Inutilizzabili le dichiarazioni dei correi in assenza di riscontri oggetti esterni (Cass. pen. n. 16939/2012)

Redazione 07/05/12
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Svolgimento del processo

1. Il processo ha ad oggetto tre omicidi (di S.R., di Vi.Wi. e di P.A.), un tentato omicidio in danno di P.V., derubricato in lesioni e minacce aggravate, e altri reati minori in materia di armi, di sottrazione di cadavere, di tentativi di estorsione. Fatti tutti commessi in Lecce e provincia, all’interno di diversi gruppi malavitosi gravitanti nel sodalizio mafioso denominato “sacra corona unita”, capeggiati da C.F., ****** e V.C..

2. La Corte di assise di Lecce, con sentenza pronunciata il 6 luglio 2007, anche sulla base delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C.F., V.G., G. M., D.S.P., C.S., G. M. e ******, condannò:

– D.F.M. alla reclusione di 6 anni e due mesi per il capo A2 (concorso nella sottrazione del cadavere di S. R.);

– D.T.O. alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per due mesi per i reati di cui ai capi E) ed E1: (concorso nell’omicidio di Vi.Wi. e connessi reati di detenzione e porto abusivi di arma);

– M.G. alla reclusione di due anni e due mesi per il capo A2 (sottrazione del cadavere di S.R.), con l’attenuante della collaborazione di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8.

– M.N. e V.F. alla reclusione di 18 anni e 2 mesi per il delitto di cui al capo A: (concorso anomalo ex art. 116 c.p. nell’omicidio di S.R.);

– V.C. alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per quattro mesi per i reati di cui ai capi A2 (sottrazione del cadavere di S.), F (omicidio di P.A.), e F1 (connessi reati di detenzione e porto abusivi di arma);

– V.N.I. alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi per i reati di cui al capo D (lesioni gravi e aggravate in danno di P.V.), D1 (connesso reato di detenzione e porto d’armi), F (omicidio di P.A.), F1 (connessi reati di detenzione e porto abusivi di arma), G (tentativo di estorsione in danno di S.G.), H (evasione).

3. La Corte di assise di appello di Lecce, con la sentenza oggi in esame, ha rigettato gli appelli degli imputati ed ha accolto l’impugnazione del pubblico ministero, dichiarando V.C. colpevole anche dell’omicidio di V.W. e dei connessi reati di detenzione e porto abusivi di arma, rideterminando la pena nell’ergastolo con isolamento diurno di un anno.

4. Ricorrono per cassazione i sei imputati in epigrafe elencati.

4.1. D.F.M. deduce, ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. b) ed c) violazione dell’art. 192 cod. proc. pen. e vizio di motivazione per contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza.

Lamenta mancata risposta ai motivi di appello concernenti le contrastanti versioni circa la presenza di D.F. alla commissione del fatto-reato, l’incertezza del luogo dove avrebbe dovuto trovarsi il cadavere poi distrutto, le dichiarazioni de relato di C.F. (di cui contesta l’attendibilità), le dichiarazioni di M.G. e la mancanza di relativi riscontri.

4.2. D.T.O. denuncia mancanza, contraddittoria e illogica motivazione, in relazione alla regola di giudizio di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, con riferimento all’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori C.F. e M.G.. Censura la sentenza per avere affermato la responsabilità dell’imputato sulla base di una doppia chiamata in reità de relato, in contrasto con la giurisprudenza di legittimità.

Critica, in particolare, la ritenuta genuinità delle dichiarazioni di M., che conobbe i fatti attraverso la pubblicazione delle accuse di C. sul Quotidiano di Lecce.

4.3. M.N. impugna la sentenza per violazione di legge e inosservanza o erronea applicazione legge penale e per vizio di motivazione (art. 606 cod. proc. pen. comma 1, lett. b) ed e)) in relazione all’art. 192 dello stesso codice, per avere la Corte fondato la dichiarazione di colpevolezza sulle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vi., nonostante sia stato ritenuto inattendibile, nonchè sulle dichiarazioni di C.F. e S.A..

Censura l’illogicità della motivazione e l’uso errato del principio di frazionabilità delle dichiarazioni con riferimento a quanto riferito da Vi., contraddittoriamente valutato dai giudici come imputato inattendibile e come collaboratore attendibile.

Denuncia violazione di legge ed erronea applicazione legge penale e relativo vizio di motivazione (art. 606 cod. proc. pen., lett. b) ed e) in relazione all’art. 116 cod. pen..

4.4. V.F. deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art. 116, cod. pen., comma 2, e vizio di motivazione per contraddittorietà e manifesta illogicità.

In particolare, censura la ritenuta colpevolezza ex art. 116 cod. pen. per l’omicidio di S., pur in difetto di coscienza e volontà di concorrere con altri nella realizzazione di un qualsiasi reato e denuncia la mancanza di rapporto di causalità materiale e psichico tra la sua condotta e il diverso reato realizzato, avente il carattere dell’eccezionalità per l’azione assolutamente imprevedibile di Vi.Wi., che sparò allo S..

Con un secondo motivo, rubricato “Mancata assunzione di una prova decisiva. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione” lamenta la mancata applicazione dell’attenuante speciale di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8. 4.5. Il ricorso di V.C. ha ad oggetto tre capi della sentenza impugnata.

A) Con riferimento alla condanna per omicidio di V.W. (capo F dell’imputazione), si deduce, ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. b) ed e), violazione di legge, inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 e relativo vizio di motivazione, con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Si censura la sentenza d’appello per essere pervenuta alla condanna senza avere affrontato il tema dell’attendibilità del collaborante e senza avere adempiuto l’obbligo di motivazione rafforzata sussistente in caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado.

