Irretroattive le norme del pacchetto sicurezza sulla confisca per equivalente (Cass. pen. n. 14044/2013)

Redazione 25/03/13
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Svolgimento del processo

1. La Corte di appello di Palermo, con il decreto in epigrafe, disponeva il sequestro e la confisca di un fabbricato e di un terreno intestati a O.G., in accoglimento di un atto di impugnazione del P.M. avverso un decreto adottato dal Tribunale di Trapani il 22/03/2011.

Il Tribunale, con quella prima decisione, aveva rigettato una richiesta del Procuratore della Repubblica di Palermo per l’applicazione a carico dell’ O. di misure di prevenzione personali e patrimoniali, argomentando che il disposto dell’art. 166 c.p., comma 2, doveva intendersi preclusivo all’accoglimento dell’istanza nel caso di specie: il proposto, infatti, risultava aver riportato condanna per il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7, ma con il beneficio della sospensione condizionale. La previsione di cui al ricordato art. 166 doveva in particolare essere interpretata, secondo i giudici di prime cure, come ostativa all’adozione non solo di misure di prevenzione di carattere personale, ma anche di quelle patrimoniali: ciò nonostante le modifiche apportate al quadro di riferimento normativo dal c.d. “pacchetto sicurezza” del 2008 (D.L. n. 92) e 2009 (L. n. 94), con l’introduzione di ipotesi di autonoma percorribilità del procedimento di prevenzione anche se strumentale all’applicazione di misure patrimoniali svincolate da una presupposta misura personale. In ogni caso, anche laddove si fosse inteso aderire ad una contraria esegesi, il Tribunale rilevava che la condanna riportata dall’ O. era stata pronunciata in epoca antecedente rispetto alle novelle anzidette, con la conseguente non applicabilità delle norme oggetto di riforma in relazione all’art. 166 cod. pen., avente natura sostanziale.

La Corte di appello, in accoglimento delle ragioni di gravame avanzate dal Pubblico Ministero, osservava invece che il citato art. 166 deve interpretarsi nel senso della non applicabilità di misure di prevenzione che presuppongano un giudizio di attuale pericolosità, laddove quel giudizio sia stato escluso da una prognosi favorevole circa la futura regolarità di condotta del soggetto condannato a pena condizionalmente sospesa: tale presupposto, tuttavia, è richiesto solamente per le misure di carattere personale, diversamente dalle misure di prevenzione patrimoniali che – ai sensi della L. n. 575 del 1965, art. 2-bis, comma 6-bis, comma introdotto dal D.L. n. 92 del 2008, convertito in L. n. 125 del 2008, e poi modificato dalla L. n. 94 del 2009 – possono essere oggi applicate disgiuntamente, dunque prescindendo dalla verifica della perdurante pericolosità del proposto.

Soluzione, questa, in linea con la costante giurisprudenza di legittimità in tema di autonomia del procedimento di prevenzione reale rispetto all’azione giudiziaria di prevenzione personale (essendo un patrimonio di origine illecita “pericoloso in sè”, si da potersi parlare di una vera e propria actio in rem), e idonea ad evitare irragionevoli disparità di trattamento: ad esempio, fra un soggetto comunque condannato per fatti costituenti gravi reati, sia pure se con i benefici di legge, e chi invece risulti collaboratore di giustizia ovvero, per quanto incensurato, sia l’erede di appartenenti ad associazioni mafiose.

La Corte sottolineava altresì che il principio di non retroattività della legge penale sfavorevole, ritenuto dal Tribunale applicabile alla fattispecie e parimenti invocato dalla difesa del proposto, non poteva intendersi operante se non con riguardo a norme incriminatrici, e non già a quelle disciplinanti le misure di prevenzione, per cui occorre tenere conto della normativa in vigore al momento dell’applicazione, ai sensi dell’art. 200 cod. pen.; nè avrebbe potuto assumere rilievo l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il citato art. 200 deve intendersi non applicabile all’ipotesi della confisca c.d. “per equivalente”, di cui all’art. 322-ter cod. pen., attesa la natura eminentemente sanzionatoria di tale eccezionale istituto.

Ergo, “poichè l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, per effetto della novella legislativa del 2008, prescinde dall’esistenza di una pericolosità attuale, ne consegue che ai fini della confisca rileva soltanto il requisito della illecita modalità di acquisizione, ed è dunque tale presupposto che deve persistere al tempo dell’applicazione della misura”. In base a tale principio, la Corte di appello ravvisava oggettiva sproporzione fra gli esborsi necessari all’ O. per l’acquisto dei due beni immobili, di cui il P.M. aveva sollecitato il sequestro e la confisca, e le condizioni economiche del proposto e dei suoi familiari: ciò a fronte della pacifica appartenenza dello stesso O. all’associazione mafiosa attiva nel trapanese, stando alle circostanze di fatto acclarate nel processo celebratosi a suo carico, e tenendo conto che gli acquisti immobiliari risalivano al 2004, dunque ad epoca concomitante o posteriore rispetto alle condotte già contestategli in sede di giudizio penale.

Ai fini della ricostruzione del reddito di origine lecita del proposto e della di lui moglie, la Corte evidenziava in particolare l’impossibilità di tenere conto di redditi da partecipazione in società esercenti attività d’impresa, quanto in particolare alla Sicil Calcestruzzi S.r.l. (le cui quote, ritenute oggetto di fittizia intestazione, erano già state confiscate). Escludeva poi la possibilità di riconoscere valenza dirimente ai dati offerti dalla difesa dell’ O. in ordine all’attività svolta dal proposto quale titolare di una impresa edile, sia perchè gli importi di maggior rilievo si riferivano al mero volume di affari, sia perchè i redditi segnalati – pari a circa 191.000,00 Euro – riguardavano il periodo dal 1989 al 2003, portando così a ricostruire per ciascuna delle annualità cifre insufficienti a fronteggiare le stesse esigenze di mantenimento del nucleo familiare.

