Ispezioni fiscali: necessaria l’autorizzazione se lo studio comunica con l’abitazione (Cass. n. 4140/2013)

Redazione 20/02/13
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Svolgimento del processo

Cori avviso di accertamento notificato il 16.2.2000 l’agenzia delle entrate di Bari, rettificò la dichiarazione Iva della s.r.l. F.lli S. per l’anno 1996, irrogando sanzioni nella misura di legge.

La rettifica trovò fondamento in un p.v. di constatazione della polizia tributaria, a mezzo del quale fu contestata un’indebita detrazione di imposta conseguente alla registrazione di fatture di acquisto per operazioni inesistenti.

La società propose ricorso, con esito favorevole, alla commissione tributaria provinciale di Bari. La relativa sentenza, gravata dall’agenzia delle entrale, fu confermata in appello, dalla commissione regionale delle Puglie, sulla preliminare e assorbente considerazione che l’accesso nei locali dell’impresa non era stato autorizzato dal procuratore della Repubblica. Donde sia l’accesso che gli atti consequenziali erano da ritenere invalidi e insuscettibili di produrre effetti.

Invero la commissione ritenne provato – in considerazione dei prodotti certificati anagrafici, della planimetria dell’immobile e di. uno stralcio di deposizione testimoniale resa in separato procedimento penale da uno dei militari verbalizzanti che l’opificio in questiono fosse in verità adibito a uso promiscuo, avendo costituito al contempo sede dell’impresa e (in locali comunicanti) luogo di abitazione familiare.

Avverso la sentenza d’appello, pubblicata il 2 agosto 2005 e non notificata, l’agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione sonetto da un motivo.

La società f.lli S. resisto con controricorso, nel quale a sua volta propone ricorso incidentale affidato a un motivo.

Motivi della decisione

1. – I ricorsi, principale e incidentale, debbono essere preliminarmente riuniti in applicazione dell’art. 335 c.p.c..

2. – Con l’unico motivo dei ricorso principale l’agenzia delle entrate denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1912, art. 52, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè vizio di motivazione.

Lamenta che la succinto. motivazione dell’impugnata sentenza non consente di intendere con esattezza cosa la commissione abbia inteso per “uso promiscuo”; in particolare se, con tale locuzione, abbia inteso riferirsi all’uso, tanto commerciale – industriale, quanto abitativo, degli stessi locali, ovvero alla semplice contiguità, e possibilità di accesso, tra i locali adibiti a opificio e i locali adibiti ad abitazione.

Sostiene che, ove intesa la statuizione in fatto in tal secondo senso, errata ne sarebbe la conclusione in diritto, dal momento che la fattispecie prevista nell’art. 52 cit. si realizza quando nello stesso locale il soggetto contestualmente abiti e svolga la propria attività d’impresa; mentre, in caso di abitazione contigua ai locali di esercizio dell’impresa, l’autorizzazione del p. m. si rende necessaria solo per eventualmente accedere ai locali destinati ad abitazione privata.

Se invece intesa nel primo senso, la sentenza – aggiunge la ricorrente – sarebbe viziata nella motivazione, dal momento che il convincimento sarebbe stato insufficientemente argomentato con rinvio a dati planimetrici e anagrafici – evidenzianti accessi esterni dell’opificio nettamente separati da quello dell’abitazione, e a uno stralcio di deposizione in verità allusiva della esistenza di un’abitazione (della famiglia S.) soltanto annessa.

3. – Il motivo è infondato; a tanto induce la corte a non esaminare l’eccezione preliminare formulata da parte controricorrente sulla rilevanza preclusiva di un supposto giudicato esterno.

4. – L’accertamento in fatto, di cui all’impugnata sentenza, evidenzia testualmente – con affermazione sui punto non contrastata dall’amministrazione finanziaria – che nella specie i locali adibiti, ad abitazione e quelli adibiti a opificio erano distinti mia adiacenti, e che tra gli uni e gli altri vi erano porte di comunicazione. Tanto legittima l’inferenza circa l’uso promiscuo dei locali complessivamente considerati, posto che questa corte ha affermato che si ha, appunto, destinazione a uso promiscuo, agli effetti del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, non soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi (v. da ultimo Cass. n. 16570/2011).

In simile eventualità è comunque necessaria l’autorizzazione all’accesso da parte del procuratore della Repubblica, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 1, (sebbene non essendo richiesta anche la presenza di gravi indizi di violazioni di norme del medesimo D.P.R. secondo quanto invece stabilito dal comma 2, della disposizione de qua allo specifico fine di reperire, in locali diversi da quel il destinati all’attività d’impresa, libri, registri, documenti e scritture).

L’autorizzazione all’accesso da parte dell’a.g., in quanto diretta a tutelare l’inviolabilità del domicilio privato, e quindi, indirettamento, io spazio di libertà del contribuente, rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’atto e delle relative conseguenti acquisizioni (per riferimenti, Cass. n. 6903/2011).

Giacchè il principio di inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita si applica anche in materia tributaria, in considerazione della garanzia difensiva accordata, in generale, dall’art. 24 Cost. (v. Cass. n. 8181/2007; n. 19689/2004).

Consegue il rigetto del ricorso principale.

5. – L’unico motivo del ricorso incidentale, col quale la società, denunziando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, e art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè omessa e insufficiente motivazione su punto decisivo, si duole dell’avvenuta compensazione delle spese processuali, è inammissibile.

Il giudice di merito ha ritenuto di., compensare le relative spese per giusti motivi. E, la fattispecie processuale è soggetta alla disciplina di cui all’art. 92 c.p.c., anteriore alla riforma ex L. n. 263 del 2005.

L’unico vincolo ivi incontrato dal giudice del merito nel regolamento delle spese processuali dovevasi ritenere rappresentato da divieto di porre le stesse – quand’anche solo parzialmente – a carico della parte rimasta integralmente vittoriosa (cfr. tra le tante Cass. n. 13057/2008).

Quindi, se pur si assuma che tinche nel vigore del citato anteriore testo dell’art. 92 c.p.c., il provvedimento di compensazione delle spese per giusti, motivi deve trovare un adeguato – ancorchè solo implicito – supporto motivazionale (sin che Cass. n. 8699/2009), può osservarsi che nessuna specifica censura si palesa in tal senso svolta nel controricorso, al fine di evidenziare in qual senso il riferimento ai giusti. motivi, ai cui alla sentenza, non sarebbe sufficiente, alla luce della complessiva motivazione alludente a un non semplice profilo di fatto governante il significato dell’espressione “uso promiscuo”, a esprimere la ratio decidendi.

L’esito dei ricorsi, determinando reciproca soccombenza, giustifica, anche in questa sede di legittimità, la compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta; compensa le spese processuali.

Redazione