Si critica l’attribuzione alle dichiarazioni del M. del valore di riscontro alla chiamata di correità del C., deducendone anche l’inutilizzabilità per violazione dei termini di cui al D.L. n. 8 del 1991, art. 16 quater, comma 9; si denuncia comunque l’inattendibilità della tardiva indicazione nominativa, avendo in precedenza indicato il nome del “cugino piccolo”, N.I. V..

Si censura ancora di illogicità la motivazione che ha ritenuto la falsità dell’abili addotto dall’imputato, con il conseguente aggravamento del quadro probatorio, anzichè il fallimento dello stesso, come aveva invece valutato la Corte di primo grado.

B) Con riferimento al capo della sentenza relativo alla dichiarazione di colpevolezza per l’omicidio P., si deduce “Violazione di legge. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale (art. 606 cod. proc. pen., lett. b) in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3) e vizio di motivazione per manifesta illogicità e contraddittorietà risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo (art. 606 cod. proc. pen., lett. e))”.

Di tali vizi è affermata la sussistenza in relazione all’affermata attendibilità di C.F. e alla valutazione delle sue dichiarazioni, nonchè di quelle di D.S. e M., ritenute come validi riscontri esterni al racconto del C..

Si reitera la censura relativa all’alibi valutato come falso e denuncia e critica l’utilizzazione del principio di frazionamento delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, nonostante le gravi inesattezze riferite con riferimento al luogo del commesso delitto, alla presenza di colui che svolgeva funzioni di “telecamera”, al calibro dell’arma e alla identificazione della motocicletta utilizzate per l’agguato, alle discordanze con quanto riferito dal teste T..

C) Per quanto concerne il capo della condanna relativo alla sottrazione del cadavere di S.R. (capo A2), sono dedotti violazione di legge, inosservanza o erronea applicazione della legge penale (art. 606 cod. proc. pen., lett. b) in relazione all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3,) e vizio di motivazione per manifesta illogicità e contraddittorietà risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del processo (art. 606 cod. proc. pen., lett. e)) 4.6. Anche V.N.I. ha impugnato tre capi della sentenza.

A) con riferimento all’omicidio P. (capi F – F1) propone gli identici motivi del cugino, concorrente nel delitto, C. V..

B) In ordine al reato di minacce e lesioni volontarie gravi in danno di P.V. (capo D dell’originaria imputazione, poi derubricata) e al connesso reato in materia di armi (capo D1), il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alle dichiarazioni accusatorie di V.G., M.G. e C.F.. Contesta l’ascrivibilità dell’agguato alla guerra mafiosa del gruppo C. contro il gruppo P.- V., in quanto il P. non era soggetto gravitante nei territorio Leccese trovandosi a Lecce da una sola settimana di ritorno da Milano ove lavorava come elettricista.

C) Per quanto concerne il capo G (tentativo di estorsione in danno di S.G. per costringerlo mediante minaccia ad acquistare sei telecamere per una somma di 3.000 Euro da installare nei pressi della propria abitazione), deduce ex art. 606 lett. b) ed e) cod. proc. pen, erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, per essere stata ritenuta la condotta minatoria solo perchè la parte offesa rimase spaventata dalla visita del V. conosciuto per i suoi trascorsi criminali.

5. Il ricorsi degli imputati saranno di seguito esaminati con riferimento ai diversi capi della sentenza impugnata.

 

Motivi della decisione

1. Concorso in distruzione, soppressione o sottrazione dei cadavere di S.R..

D.F.M. e V.C., unitamente a G. M., sono stati condannati per concorso nella sottrazione del cadavere di S.R. (artt. 110 e 411 cod. pen.), compiuta, su decisione concordata tra C.F. e V.C., quando si diffuse la voce che V.F. stava collaborando con gli inquirenti. Il fatto fu deciso e realizzato per non far ritrovare i resti del cadavere di S., buttato in un pozzo di campagna dopo l’omicidio eseguito da V.W., e così togliere credibilità alle temute dichiarazioni del collaboratore.

1.2. Il ricorso di D.F.M., al limite della ammissibilità, va rigettato.

Le censure rivolte alla sentenza impugnata non hanno fondamento. La Corte d’assise d’appello ha esaurientemente risposto ai motivi dedotti nell’atto di gravame, rilevando non soltanto che il nome di D.F.M., come partecipe alla rimozione del cadavere dello S., fu indicato da tutti i collaboratori di giustizia, ma evidenziando soprattutto che il racconto del M., che ha confessato la propria personale partecipazione al fatto, risulta dettagliato e preciso sulla partecipazione del D.F. e trova precisi riscontri individualizzanti nelle dichiarazioni del C..

Queste risultano per una parte de relato, ma costituiscono accuse dirette nella parte in cui il C. precisò di aver mandato il D.F. “a disposizione” del V. per poter ripulire il pozzo, così confermando l’indicazione fornita dal M. sulla telefonata fatta dal C. al D.F. per spiegargli che bisognava aiutare V.C. a rimuovere un cadavere.

Senza alcun pregio sono le reiterate censure sulla valutazione di attendibilità dei collaboratori C. e M., giustificata dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado con motivazione logicamente plausibile, giuridicamente corretta e conforme alla giurisprudenza di legittimità in tema di applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3. 1.3. Le censure mosse da V.C. a questo capo della sentenza vanno dichiarate inammissibili per genericità, limitandosi il ricorrente a denunciare l’asserita contraddittorietà delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia senza farsi carico dell’esauriente motivazione resa dalla Corte d’assise d’appello e sopra riassunta con riferimento alla posizione del D.F..