2. Propone ricorso per cassazione O.G., unitamente al proprio difensore, deducendo violazione ed erronea applicazione degli artt. 2, 166, 200, 202 e 203 cod. pen., nonchè del R.D. n. 262 del 1942, artt. 11 e 12, L. n. 575 del 1965, art. 2-bis, nel testo come da ultimo modificato.

Il ricorrente espone, in punto di corretto inquadramento del problema di diritto intertemporale ravvisabile nella fattispecie concreta, che soltanto con la L. n. 94 del 2009, e per la prima volta, è stata introdotta nell’ordinamento la possibilità di applicare misure di prevenzione patrimoniali indipendentemente dalla verifica dell’attuale pericolosità sociale del proposto: quest’ultimo requisito, però, fino al 2009, doveva intendersi immanente alla disciplina sia delle misure di prevenzione che delle misure di sicurezza, come del resto reso evidente dalla circostanza che la previsione di cui all’art. 200 cod. pen., dettata appunto in tema di queste ultime, risultava pacificamente estesa nell’interpretazione giurisprudenziale anche alle misure di prevenzione, “sulla base del parallelismo tra le due categorie”. Perciò, secondo l’ O., “è il requisito dell’attualità della pericolosità sociale che ha permesso alla giurisprudenza, sino all’entrata in vigore della L. 15 luglio 2009, n. 94, l’equiparazione delle misure di sicurezza e di prevenzione ai fini dell’applicabilità alle seconde della disciplina dell’art. 200 cod. pen., dettata per le prime”.

Venendo tuttavia meno il necessario presupposto dell’accertamento della perdurante pericolosità sociale ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione (patrimoniale), per effetto della più volte ricordata novella, non sarebbe più possibile affermare l’esistenza del “parallelismo” sopra accennato fra le due categorie di misure. Se è innegabile che le misure di sicurezza richiedano ancora detta verifica, dovendosi altresì considerare che l’art. 200 cod. pen. risulta essere stato sottoposto a positivo scrutinio di legittimità costituzionale proprio in ragione della “correlazione delle misure alla pericolosità, che è situazione, per sua natura, attuale” (il ricorrente richiama la sentenza n. 19/1974 e l’ordinanza n. 392/1987 della Corte Costituzionale), ritiene l’ O. che non sia più legittimo equiparare alle misure di sicurezza le misure di prevenzione patrimoniali, quanto meno ai fini dell’applicabilità a queste ultime della previsione ex art. 200 cod. pen..

Ne conseguirebbe, pertanto, l’impossibilità di applicare alla fattispecie concreta le norme vigenti al momento del provvedimento dispositivo della misura di prevenzione, bensì quelle in vigore all’epoca delle condotte che si assumono fondare l’adozione della misura medesima: ciò non solo in base al disposto di cui all’art. 2 cod. pen., avendo la novella del 2009 comportato quanto meno una “modifica mediata di una norma di diritto sostanziale quale è l’art. 166 cod. pen.”, ma anche in virtù del principio generale sancito dall’art. 11 preleggi, norma che non consente ad una legge di avere effetto retroattivo.

L’ O. segnala altresì di avere già subito, contestualmente alla pronuncia ex art. 444 cod. proc. pen. intervenuta nei suoi confronti, la confisca di quote sociali e beni mobili ritenuti in relazione con gli addebiti a lui contestati, ai sensi del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, sicchè deve ritenersi illegittimo ricorrere oggi al diverso istituto di cui alla L. n. 575 del 1965, art. 2-bis – comunque fondato sugli stessi presupposti – per apprendere beni ulteriori e del tutto svincolati dai fatti oggetto di quella sentenza.

Rappresenta infine che non vi sarebbe alcuna irragionevole disparità di trattamento fra le ipotesi enunciate dalla Corte di appello, atteso che una sentenza di assoluzione non comporta comunque alcun giudizio in termini di pericolosità sociale (che invece viene espresso, negando l’attuale pericolosità, laddove ad un soggetto condannato si conceda il beneficio della sospensione condizionale), mentre non è sufficiente – per consolidata giurisprudenza – avere intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia per considerare ipso facto esclusa detta pericolosità.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato.

1.1 Il Procuratore generale presso questa Corte, per confutare le ragioni esposte a sostegno dell’impugnazione, argomenta che “per l’art. 166 cod. pen. la prognosi positiva di emenda, giustificante la concessione del beneficio ex art. 163 cod. pen., osta ad una valutazione di attuale pericolosità sociale del condannato che sia basata sulla sola sentenza di condanna, ma non inibisce nè la valutazione delle emergenze fattuali risultanti dal processo ai fini di una incidentale valutazione di pericolosità sociale pregressa, nè l’adozione disgiunta della confisca di prevenzione secondo il regime delle novelle ex L. n. 125 del 2008 e L. n. 94 del 2009, di immediata applicabilità ai sensi dell’art. 200 cod. pen., giusta quanto ribadito dalla Cassazione nella sentenza n. 26751/2009”.

Aggiunge quindi che “le censure mosse dal ricorrente a tale ultima decisione, censure in linea con la dottrina che, annotando tale sentenza, ha ricondotto al paradigma dell’art. 7 della C.E.D.U. la confisca di prevenzione, onde affermare l’irretroattività di detta novella, non sono fondate, dal momento che per un consolidato ed ormai risalente orientamento giurisprudenziale … la confisca di prevenzione va ricondotta nell’ambito di quel tertium genus costituito da una sanzione amministrativa equiparabile, quanto al contenuto ed agli effetti, alla misura di sicurezza”.

