, l’uso di lampade, fertilizzanti e bilance.

Si denunciano vizio di motivazione e violazione di legge.

Premette il ricorrente che la Corte distrettuale, dopo un’analisi dei comportamenti contestati con riferimento alla giurisprudenza di legittimità in materia, giunge ad una conclusione chiaramente colpevolista, ma, poi, con salto logico assolve l’Imputato sostenendo la sua buona fede. Tale inaspettata conclusione per il ricorrente è fondata sulla circostanza che il F. in passato era stato assolto da analoga imputazione e, quindi, la Corte ha inteso riferirsi alla disposizione dell’art. 5 c.p. sostenendo la giustificabile ignoranza della portata esatta della norma penale incriminatrice, propiziata dalla pregressa sentenza. Rileva il ricorrente che la precedente sentenza non è stata citata per esteso e nei suoi punti salienti, sicchè non è dato comprendere perchè nel caso di specie si debba derogare al principio generale secondo il quale l’ignoranza della legge non scusa quando è lo stesso prevenuto a mettere in guardia i destinatari delle sue informazioni circa l’illegalità della coltivazione di piante di marijuana o di canapa indiana.

Con un ultimo motivo il Procuratore ******** evidenzia altro aspetto di violazione di legge laddove la Corte ha affermato che, quanto meno, nella volontà e rappresentazione presenti nell’animo del F., si tratterebbe di una semplice propaganda di un punto di vista antiproibizionista.

 

Motivi della decisione

Il ricorso va accolto.

La motivazione della sentenza impugnata è affetta da contraddittorietà laddove, come rileva il ricorrente, da una premessa, con cui si evidenzia che i comportamenti contestati integrano, anche sulla scorta della giurisprudenza in materia di questa Corte, il reato contestato, si giunge alla assoluzione dell’imputato sul rilievo di un suo condizionamento psicologico dovuto ad una precederete assoluzione da analoga imputazione.

Ma a ben vedere, ritiene il Collegio che non si tratti tanto di contraddittorietà della motivazione, che potrebbe essere coerente se effettivamente alla premessa corrispondesse la configurabilità di una effettiva inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, piuttosto si verte in una palese violazione di legge per l’erronea interpretazione della disposizione dell’art. 5 c.p., che, sebbene in sentenza non si sia fatto esplicito riferimento ad essa, la si ricava dal contesto globale della motivazione, laddove è stato affermato che: “considerata fa precedente specifica vicenda giudiziaria dell’attuale imputato, già assolto per aver fatto cose non diverse da quelle oggi contestategli, deve essere valutata a suo favore la possibile implicazione di condizionamento psicologico determinato da quella decisione favorevole: condizionamento che, verosimilmente, gli aveva indotto la convinzione di una liceità delle condotte, purchè queste fossero attuate attraverso frammentazioni e le formali separazioni tematiche, tanto è vero che il F., successivamente, aveva anche aumentato il numero dei siti accessibili, portandoli da due iniziali ai numerosi individuati con l’indagine ultima”.

Innanzitutto, si conviene con il ricorrente sul rilievo che la Corte avrebbe dovuto, nel rilevare “il condizionamento psicologico”, riportare anche i dati fattuali oggetto della precedente sentenza per verificarne l’identità e/o corrispondenza con quelli della odierna contestazione, questa carenza già di per sè rende la motivazione non congrua, ed anche contraddittoria; infatti, nel momento in cui si rileva che, rispetto alla vicenda processuale pregressa, il F. aveva anche aumentato i siti internet per veicolare le sue informazioni, già si evidenzia una significativa differenza di condotte.

Ma ciò che rende palese l’erronea interpretazione della disposizione normativa in questione (per altro è stato più volte affermato da questa Corte che l’indagine circa “la buona fede” dell’imputato nel ritenere consentita la condotta contestata deve essere estremamente rigorosa, anche alla luce della pronunzia della Corte Costituzionale n. 364/1988 circa la inevitabilità dell’ignoranza della legge penale) nell’aver ritenuto da parte della Corte distrettuale la sussistenza “della buona fede” è data dalla circostanza che lo stesso imputato ha avvertito “l’esigenza”, ovviamente per assicurarsi l’impunità, di mettere in guardia i destinatari delle sue informazioni circa la illegalità della condotta di coltivazione di piante da cui si ricavano prodotti stupefacenti, con ciò dimostrando di ben sapere la rilevanza penale della sua condotta.

Conferente è l’osservazione del ricorrente nel rilevare l’astuzia dell’imputato, il quale ha frazionato in molti e diversi siti internet i suoi “preziosi” consigli. Di modo che ogni singolo sito assumesse un aspetto commerciale asettico, e solo dall’unione degli stessi apparisse il reale intento di diffondere la coltivazione della canapa indiana al fine di ottenere la produzione di stupefacenti.

Dunque, da tale contesto emerge chiaramente la consapevolezza da parte dell’imputato della illiceità della condotta di coltivazione di tali piante.

Rilevata la incongruità della motivazione essa determina la nullità della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trento per un nuovo giudizio in ordine alla applicabilità della discriminante di cui trattasi.

Relativamente alla censura, oggetto dell’ultimo motivo del ricorso del Procuratore Generale, essa è da ritenersi infondata in quanto, come già rilevato in premessa, la Corte non ha affatto messo in dubbio la sussistenza del fatto così come contestato, ma ha solo ritenuto che esso non costituisse reato per la carenza dell’elemento psicologico determinata dalla discriminante di cui all’art. 5 c.p..

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Trento.

Redazione