2. Omicidio di P.A. e connessi reati in materia di armi.

2.1. V.C. e V.I.N. furono tratti a giudizio per rispondere di concorso nell’omicidio di P.A., entrambi in qualità di esecutori materiali, il primo anche come mandante insieme con C.F., per avere, a bordo di motocicletta e con il viso coperto da casco, in una via centrale di (omissis), esploso colpi di pistola contro il P., provocandogli gravissime lesioni che lo portarono alla morte dopo quindici giorni.

Per tale reato, e per il connesso reato di detenzione e porto in luogo pubblico della pistola, i due cugini V. sono stati condannati, con doppia conforme sentenza, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno (rispettivamente di quattro e di sei mesi per C. e V.I.N.).

La responsabilità degli imputati è stata affermata dalle Corti del merito sulla base della chiamata in correità di C.F., che si dichiarò mandante del delitto (insieme con C. V.), indicando come esecutori materiali lo stesso V. e suo cugino V.I.N..

Il movente dell’omicidio fu individuato nell’appartenenza della vittima al gruppo avversario P.- Vi., che contendeva il territorio di Surbo al gruppo facente capo a V.C. e C.F. e, più specificamente, nel sospetto che il P. avesse ricoperto il ruolo di “telecamera” (una sorta di avvisatore della presenza in un determinato luogo del bersaglio da eliminare) in occasione del duplice omicidio di F.G. e C.D., compiuto il 18.5.1999 nel ristorante “Duca d’Este” di (omissis).

Emerge dalle sentenze di merito che le dichiarazioni accusatorie del C. erano espressione di conoscenza diretta sulla deliberazione del delitto, avendo il chiamante riferito della decisione omicidiaria concordata con V.C.; mentre avevano natura de relato sulle modalità esecutive, per avere ricevuto da V.C., la sera stessa in cui fu commesso il delitto, l’assicurazione che “l’azione” era andata a compimento e per avere successivamente appreso il racconto del delitto da entrambi i cugini V..

Le accuse del C. sono state ritenute riscontrate da quelle di D.S., che apprese del fatto dagli stessi imputati, nel periodo in cui faceva da vivandiere durante la loro latitanza, e da M., che ne ebbe notizia sia dallo stesso C., sia da C. V., con cui condivise un periodo di detenzione nel carcere di Ancona.

2.2. Le censure di malgoverno dei criteri di valutazione della prova e di vizio di motivazione, al limite dell’inammissibilità, vanno rigettate.

La valutazione dei giudici sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia C.F., D.S.P. e G. M. risulta esauriente e completa rispetto alle censure rivolte con gli atti d’appello, indenne da manifesta logicità e contraddittorietà e conforme ai principi che, in tema di applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 e 4, sono stati affermati reiteratamente da questa Corte sulla verifica di attendibilità estrinseca ed intrinseca e sulla necessità di riscontri esterni individualizzanti.

La Corte di secondo grado non ha omesso di riesaminare alcuno degli elementi sottoposti alla sua attenzione con gli atti di gravame, sottolineando la convergenza delle dichiarazioni rese dai tre collaboranti sul nucleo essenziale del fatto omicidiario (numero e nomi dei partecipanti, armi utilizzate, uso da parte dei due killer di una motocicletta di grossa cilindrata).

In tale valutazione i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha reiteratamente precisato che, in tema di prova di delitti maturati nell’ambito d’organizzazione criminale di tipo mafioso, le eventuali smagliature e discrasie, anche di un certo rilievo, rilevabili nelle dichiarazioni accusatorie rese dai collaboratori di giustizia, sia al loro interno, sia nel confronto tra esse, non implicano, di per sè, il venir meno della loro affidabilità, quando, sulla base d’adeguata motivazione, risulti dimostrata la loro complessiva convergenza nei nuclei fondamentali (Cass. Sez. 1, n. 42990/2008, Rv. 241821, ********; Sez. 6, n. 6425/2010, Rv. 246528, Caramuscio).

Nè i giudici hanno affermato la colpevolezza degli imputati fondandosi sulla convergenza di chiamate de relato da parte dei tre collaboratori, giacchè, come importante riscontro esterno, la sentenza evidenzia la coincidenza tra la circostanza riferita dal C. (il cd. “tentennamento” dell’assassino, che alla fine omise di sparare il “colpo di grazia”, ritenendo già morta la vittima a seguito dei colpi andati a segno) e i particolari relativi alla fase esecutiva del delitto riferiti dal teste T., del tutto estraneo all’ambiente dei collaboratori di giustizia, secondo cui il killer, mentre già stava allontanandosi dopo avere sparato al P., ritornò sui suoi passi per colpire ancora, ma la pistola si inceppò.

Si tratta di significativa coincidenza di particolare di rilievo, giacchè è ben evidente che il mancato colpo finale, ascritto dal C. a “tentennamento” dell’assassino, può ben essere attribuito a inceppamento dell’arma da parte di un testimone terrorizzato per la brutalità e la violenza della scena cui assistette.

In presenza di siffatti, sicuri e consistenti elementi probatori, di trascurabile rilievo appare la questione relativa all’alibi, fallito o falso, dell’imputato V.C..