1.2 L’orientamento giurisprudenziale da ultimo accennato risulta espresso con la pronuncia delle Sezioni Unite n. 18 del 03/07/1996, *********, che – nell’affermare la sostanziale equiparazione tra la confisca prevista nell’ambito del procedimento di prevenzione (nei confronti di persona indiziata di appartenere ad associazione di tipo mafioso) e la misura di sicurezza di cui all’art. 240 c.p., comma 2, – aveva sottolineato in particolare la significatività delle innovazioni conseguenti alla L. n. 646 del 1982, nel prevedere ipotesi di “pericolosità qualificata” per soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose, nonchè nell’introdurre per la prima volta la possibilità di disporre misure patrimoniali.

Nella motivazione della richiamata pronuncia si evidenziava che “mentre in tema di sorveglianza speciale di p.s., di obbligo di soggiorno e di imposizione di una cauzione, ci si muove sicuramente nell’ambito giuridicamente riconducibile alle finalità vere e proprie di misure preventive … e che alla stessa categoria può essere senz’altro ricondotto il previsto provvedimento di sequestro, attesa la natura cautelare, propria dello stesso, non altrettanto può dirsi avuto riguardo alla confisca. La devoluzione allo Stato dei beni confiscati, prevista dalla L. 4 agosto 1989, n. 282 (art. 4) e le finalità indiscutibilmente ablative dei corrispondenti provvedimenti, non consentono, invece, di qualificare gli stessi, in senso tecnico/giuridico, quali misure di prevenzione, aggiunte a quelle, specificamente previste, quali personali: e ciò al di là delle formali espressioni adoperate dal legislatore. Trattasi, invero, ad avviso del collegio, di improprietà lessicali, rispetto all’effettivo contenuto normativo, non idonee come tali a modificare la natura del provvedimento di confisca – di carattere sicuramente ablatorio – in una misura di prevenzione in senso tecnico ed a condizionare pertanto l’interprete. Il che, a fortiori va detto, se si ha presente la ratio posta a base delle specifiche disposizioni in materia, dirette, come si ritiene in modo pressochè concorde, ad eliminare dal circuito economico beni provenienti da attività che, a seguito degli accertamenti disposti, devono ritenersi ricollegate alla ritenuta appartenenza del soggetto ad un’associazione di tipo mafioso.

La confisca, invero, è prevista nell’ambito dello specifico procedimento di prevenzione: ne segue, in linea di massima, le regole; ha per presupposto la pericolosità del soggetto-destinatario di misure di prevenzione vere e proprie, ancorchè non eseguite o non eseguibili; è diretta, peraltro, a differenza della misura di prevenzione personale (o di quella patrimoniale, avuto riguardo alla cauzione) a sottrarre i beni, in via definitiva, alla disponibilità dell’indiziato di appartenenza ad associazione di tipo mafioso: ancorchè tale risultato sia conseguibile solo all’esito definitivo della prevista procedura. Su questi presupposti, pertanto, è esatto che non si può prescindere dalla valutazione obiettiva di una concreta pericolosità – ancorchè su base indiziaria – ma è altrettanto vero che, accertato definitivamente che il soggetto che direttamente o indirettamente dispone dei beni, ha un reddito o un’attività economica sproporzionati al reddito dichiarato e si ha giustificato motivo di ritenere quindi, anche a seguito delle indagini effettuate, che gli stessi siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, la confisca diventa obbligatoria. A meno che (L. n. 575 del 1965, art. 2-ter, comma 41), non sia dimostrata la loro legittima provenienza”.

Sulla base dei presupposti appena illustrati, le Sezioni Unite chiarivano la portata della sussunzione della confisca de qua nell’ambito di una generica categoria di sanzioni amministrative parificabili – per contenuto ed effetti – alla misura di sicurezza di cui al ricordato art. 240 cpv. cod. pen.: sottolineavano altresì, in proposito, “che la ratio sottesa ai provvedimenti in esame – adottabili nell’ambito del procedimento di prevenzione – siccome diretta a colpire beni e proventi di natura presuntivamente illeciti (sussistendo ovviamente i presupposti di legge) per escluderli dal cosiddetto circuito economico, si ricollega, seppur con un ambito di estensione non identico, alle ipotesi previste dal citato art. 240 cod. pen., cpv. nn. 1 e 2 che, come è noto, prescindono dalla condanna – da un’affermazione di responsabilità accertata in sede penale – con la conseguente applicabilità anche nel caso di proscioglimento, quale che sia la formula (art. 205 cod. pen.)”.

Le Sezioni Unite segnalavano quindi che “anche avuto riguardo alle misure amministrative di sicurezza in senso stretto – previste e disciplinate dal codice penale dagli artt. 199 a 240 – dottrina e giurisprudenza hanno sempre concordato, con particolare riferimento alla confisca, che tale istituto non si presenta sempre con identica natura e configurazione, ma assume caratteristiche peculiari in relazione alle diverse finalità che la legge le attribuisce e che, di conseguenza a misura tende a realizzare. E’ pertanto applicabile, prescindendo anche dall’accertamento di una specifica responsabilità penale – ove i presupposti in fatto siano ricollegabili ad una violazione di detto tipo – col solo rispetto del principio di legalità (art. 25 Cost., comma 3): imponendosi soltanto in ogni caso, che il provvedimento sia espressamente previsto da una norma di legge …. D’altra parte, l’assoluta autonomia dei due procedimenti – penale e di prevenzione – comporta la possibilità di applicazione dei provvedimenti, personali e/o patrimoniali, anche in contrasto con le conclusioni cui possa pervenire il giudizio penale: e ciò, sia per diversità dei presupposti, sia per la valenza diversa che la legge assegna agli elementi sulla cui base le singole procedure vengono definite”.

Passando quindi ad affrontare il problema specificamente portato all’attenzione del massimo organo di nomofilachia, perchè oggetto del contrasto determinante l’ordinanza di rimessione ex art. 618 cod. proc. pen. (se la confisca di prevenzione dovesse intendersi caducata in caso di decesso del destinatario della misura), le Sezioni Unite concludevano che “anche il venire meno del proposto – una volta che siano rimasti accertati ai fini specifici della speciale legislazione in materia i presupposti di pericolosità qualificata (nel senso di indiziato di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso) e di indimostrata legittima provenienza dei beni oggetto di confisca – non fa venir meno quest’ultima misura, posto che le finalità perseguite dal legislatore, non prescindono, nè potrebbero, dalla preesistenza del soggetto, e neppure possono ritenersi necessariamente legate alla sua persistenza in vita: fra l’altro, si pensi che il decesso potrebbe avvenire anche per cause non naturali o accidentali e che detto evento potrebbe essere deliberatamente perseguito da terzi proprio al fine di riciclare i beni, facendoli così, rientrare proprio nel circuito dell’associazione di tipo mafioso, seppur, anche questa volta, attraverso l’interposizione di soggetti diversi. E non pare dubbio che una interpretazione della normativa in esame che consentisse, con la caducazione della confisca a seguito della morte del proposto, il risultato ora prospettato, si porrebbe in aperto contrasto con la precisa volontà espressa dal legislatore nel perseguire e reprimere il fenomeno mafioso”.

1.3 Nelle due massime ufficiali dell’altra pronuncia che il Procuratore generale segnala nella propria requisitoria scritta (n. 26751 del 26/05/2009, *************) si legge che “le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca sono applicabili, a seguito della novella del D.L. 23 maggio 2008, n. 92, art. 11 ter, convertito nella L. 24 luglio 2008, n. 125, a tutti coloro che siano abitualmente dediti a traffici delittuosi o che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” (Rv 244789) e che “la richiesta di revoca ex tunc della confisca disposta nel procedimento di prevenzione deve essere esaminata in riferimento alla legge vigente al momento della decisione, sicchè, entrato in vigore il D.L. 92 del 2008, conv. dalla L. n. 125 del 2008, il mantenimento della misura patrimoniale è reso legittimo dalla pericolosità generica del soggetto, connessa alla sua appartenenza alle categorie previste dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 1, nn. 1 e 2, ancorchè sia stata esclusa la sua pericolosità qualificata ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 1” (Rv 244790). Come si legge in motivazione, la seconda delle statuizioni affermate (riportata anche nel corpo del decreto della Corte di appello di Palermo, oggetto dell’odierno ricorso) si fonda sul rilievo che “in materia di confisca di prevenzione trova applicazione il principio della applicazione della legge attuale, fissato dall’art. 200 cod. pen. in relazione alle misure di sicurezza; sicchè, in materia di revoca ex tunc della confisca …, se per la peculiarità dello scrutino di revisione la verifica dell’accertamento della pericolosità resta ancorata al riferimento temporale costituito dalla data di originaria applicazione della misura di prevenzione patrimoniale, tuttavia – sul piano normativo – deve aversi riguardo alla legge vigente al momento della decisione sulla richiesta di revoca”.

2. A ben guardare, si tratta tuttavia di argomentazioni che non possono assumere rilievo decisivo nella fattispecie concreta, perchè in entrambe le pronunce diffusamente richiamate in precedenza si conferisce rilievo centrale al tema della pericolosità (attuale, presunta, generica e/o pregressa) quale presupposto per dare corso a misure di prevenzione; il caso oggi in esame, si ribadisce, è invece caratterizzato dalle seguenti peculiarità:

– all’ O. risulta essere stata applicata ex art. 444 cod. proc. pen. la pena di anni 1 e mesi 9 di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale, per il delitto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e D.L. n. 152 del 1991, art. 7;

– la sentenza in questione reca la data del 27/05/2009, antecedente rispetto all’entrata in vigore della L. n. 94 dello stesso anno (emanata il 15 luglio), novella che per la prima volta ha introdotto nell’ordinamento il principio secondo cui le misure di prevenzione patrimoniali possono essere disposte prescindendo dalla verifica del requisito dell’attualità della pericolosità sociale del proposto;

– l’art. 2, comma 22, della legge appena ricordata prevede infatti che si possa dare corso a misure di prevenzione patrimoniali “indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione”;

– il problema della attuale pericolosità sociale dell’ O. (vuoi accertata in concreto, vuoi da presumere sulla base di elementi eventualmente correlati alla peculiare contestazione di reato a lui già mossa) non viene in alcun modo in rilievo, non risultando affatto esaminato dalla Corte territoriale.

2.1 Come già ricordato, la norma di cui all’art. 166 c.p.p., comma 2, prescrive che la condanna a pena condizionalmente sospesa non può comunque costituire ex se motivo per l’applicazione di misure di prevenzione: si tratta di previsione che, afferendo alla disciplina di cause di estinzione del reato, ha certamente natura sostanziale, e che viene oggi a trovare un’eccezione – di cui occorre chiedersi se abbia valenza retroattiva, attesa l’anzidetta natura sostanziale – limitatamente a quelle misure di prevenzione patrimoniali che possono essere disposte a carico di determinati soggetti a prescindere dalla verifica della loro attuale pericolosità sociale, requisito che permane invece quanto alla potenziale applicabilità di misure di prevenzione di carattere personale.