La Corte non ha mancato di valutare e spiegare le aporie e le divergenze emerse nel racconto dei dichiaranti a proposito di chi, tra i due imputati conducesse la motocicletta e chi fece fuoco contro il P., dell’identificazione dello specifico tipo e marca della motocicletta utilizzata, dell’errata indicazione del luogo dell’attentato data dal C., della presenza nelle vicinanza del luogo del delitto dell’imputato V.P., assolto per mancanza di riscontri esterni alla chiamata operata dal C..

Ognuno di tali elementi è stato analizzato e spiegato nella sentenza in esame e la conclusione cui i giudici sono pervenuti risulta plausibilmente logica, sì da sottrarsi al sindacato di legittimità consentito dall’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e).

Ne consegue che, a differenza di quanto si dirà relativamente all’omicidio S., in questo caso l’applicazione del cd. principio di frazionabilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ritenuti attendibili e credibili, risulta del tutto corretta.

3. Omicidio di S.R..

3.1. V.F. e M.N. furono rinviati a giudizio per rispondere, in qualità di mandanti, dell’omicidio di S.R., materialmente eseguito il 5 marzo 2001 da W. V. (successivamente ammazzato), per vendicare il mancato pagamento di un quantitativo di stupefacente da parte della vittima.

Sono stati condannati con applicazione della diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., comma 2, essendo stato ritenuto il concorso anomalo nel fatto omicidiario commesso da V.W., che aveva esploso un colpo di pistola alla testa di S., mentre questi veniva condotto nell’autovettura guidata da M. verso un luogo più defilato, dove chiedergli conto dell’ammanco del denaro ovvero della cocaina a lui consegnata per la vendita.

I giudici del merito – valutate le dichiarazioni rese da F. V., F. e C.S., D.S.P. e S.A., tutti collaboratori di giustizia – hanno escluso che Vi.Fr., capo del piccolo gruppo dedito al traffico di stupefacenti, avesse impartito al suo braccio destro M.N. l’ordine di uccidere S.. Hanno invece affermato che, una volta scoperto il mancato versamento del denaro corrispondente ad un quantitativo di droga consegnato a S., il Vi. avesse impartito l’ordine di recuperare o cocaina o il danaro equivalente, contemplando “l’ipotesi di una severa lezione, di lesioni personali anche gravissime, ma non anche l’eventualità dell’omicidio”. Le Corti territoriali hanno ritenuto che l’azione repentina di Vi.Wi. “non era stata neppure ipotizzata”, ma che Vi. e M. “avessero previsto e voluto, quantomeno a titolo di dolo eventuale, il delitto di lesioni personali volontarie in danno di S.R.”. 3.2. Le censure principali mosse dai ricorrenti alla sentenza, pur se differenziate, s’incentrano sulla valutazione d’inattendibilità di Vi.Fr. e sulla contestuale utilizzazione del principio di frazionamento delle sue dichiarazioni, nonchè sulla motivazione relativa al concorso anomalo.

Il M. (con i primi due motivi di ricorso) denuncia l’illogicità della motivazione e il malgoverno della regola di giudizio di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, nella parte in cui la sentenza fonda la decisione di condanna sulle dichiarazioni dell’inattendibile collaboratore Vi.Fr., dichiarazioni valutate come non credibili nei confronti dello stesso Vi. e di altri imputati ( S. e V.N.I.), ma pienamente utilizzate a carico del ricorrente.

Sia il M. (con il terzo motivo) sia il Vi. (con il primo motivo) criticano poi la sentenza per l’erronea applicazione della legge penale e per vizio di motivazione, con riferimento all’art. 116 cod. pen..

3.3. Osserva il Collegio che i vizi di motivazione, denunciati sotto diversi profili dal M. e dal Vi., sono fondati.

In ordine alla prima questione, si rileva che con riferimento al collaboratore V.F. la sentenza di prima grado – dopo averne rimarcato la “figura assai ambigua”, con “una invincibile tendenza all’auto-elogio” e alla “magniloquenza” che “rende quanto mai difficile discernere la realtà dall’enfasi” – aveva concluso “per una generale inattendibilità delle dichiarazioni” da lui rese, rinviando alla trattazione specifica dell’omicidio S. per l’ulteriore illustrazione della “inverosimiglianza di fondo” del suo racconto.

Con riferimento specifico all’omicidio S., la Corte d’assise valutò lacunosa e poco verosimile la narrazione del Vi., ritenendo che “allorquando rende le sue dichiarazioni sul punto, la sua posizione non è dissimile da quella di qualsiasi altro imputato, che ha … interesse a respingere le accuse, allontanando da sè qualsiasi responsabilità; egli riacquista invece la propria veste giuridica di collaboratore di giustizia allorquando rende dichiarazioni concernente la responsabilità di altri”.

I giudici d’appello hanno condiviso la valutazione frazionata delle dichiarazioni del Vi., operata dalla Corte di primo grado, senza replicare alle puntuali obiezioni dell’appellante M., che contestava la possibilità di operare tale frazionamento una volta esclusa l’attendibilità del dichiarante.

Sul punto sussiste sia il vizio di motivazione sia quello di erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, denunciati dal ricorrente M..

In proposito, va ribadito che, ai fini di una corretta valutazione della chiamata in correità a norma disposto dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, il giudice deve in primo luogo sciogliere il problema della credibilità del dichiarante (confitente e accusatore) in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici;

in secondo luogo deve verificare l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni.