In particolare, ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 1 e art. 2-ter, comma 2, può essere disposto il sequestro di beni riferibili a indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso e (a seguito delle modifiche introdotte al D.L. n. 92 del 2008, art. 1, “invertito in legge n. 125 del 2008) a indiziati di uno dei delitti di cui all’art. 51 c.p.p., comma 3-bis, ovvero (a seguito della modifica introdotta dalla L. n. 94 del 2009) del delitto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies, comma 1, cioè dell’ipotesi criminosa contestata in concreto all’ O.; il sequestro potrà riguardare quei beni di cui i soggetti appena ricordati risultino disporre, direttamente o indirettamente, quando il valore degli stessi risulti sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base di adeguata verifica, si ritenga che derivino da attività illecita o costituiscano il reimpiego dei frutti di tale attività.

Va poi rilevato che, per effetto delle modifiche apportate dalla L. n. 125 del 2008 alla L. n. 575 del 1965, art. 1-bis, comma 6-bis, le misure patrimoniali possono applicarsi, ricorrendone i presupposti ai sensi dell’art. 2-ter, commi 2 e 3, anche laddove non vi sia spazio per una misura personale. La possibilità di applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, disgiunta da misure personali, pone tuttavia non pochi problemi interpretativi, soprattutto alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale già in patte ricordato – secondo il quale in tema di misure di prevenzione non è invoca bile il principio di irretroattività della legge penale previsto dagli art. 25 Cost. e art. 2 cod. pen., giacchè le norme in materia sarebbero informate non già ai principi che riguardano le pene bensì a quelli concernenti le misure di sicurezza. Troverebbe così applicazione il disposto dell’art. 200 cod. pen., che per le misure di sicurezza stabilisce una regolamentazione in base alla legge in vigore al tempo della loro applicazione.

2.2 La ratio della più volte affermata equiparabilità tra misure di sicurezza e misure di prevenzione, ai fini qui in esame, deriva dalla presa d’atto della natura e della funzione delle seconde, da applicarsi non già quale diretta conseguenza di un determinato fatto (come accade invece per le pene, da ricollegare a fatti che costituiscano reato), bensì avuto riguardo alla condotta di vita del proposto, tale da farne desumere quella attuale pericolosità sociale che è pacificamente il fondamento per dare corso a misure di sicurezza, ex art. 202 cod. pen.. E’ dunque innegabile che, in tanto esiste una possibilità di equiparazione fra le due tipologie di misura, in quanto se ne individui un comune presupposto nella verifica della perdurante pericolosità del soggetto che ne sia destinatario: una pericolosità che dovrà comunque sussistere (sia pure se affermata in base a presunzioni) nel momento in cui il giudice della prevenzione sia chiamato a provvedere, proprio perchè è ad una pericolosità in atto che la legge eventualmente, anche sopravveniente – mira a porre rimedio.

Ergo, se si deve esprimere un giudizio di pericolosità sociale nei confronti del proposto, è necessario che questo intervenga al momento della decisione, anche se le ragioni fondanti il giudizio vengano ad essere desunte da comportamenti e fatti risalenti nel tempo. Ed è sempre in base a quel giudizio che potrà avere un senso la conseguente regola dell’applicabilità della legge in tema di misure di prevenzione patrimoniali anche a cespiti di cui il proposto abbia acquisito la disponibilità prima della sua entrata in vigore.

2.3 Già a questo punto, però, non è chi non veda come il percorso argomentativo appena illustrato incontri un limite non valicabile, laddove di quel giudizio di attuale pericolosità sociale si possa fare a meno, ed una misura di prevenzione (patrimoniale) possa essere disposta anche prescindendo da una tale verifica.

Se infatti non è più richiesto – come oggi non si chiede, e come in effetti la Corte di appello di Palermo ha ritenuto non necessario accertare con riguardo al l’ O. – che il proposto in sede di procedimento di prevenzione sia persona socialmente (ed attualmente) pericolosa, non sembra possibile ricavare regole formali per la disciplina di quel procedimento da una norma – l’art. 200 cod. pen. – che fonda la sua ragion d’essere proprio su quell’indefettibile presupposto: come correttamente osserva il ricorrente, “è il requisito dell’attualità della pericolosità sociale che ha permesso alla giurisprudenza, sino all’entrata in vigore della legge n. 94 del 15 luglio 2009, l’equiparazione delle misure di sicurezza e di prevenzione ai fini dell’applicabilità alle seconde della disciplina dell’art. 200 cod. pen., dettata per le prime …. Ed è sulla base del requisito dell’attualità della pericolosità sociale che l’art. 200 cod. pen. ha superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale con sentenza n. 19 del 1974 prima e con ordinanza n. 392 del 1987 poi, ha chiarito che la legittimità dell’art. 200 cod. pen. si fonda proprio su tale requisito, sicchè inconferente è il richiamo alla ritenuta retroattività delle misure di sicurezza attesa la correlazione delle misure alla pericolosità, che è situazione, per sua natura, attuale”.

Nulla quaestio, in altre parole, per la coerenza rispetto al sistema normativo di un’interpretazione estensiva dell’art. 200 cod. pen., riconoscendone la portata fino a consentirne l’applicazione alle misure di prevenzione personali, il cui presupposto rimane pur sempre l’accertata pericolosità sociale del proposto, sia pure se diversamente delineata a seconda delle categorie soggettive disegnate dai vari testi normativi succedutisi nel tempo (L. n. 1423 del 1956, L. n. 575 del 1965, L. n. 110 del 1977, L. n. 125 del 2008): ma l’accennata coerenza si smarrisce inesorabilmente nel momento in cui viene a discutersi di misure di prevenzione patrimoniali che non richiedono alcun accertamento di pericolosità nel momento della loro applicazione.

2.4 Al più, si potrebbe sostenere che l’opzione legislativa nel biennio 2008-2009 sia volta ad ammettere per le misure di prevenzione patrimoniali la possibilità di derogare al presupposto di una pericolosità sociale attuale, pur sempre richiedendosi un accertamento di pericolosità pregressa, come peraltro si può desumere dalla previsione dell’applicabilità di una misura patrimoniale, entro un dato ambito temporale, anche dopo la morte del soggetto. Ma se può apparire ragionevole che il decorso del tempo o comunque la cessazione della pericolosità del soggetto, fattori che determinerebbero l’impossibilità di disporre misure personali a suo carico, risultino inidonei ad autorizzare il mantenimento del possesso di beni da lui acquisiti quando pericoloso lo era (ferme restando le già segnalate indicazioni della Cotte Costituzionale secondo cui la nozione di pericolosità può avere un senso solo se riferita all’attualità), non altrettanto è a dirsi in punto di individuazione delle norme che dovrebbero regolare quella misura patrimoniale, qualora si tratti di leggi entrate in vigore quando della stessa pericolosità pregressa già non vi era più traccia.

Sono ancora una volta le Sezioni Unite di questa Corte a ricordare che “nel corso del procedimento di prevenzione, il giudice di merito è legittimato a servirsi di elementi di prova o di tipo indiziario tratti da procedimenti penali, anche se non ancora definiti con sentenza irrevocabile, e, in tale ultimo caso, anche a prescindere dalla natura delle statuizioni terminali in ordine all’accertamento della responsabilità. Sicchè, pure l’assoluzione, anche se irrevocabile, dal delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., non comporta la automatica esclusione della pericolosità sociale, potendosi il relativo scrutinio fondare sia sugli stessi fatti storici in ordine ai quali è stata esclusa la configurabilità di illiceità penale, sia su altri fatti acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio di prevenzione. Ciò che rileva, si è osservato, è che il giudizio di pericolosità sia fondato su elementi certi, dai quali possa legittimamente farsi discendere l’affermazione dell’esistenza della pericolosità, sulla base di un ragionamento immune da vizi, fermo restando che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di pericolosità non devono necessariamente avere i caratteri di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192 cod. proc. pen. …. Nella medesima linea, d’altra parte, si è collocata pure la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale (Grande Camera, 1 marzo – 6 aprile 2000, ****** e, Italia) ha ritenuto non in contrasto con i principi della CEDU il fatto che le misure di prevenzione siano applicate nei confronti di individui sospettati di appartenere alla mafia anche prima della loro condanna, poichè tendono ad impedire il compimento di atti criminali; mentre il proscioglimento eventualmente sopravvenuto non le priva necessariamente di ogni ragion d’essere: infatti, elementi concreti raccolti durante un processo, anche se insufficienti per giungere ad una condanna, possono tuttavia giustificare dei ragionevoli dubbi che l’individuo in questione possa in futuro commettere dei reati penali. Il tutto in linea con le profonde differenze, di procedimento e di sostanza che è possibile intravedere tra le due sedi, penale e di prevenzione: “la prima ricollegata a un determinato fatto-reato oggetto di verifica nel processo, a seguito dell’esercizio della azione penale; la seconda riferita a una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato e che sono … verificate in un procedimento che, pur se giurisdizionalizzato, vede quali titolari delibazione di prevenzione soggetti diversi, appartenenti all’amministrazione (v. Corte cost., sentenza n. 275 del 1996)” (Cass., Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, ********).

Non c’è dubbio che anche per la Corte Europea (v. ad esempio la sentenza 22 febbraio 1994, Rainnondo c. Italia), la misura di prevenzione abbia connotazioni assai diverse da quelle della sanzione penale, avendo non già funzione repressiva: non di meno, in tutte le pronunce emesse dalla giurisprudenza sovranazionale in tema di confisca di prevenzione si afferma, oltre alla non necessità di una precedente condotta costituente reato, la doverosità di accertare la pericolosità del soggetto che ne sia destinatario, quale presupposto giustificativo di un intervento ablatorio – sia pure non di carattere penale – strumentale alla tutela di pubblici interessi.

Presupposto che risulta immanente anche nelle recenti massime di questa Corte che, pure in epoca successiva alle innovazioni introdotte dal “pacchetto giustizia” del 2008-2009, continuano a sostenere l’applicabilità dell’art. 200 cod. pen. alle misure di prevenzione patrimoniali: è stato infatti affermato, a proposito dello ius superveniens rappresentato dal disposto di cui alla L. n. 125 del 2008, art. 11-ter, che “secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la confisca non ha natura di pena sui generis o di pena accessoria, ma di misura di sicurezza; con la conseguenza che ad essa non si applica il principio di irretroattività della legge penale, sancito dall’art. 2 cod. pen. e art. 25 Cost., ma quello della legge vigente al momento della decisione, fissato dall’art. 200 cod. pen. …. Ciò comporta che le misure di prevenzione, al pari delle misure di sicurezza, possono essere applicate anche se previste da legge successiva al sorgere della pericolosità sociale, in quanto la misura di prevenzione non presuppone un fatto specifico costituente reato, ma concerne uno stato di pericolosità attuale, alla quale la legge intende porre rimedio” (Cass., Sez. 6, n. 11006 del 20/01/2010, *******).