L’esame deve esser compiuto seguendo l’indicato ordine logico non per meccanica adesione alla giurisprudenza di questa Corte, ma perchè non si può procedere ad una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità” se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sè, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni ad essa (ex pfurimis, v. Cass, Sez. U, n. 1653 del 21/10/1992 Rv. 192465, ******; Cass. Sez. 5, n. 31442 del 28/06/2006, Rv. 235212, *********).

Nel presente caso, i giudici del merito hanno omesso di seguire tali criteri e – pur avendo ritenuto inattendibile il Vi. e inverosimili le dichiarazioni da lui rese in quanto finalizzate ad escludere il proprio coinvolgimento nel delitto – hanno fatto uso delle sue dichiarazioni per affermare la penale responsabilità del M., trascurando di considerare che, normalmente, è proprio la spontanea ammissione delle proprie personali responsabilità in ordine ad un grave delitto a costituire un significativo indice di attendibilità del chiamante in reità o correità anche per le dichiarazioni contra alias.

Sulla possibilità di valutazione frazionata delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, occorre sottolineare che essa non può trasformarsi in un espediente per eludere i criteri innanzi indicati, giacchè il cd. principio di frazionabilità delle dichiarazioni e la possibilità di utilizzare quelle ritenute credibili ed estrinsecamente riscontrate presuppongono l’attendibilità del dichiarante.

Ciò è tanto vero che, in caso di eventuali accertate falsità di parte delle dichiarazioni, per utilizzare le altre parti di dichiarazioni ritenute, il giudice deve giustificare logicamente la ragione che ha originato la falsità, spiegare come e perchè questa non mina la generale attendibilità del dichiarante, dimostrare la mancanza di interferenza tra parti false e il resto del narrato (cfr. Cass. Sez. 6, n. 7627 del 31/01/1996, Rv. 206590, *********; Sez. 6, n. 6221/2006, *******; Sez. 5, n. 37327/2008, Palo; Sez. 4, n. 12349/2008, *************; Sez. 4, n. 9450/2008, *******).

3.4. In ordine all’affermazione di responsabilità penale ex art. 116 cod. pen., la Corte d’appello ha condiviso la valutazione della Corte d’assise, la quale aveva affermato come V.F. e N. M. avessero previsto, quanto meno a titolo di dolo eventuale, il delitto di lesioni personali volontarie in danno di S.R. …, ma non anche il suo assassinio; tuttavia, mentre l’auto guidata da M. si dirigeva verosimilmente verso qualche luogo più defilato, dove condurre l’interrogatorio, W. V. freddò lo S. con un colpo di pistola alla testa”.

Dopo avere correttamente premesso che la responsabilità ex art. 116 cod. pen., comma 2, ricorre quando l’imputato, pur non avendo previsto la commissione del diverso più grave reato da parte dei concorrenti, avrebbe potuto rappresentarsene l’eventualità se, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, avesse fatto uso della normale diligenza, la Corte d’assise di primo grado concluse che “fu gravemente negligente non immaginare che anche in quell’occasione” Vi.Wi., per personalità, storia personale e abitudini, “sarebbe stato armato … e se solo ne avesse avuto la possibilità egli avrebbe usato quell’arma, anche per uccidere, con buona pace degli ordini impartiti da suo zio” Fr. V..

La valutazione delle Corti del merito, secondo cui l’iniziativa omicidiaria di V.W. non costituì un fatto eccezionale, implica la conoscenza da parte di Vi.Fr. che, nella fase di esecuzione dell’ordine da lui impartito al M., avrebbe potuto partecipare anche il nipote W.. Ma di tale conoscenza non v’è dimostrazione nella sentenza impugnata.

Nell’atto di gravame, dopo avere evidenziato l’incarico dato dal Vi. al M. di prendere S.R. e di tenerlo a sua disposizione, si deduceva che Vi. non potesse immaginare che nella vicenda potessero intromettersi persone del gruppo C., ossia, concretamente, che il M. potesse servirsi di Vi.Wi. (appartenente al gruppo malavitoso C.) per ottemperare all’ordine di V.F..

In replica, la Corte d’assise d’appello osserva che Wi.

V., pur facendo parte del gruppo C., era uno dei soci della sala-giochi in cui si incontravano i soggetti appartenenti al gruppo capeggiato da V.F. e che questi non aveva mai affermato di essersi stupito della partecipazione alla spedizione nei confronti dello S. de nipote W..

Ciò tuttavia non equivale all’affermazione, e tanto meno alla dimostrazione, che ****** sapesse o avrebbe dovuto sapere in anticipo, sia pure sulla base delle modalità operative del suo gruppo o delle abitudini del suo uomo di fiducia M., che alla spedizione avrebbe partecipato o quanto meno avrebbe potuto partecipare il W., ciò che risulta indispensabile per addebitare l’accaduto a titolo di art. 116 cod. pen., secondo il criterio della prevedibilità in concreto.

Non meno carente è la motivazione relativa al M..

Rileva il Collegio che non v’è alcun passo della sentenza impugnata da cui risulti la consapevolezza di tale imputato che il giovanissimo W. fosse abitualmente armato.

La Corte d’assise d’appello annota, con riferimento ad entrambi gli imputati, che essi erano “ignari – sebbene per loro grave impudenza – della presenza dell’arma”. Tale affermazione risulta, però, del tutto apodittica nei confronti del M., non essendo accompagnata da alcun riferimento fattuale, cosicchè rimane senza risposta il legittimo quesito del difensore di M., che nell’atto di appello e nel ricorso oggi in esame domanda “per quale via di inferenza logica si deve ritenere che anche il M. sapesse dell’abitudine di Vi.Vi.Wi. di circolare armato”. 3.5. La sentenza va, pertanto, annullata nei confronti di Vi.