E’ allora ben evidente che il quadro deve necessariamente mutare, in punto di applicazione dell’art. 200 cod. pen., laddove lo stato di pericolosità attuale sia escluso dalla concessione del beneficio della sospensione condizionale o da altri fattori, come pure laddove un problema di pericolosità (attuale, presunta o pregressa) non si ponga tout court: e nel caso oggi in esame la Corte territoriale ha chiaramente fondato le proprie argomentazioni sulla presa d’atto che della pericolosità dell’ O. non potesse affatto discutersi, e se ne potesse anzi prescindere proprio in base alle modifiche introdotte con il pacchetto sicurezza del 2008-2009.

Non è infatti suscettibile di smentita il rilievo che nella fattispecie concreta la Corte di appello di Palermo non ha ritenuto attualmente pericoloso l’ O., nè ha espresso valutazioni su una sua pericolosità pregressa, sia pure sulla base degli stessi elementi che erano emersi nel processo celebrato a suo carico e che comunque aveva portato all’applicazione di una pena soggetta a benefici. Se ne ha chiara riprova nella constatazione, parimenti evidenziata dal ricorrente, che il P.M. aveva impugnato il decreto del Tribunale di Trapani solo con riguardo al rigetto della misura di prevenzione patrimoniale, e non anche in ordine a quella personale la cui praticabilità era da escludersi – secondo lo stesso appellante – proprio in ragione del disposto dell’art. 166 c.p., comma 2, “difettando l’attualità della pericolosità sociale”.

3. Deve conclusivamente ritenersi che, a partire dal luglio 2009, sia senz’altro possibile disporre una misura di prevenzione patrimoniale pure in difetto del presupposto di una attuale pericolosità sociale del soggetto destinatario della misura: tuttavia, laddove quel presupposto manchi, la norma non potrà che regolare fattispecie realizzatesi dopo l’entrata in vigore della stessa, non trovando applicazione il disposto dell’art. 200 cod. pen. (la cui operatività si fonda invece su un accertamento di pericolosità in atto) ma la generale previsione di cui all’art. 11 preleggi.

3.1 La giurisprudenza di questa Corte conosce già, del resto, situazioni in cui è stata affermata l’impossibilità di ritenere applicabile il citato art. 200 a peculiari fattispecie di misure di prevenzione patrimoniale: si è infatti ritenuto che “la confisca per equivalente – prevista dalla L. n. 575 del 1965, art. 2-ter, comma 10, così come novellato dal D.L. n. 92 del 2008, art. 10, comma 1, lett. d), n. 4, conv. in L. n. 125 del 2008 – assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione, tale da impedire l’applicabilità ad essa del principio generale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito dall’art. 200 cod. pen.” (Cass., Sez. 1, n. 11768 del 28/02/2012, ********, Rv 252297).

La pronuncia risulta richiamata anche dalla Corte di appello di Palermo, che ha ritenuto di non poterne trarre indicazioni dirimenti, attesa la natura eccezionale dell’istituto della c.d. “confisca per equivalente”; va tuttavia considerato quanto si legge nella motivazione della sentenza, secondo cui “la giurisprudenza costituzionale …, muovendo dalla premessa che la inserzione della pena e della misura di sicurezza nell’ambito di una categoria unica (quella generale di sanzione, intesa come reazione dell’ordinamento alla inosservanza della norma) non ha eliminato i caratteri particolari dei due mezzi di tutela giuridica, l’uno (la pena) costituente una reazione contro un fatto avvenuto, propria della pena, e l’altro (la misura di sicurezza) rivolto ad impedire fatti di cui si teme il verificarsi nel futuro (sentenza n. 53 del 1968), ha fatto discendere altre fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica. Tra di esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano, la scelta di individuare la norma valida per la misura di sicurezza, diversamente da quanto previsto per la pena, in quella del tempo della sua applicazione. E’ in questa prospettiva che viene spiegata la diversa formulazione dei commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., giacchè soltanto per la pena vale il cosiddetto principio di stretta legalità, per il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, mentre le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. A giustificare la ritenuta retroattività delle misure di sicurezza è la finalità, loro propria, di assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di sicurezza di minore gravità). In altri termini, tale retroattività risulta connaturata alla circostanza che le misure di sicurezza (in particolare quelle personali) costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità. Muovendo da tali premesse generali, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina hanno sottolineato la necessità di un controllo non solo nominale, ma anche contenutistico degli strumenti qualificati dal legislatore come misure di sicurezza, costituenti una reazione ad un fatto criminoso. Ciò, al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha, a sua volta, sottolineato che la necessità di scongiurare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale comporta che la distinzione relativa alla natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione si fondi non solo sul criterio della qualificazione giuridico – formale attribuita nel diritto nazionale, ma anche su altri due parametri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione. Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo – afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Tale principio è desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, che, attesa l’ampiezza della sua formulazione (nessuno può essere punito…) – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato …. In tale contesto è possibile affermare che la confisca per equivalente, che può riguardare beni che, oltre a non avere alcun rapporto con la pericolosità individuale del reo, neppure hanno alcun collegamento diretto con il singolo reato … e la cui ratio è quella di privare il reo di un qualunque beneficio economico derivante dall’attività criminosa, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale, nella convinzione della capacità dissuasiva e disincentivante di tale strumento, assume i tratti distintivi di una vera e propria sanzione …, tale da impedire l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito dall’art. 200 cod. pen.”.