F. e M.F., con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Lecce per nuovo giudizio.

4. Omicidio di Vi.Wi. e connessi reati in materia di armi.

V.C. e D.T.O. furono rinviati a giudizio per rispondere dell’omicidio di Vi.Wi., in qualità di esecutori materiali, su mandato di C.F., per avere il V., accompagnato in motocicletta dal conducente D.T., esploso plurimi colpi di pistola contro il Vi., che si trovava in un bar di Surbo il 7 maggio 2002, provocandogli gravissime lesioni che portarono la vittima a morte il successivo 9 novembre.

Per tale delitto e per i connessi reati in materia di armi, il D. T. fu condannato in primo grado alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per due mesi, mentre il V. fu assolto per non avere commesso.

La Corte d’assise affermò la responsabilità penale di D.T. in quanto sulla sua persona “convergevano due chiamate in reità quella di C. e M. intrinsecamente attendibili e perfettamente autonome, ciò consentendo il reciproco riscontro quanto all’attribuzione dell’omicidio di V.W. a tale imputato”;

V.C. fu, invece, assolto per mancanza di riscontri alle dichiarazioni del C..

La Corte d’assise d’appello ha confermato la prima sentenza nei confronti di D.T. e, in accoglimento del gravame del pubblico ministero, ha dichiarato la responsabilità di V.C. per i reato di cui ai capi E) ed E1), rideterminando la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, già inflitta per l’omicidio di P.A., in ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno.

Il movente del delitto è stato indicato nell’inaffidabilità del giovane Vi. a causa della sua tossicodipendenza e nel conseguente pericolo che potesse “pentirsi” e riferire delle vicende delittuose di cui era a conoscenza.

4.1. D.T. ha impugnato la sentenza deducendo mancanza, contraddittoria e illogica motivazione, in relazione alla regola di giudizio di cui all’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, con riferimento alle dichiarazioni de relato dei collaboratori di C.F. e M.. Ha censurato la sentenza per avere affermato la sua responsabilità penale sulla base di una doppia chiamata in reità de relato.

In particolare ha contestato la credibilità e la genuinità delle dichiarazioni di M., per avere conosciute le accuse del C., che aveva riferito della partecipazione e il ruolo del D. T. nell’omicidio Vi., leggendone – come d’abitudine – il resoconto su il Quotidiano di Lecce (edizione del 12 novembre 2003).

La Corte di secondo grado ha rigettato le censure dell’appellante relative alle dichiarazioni de relato, rilevando, per un verso, che quella del C. non poteva essere svalutata come mera chiamata in reità, “atteso che almeno in parte la stessa rivesta natura di chiamata diretta” e, per altro verso, che “in relazione alla convergenti propolazione accusatorie nei riguardi del D.T. provenienti sia da C.F. che dal M. – che anche la chiamata de relato ben può essere idonea a riscontrare altra chiamata in reità de relato”.

Rileva il Collegio che le dichiarazioni del C., mentre erano manifestazione di conoscenza diretta per la parte relativa alla deliberazione dell’omicidio (concordata con V.C.), avevano natura de relato per la parte esecutiva del delitto, relativa al coinvolgimento di D.T..

Il tema delle chiamate in reità o correità da parte di coimputati e imputati di reato connesso ha costituito, per la delicatezza della materia, scivolosa e sempre a rischio di inquinamento, oggetto di grande attenzione da parte del legislatore del codice di procedura penale e della giurisprudenza.

Questa Corte ha più volte affermato che, ex art. 193 cod. proc. pen., comma 3, i riscontri esterni alle chiamate possono essere costituiti anche da ulteriori dichiarazioni accusatone, le quali devono tuttavia caratterizzarsi: a) per la loro convergenza in ordine ai fatto materiale oggetto della narrazione; b) per la loro indipendenza – intesa come mancanza di pregresse intese fraudolente – da suggestioni o condizionamenti che potrebbero inficiare il valore della concordanza; c) per la loro specificità, nel senso che la cd. convergenza del molteplice deve essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi d’accusa forniti dai dichiaranti, ma deve privilegiarsi l’aspetto sostanziale della loro concordanza sul nucleo centrale e significativo della questione fattuale da decidere (v. per tutte, Cass. Sez. 2, n. 13473/2008, Rv. 239744, Lucchese).

E’ stato anche reiteratamente precisato che ove le dichiarazioni accusatorie siano plurime e convergenti, ma sussista il dubbio di artificiose consonanze, il giudice ha l’obbligo di verificare non soltanto se la convergenza non sia l’esito di collusione o concerto calunnioso, ma anche se non sia il frutto di condizionamenti o reciproche influenze, pur senza alcuna preordinata malafede, dovendo pertanto procedere con particolare severità e scrupolo al giudizio di attendibilità (Cass. Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005, Rv. 233084, *******).

Per quanto concerne le dichiarazioni de refato rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 cod. proc. pen. e non confermate dal soggetto indicato come fonte di informazione, è stato affermato che esse possono costituire elemento indiziario idoneo a fondare la dichiarazione di colpevolezza soltanto se confortate, ai sensi dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 da riscontri estrinseci certi, univoci, specifici, individualizzanti, tali da consentire un collegamento diretto ed obiettivo con i fatti contestati e con la persona imputata (Cass. Sez. 6, n. 1639/2003, Rv. 223279 ********).