3.2 Se dunque i parametri da valutare sono quelli appena evidenziati, non sembra azzardato affermarne la pertinenza anche per le misure di prevenzione patrimoniali diverse dalla confisca per equivalente.

Vero è che, secondo una pronuncia di questa Sezione (n. 18822 del 23/03/2007, **********, Rv 236920), “è illegittimo il provvedimento con cui il giudice dispone la confisca sui beni del preposto senza verificare se essi siano entrati nella sua disponibilità successivamente o almeno contestualmente al suo inserimento nel sodalizio criminoso, considerato che, a tali fini, non è sufficiente la sussistenza di indizi di carattere personale sull’appartenenza del soggetto ad una associazione di tipo mafioso, implicante una latente e permanente pericolosità sociale, ma occorre che vi sia correlazione temporale tra tale pericolosità e l’acquisto di detti beni”; si tratta tuttavia di un precedente isolato, atteso che ancora in epoca successiva la giurisprudenza di questa Corte è tornata ad affermare che “è legittima la confisca, disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 1-ter (disposizioni contro la mafia), di beni acquistati dal sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. anche in epoca anteriore o successiva alla situazione di accertata pericolosità soggettiva, trattandosi di misura di sicurezza atipica, con la preminente funzione di togliere dalla circolazione quei beni che, al di là del dato temporale, sono stati acquisiti al patrimonio del prevenuto in modo illecito” (Cass., Sez. 2, n. 25558 del 16/04/2009, Di *****, Rv 244150).

Principi a cui ha manifestato adesione anche la Sezione Quinta, rivedendo recentemente l’orientamento sopra evidenziato: la sentenza n. 27228 del 21/04/2011 (ric. ******, Rv 250917) ha ribadito che “in tema di misure di prevenzione antimafia, sono soggetti a confisca anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in epoca antecedente a quella cui si riferisce l’accertamento della pericolosità, purchè ne risulti la sproporzione rispetto al reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia tipologia di reato”.

Nella motivazione di quest’ultima sentenza si espone che la chiara formulazione della L. n. 575 del 1965, art. 2-ter “non consente dubbi in ordine all’assoggettabilità a confisca sia dei beni il cui valore risulti sproporzionato alla capacità reddituale del proposto sia dei beni che risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Il perspicuo tenore letterale non consente una lettura combinata …, nel senso, cioè, che il parametro della sproporzione debba coesistere con la rilevata provenienza illecita degli stessi beni. L’uso della congiunzione nonchè con riferimento a due distinte categorie di beni suscettivi di ablazione (beni il cui valore sia sproporzionato e beni rispetto ai quali sia positivamente accertato essere frutto di attività illecita ovvero reimpiego), non lascia adito a dubbi di sorta in proposito. Il legislatore non ha prescritto per la confisca da prevenzione alcun nesso di pertinenzialità con una determinata tipologia di illecito, ma ha consentito una generalizzata apprensione di beni solo che sia accertato il presupposto della pericolosità sociale del proposto, siccome appartenente ad organizzazione delinquenziale, sulla base di un dato presuntivo che quei beni, in valore sproporzionato, non siano stati legittimamente acquisiti. E per quanto riguarda il dato temporale, è ius receptum, alla stregua di consolidata interpretazione di questo giudice di legittimità, che siano soggetti a confisca anche i beni acquisiti dal proposto, direttamente od indirettamente, in epoca antecedente a quella cui si riferisce l’accertamento della pericolosità, purchè risulti una delle condizioni anzidette, ossia la sproporzione rispetto al reddito ovvero la prova della loro illecita provenienza da qualsivoglia tipologia di reato …. E’ vero, dunque, che per dettato normativo la pericolosità sociale del proposto finisce con l’estendersi al suo patrimonio; ciò in quanto l’accertata appartenenza a consorteria organizzata riflette uno stile di vita la cui origine non si è ritenuto che possa farsi coincidere con la data del riscontro giudiziario, essendo, evidentemente, maturato – per precise scelte esistenziali – anche in epoca antecedente, sia pure non determinata.

Si tratta, certamente, di misura draconiana, la cui severità si giustifica, però, in ragione delle precipue finalità della legislazione antimafia, e specialmente dell’obiettivo strategico di colpire, anche con evidenti finalità deterrenti, l’intero patrimonio – ove di ritenuta provenienza illecita – degli appartenenti a consorterie criminali, posto che l’accumulo di ricchezza costituisce, comunemente, la ragione primaria – se non esclusiva – di quell’appartenenza. Il limite di operatività della detta misura, che la rende compatibile con i principi costituzionali, segnatamente con il rispetto del valore della proprietà privata, presidiato dall’art. 42 Cost., e con la normativa comunitaria, è costituito dalla riconosciuta facoltà per il proposto di fornire la prova della legittima provenienza dei suoi beni. Il sistema resta così affidato alla dinamica di una presunzione, temperata, nondimeno, dalla facoltà della controprova, che attribuisce al meccanismo presuntivo la connotazione della relatività, rendendolo così del tutto legittimo nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata”.

Anche la confisca di prevenzione, perciò, sembra poter legittimamente riguardare beni privi di concreto collegamento con i fatti giustificativi della misura, ed ispirarsi alla generale finalità di escludere che un soggetto possa ricavare qualsivoglia beneficio economico da attività illecite: appare dunque arduo, almeno con riferimento ad ipotesi in cui la misura di prevenzione patrimoniale possa addirittura svincolarsi da un necessario accertamento di attuale pericolosità sociale del proposto, continuare ad escluderne una natura oggettivamente sanzionatoria.

P.Q.M.

Annulla l’impugnato decreto, senza rinvio.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2012.

Redazione