Plurime chiamate de relato, sottoposte alla verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca e confortate da riscontri esterni aventi le caratteristiche sopra indicate, ben possono ritenersi reciprocamente corroborate e idonee a fondare il giudizio di colpevolezza.

Va invece escluso che il riscontro ad una chiamata in reità o correità de relato possa essere integrato da altra semplice chiamata de relato, non confortata dai predetti riscontri.

Se l’ordinamento processuale ha imposto particolari e rigorose regole di giudizio (art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4) per la chiamata in reità o correità “diretta”, ossia per le dichiarazioni di cui il coimputato o l’imputato di reato connesso afferma la diretta conoscenza (assumendone la relativa responsabilità), deve escludersi che, in mancanza di altri elementi di riscontro aventi le caratteristiche sopra indicate, due o più chiamate de relato possano reciprocamente ritenersi riscontrate, così da essere poste a base del giudizio di responsabilità penale.

Il legislatore ha apprestato, a richiesta di parte e a sua garanzia, uno obbligatorio specifico meccanismo di controllo anche per la testimonianza indiretta, cioè per la dichiarazione del testimone che “si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone” (art. 195 cod. proc. pen.).

Come è stato esattamente osservato, l’obbligo (o il potere), previsto dall’art. 195 cod. proc. pen., di disporre l’esame delle persone che hanno fornito l’informazione è finalizzato alla ricerca di una convalida e all’ottenimento di un controllo a quanto riferito, posto che, in tali casi, è oscura e incerta l’origine della conoscenza e notevolmente ridotta la possibilità di contestazione e di controesame.

Questo meccanismo di garanzia, espressamente dettato per la testimonianza indiretta, in ipotesi proveniente da soggetto terzo e del tutto disinteressato, costituisce un’indicazione generale, da tener presente, a maggior ragione, per dichiarazioni de relato rese da coimputati o imputati di reato connesso, giacchè in quest’ultimo caso alla debolezza dell’elemento probatorio derivante dal riferimento ad una ulteriore fonte, si aggiunge il sospetto intrinseco a ogni dichiarazione del coimputato o imputato di reato, normalmente interessato a una determinata versione o ricostruzione dei fatti da accertare.

Quando, come nel presente procedimento, non si può escutere la persona come fonte originaria della dichiarazione, per essere l’imputato accusato da quella dichiarazione e, perciò, interessato a smentirla, devono applicarsi le regole e i principi stabiliti in tema di chiamata in correità dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, compresa la necessità di riscontri esterni oggettivi, con le caratteristiche sopra indicate.

In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte, ritenendo che la ricerca di riscontri, a conferma di dichiarazioni caratterizzate da credibilità congenitamente carente, affine a quella della testimonianza indiretta, deve essere particolarmente rigorosa e può costituire prova solo se sorretta da riscontri estrinseci, obiettivi ed individualizzanti, tra i quali non sono ricomprese altre dichiarazioni indirette (Cass. Sez. 5, n. 37239 del 9.7.2010, Rv. 248648, Pg in proc. Canale; n. 43464 del 9.5.2002, Rv. 223544, PM in proc. *****).

La Corte leccese non ha fatto corretta applicazione di tali principi di diritto nell’affermare che anche la chiamata de relato ben può essere idonea a riscontrare altra chiamata in reità de relato nè ha valorizzato altri elementi esterni alla chiamata, a differenza di quanto ha fatto per l’omicidio di P.A., precedentemente esaminato.

Osserva, inoltre, il Collegio che non appare poi logicamente plausibile che nella sentenza impugnata si sostenga la possibilità che il M. non avesse letto il Quotidiano del 12 novembre, a fronte dell’ammissione del collaborante di leggere quello specifico giornale, ciò che rende più probabile che la lettura ci sia stata dell’ipotesi contraria, giacchè il resoconto delle dichiarazioni di C. era argomento di particolare interesse in ambito carcerario, soprattutto in un ambiente territorialmente ristretto come quello leccese e particolarmente da parte di lettori di giornali che potevano essere direttamente coinvolti nei fatto riferiti dal collaboratore C..

Nè di “particolare severità e scrupolo” risulta l’affermazione della permanenza della genuinità delle dichiarazioni del M., “quand’anche avesse letto” quello specifico articolo pubblicato il 12 novembre 2003, giacchè omette di tenere in considerazione l’eventuale condizionamento derivante da siffatta lettura.

Rileva infine il Collegio che fondatamente il ricorrente censura l’impropria utilizzazione, nella motivazione della decisione in esame, della sentenza (non irrevocabile) relativa all’omicidio C. (giudicato separatamente), per il quale il M. aveva chiamato in correità il D.T..

Con riferimento a tale fatto, i giudici del merito (pag. 153) evidenziano come la sentenza di primo grado, che assolse D.T., fosse stata ribaltata in appello. Inoltre, dal ritenuto concorso dei due imputati nello stesso fatto di sangue essi traggono elementi per giustificare la verosimiglianza delle confidenze fatte dal D.T. al complice M. anzichè a C.S., fratello del capo F. e responsabile del gruppo in carcere (pag. 151).

L’annullamento (con rinvio) della condanna del D.T. da parte della Corte di cassazione (Cass. sez. 5, n. 36598 del 12.5.2009) per vizio di motivazione anche sul punto specifico della chiamata in correità da parte del M., priva di valenza l’argomentazione che ha tratto la sentenza impugnata per corroborare le dichiarazioni del M..

4.2. V.C., con riferimento al capo della sentenza relativo all’omicidio di Vi.Wi., si duole dell’erronea applicazione dell’art. 192 cod. proc. pen., comma 3 e relativo vizio di motivazione, con riferimento:

– alla credibilità delle dichiarazioni accusatorie e all’attendibilità dei collaboratori di giustizia, uno dei quali (il M.) aveva riferito il suo nome ben oltre i 180 giorni di al D.L. n. 8 del 1991, art. 16 quater, comma 9;

– alla valutazione dell’alibi dell’imputato, in relazione al quale rileva l’illogicità della motivazione che ne ha ritenuto la falsità anzichè il fallimento, come aveva ritenuto la Corte di primo grado;

– alla valutazione delle testimonianze relativa alle caratteristiche fisiche del killer;

– alla violazione dell’onere di motivazione rafforzata in caso di ribaltamento in appello della sentenza assolutoria di primo grado.

In particolare, il ricorrente censura l’erronea individuazione di un decisivo riscontro esterno alla chiamata di correità del C. nelle dichiarazioni rese da M., il quale, nel corso di interrogatorio reso al P.M. in fase di indagini preliminari, aveva indicato quali esecutori materiali D.T. e V.N.I., e solo successivamente, con lettera indirizzata al pubblico ministero il 3.1.2005, aveva indicato V.C. al posto del cugino N.I..

Riformando la sentenza assolutoria di primo grado, che aveva escluso la ravvisabilità di un valido riscontro nelle dichiarazioni rese di M., la Corte d’assise d’appello, ha ritenuto che le dichiarazione accusatorie del C. fossero riscontrate dalla ritenuta falsità dell’alibi dell’imputato e dalla rivalutata dichiarazione de relato del M..

Questi, in fase di indagini preliminari, nell’interrogatorio reso dinanzi al pubblico ministero il 24 marzo 2004, aveva indicato, quali esecutori materiali dell’omicidio di V.W., D.O. T. e V.N.I., specificando, per quest’ultimo che si trattava del “cugino piccolo”, con evidente riferimento al cugino di V.C..

Nella successiva lettera indirizzata al P.M., il M. aveva scritto che l’omicida non era N.I. bensì V.C., indicazione ripetuta in dibattimento, con la precisazione, a seguito di contestazione, che si era trattato di un errore sulla persona.

Correttamente la Corte d’assise d’appello ha ritenuto l’infondatezza della deduzione d’inutilizzabilità delle dichiarazioni del M., in quanto la sanzione di inutilizzabilità che (ai sensi del D.L. 15 gennaio 1991, n. 8, art. 16 quater, comma 9, convertito nella L. 15 marzo 1991, n. 82, come modificata dalla L. 13 febbraio 2001, n. 45, art. 14) colpisce le dichiarazioni del collaboratore di giustizia rese oltre il termine di centottanta giorni, previsto per la redazione del verbale informativo dei contenuti della collaborazione, trova applicazione solo con riferimento alle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio e non a quelle rese nel corso del dibattimento (Cass. Sez. 6, n. 27040 del 22/01/2008, Rv. 241007, *****).

I giudici di secondo grado hanno però liquidato la questione attinente alla credibilità della dichiarazione come una mera svista del dichiarante, osservando come “l’iniziale erronea indicazione del M. non avesse riguardato un soggetto, per così dire terzo, ossia del tutto estraneo ai V. odierno imputati, sicchè appare senz’altro plausibile che, nel contesto di un articolato interrogatorio, il M. potesse avere indicato effettivamente per mera svista uno dei due V. invece dell’altro, cioè facendo in quel momento solo confusione tra i nomi dei due” (p. 167).

La predetta spiegazione manca di plausibilità logica giacchè non si fa carico dell’ovvio rilievo del difensore dell’imputato, che ha evidenziato come un dichiarante che, in rifermento a due cugini che vivono nello stesso ambiente criminale, indica nominativamente uno dei due, con la specificazione che si tratta del “cugino piccolo”, contestualmente sta escludendo il cugino più grande.

Il giudice di primo grado aveva evidenziato che “il M. non ha spiegato in alcun modo, ed attraverso quali passaggi logici, egli avrebbe potuto confondersi su un particolare così importante, come il nome dell’omicida” e i giudici d’appello non hanno fornito una plausibile spiegazione idonea a superare l’affermazione del primo giudice, venendo meno all’obbligo di motivazione rafforzata che grava sul giudice d’appello, tanto più in mancanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, nell’ipotesi di riforma di una sentenza assolutoria.

E’ consolidata giurisprudenza di questa Corte che la sentenza di appello che ribalta il giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, a pena di vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Cass. Sez. 6, n. 6221/2006, Rv. 233083, *******; Sez. U, n. 45276/2003, Andreotti).

A tale consolidato orientamento di legittimità, occorre aggiungere la considerazione che il principio secondo cui il giudizio di condanna è legittimo “se l’imputato risulta colpevole … al di là di ogni ragionevole dubbio”, (art. 533 cod. proc. pen., comma 1, come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 5), implica che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non più razionalmente sostentile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza.

Come è stato efficacemente affermato, non basta più “per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere “ogni ragionevole dubbio”, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza” (Cass. sez. 6, n. 40159//2011, rv. 251066, *******; sez. 6, n. 40513/2011, *******, n.m.; Sez. 6, n. 4996/2012, rv. 251782, ******).

4.3. Assorbito ogni altro motivo di ricorso, la sentenza va, dunque, annullata nei confronti di D.T.O. e di V.C. in ordine all’omicidio di Vi.Wi. e ai connessi reati in materia di armi, con rinvio per nuovo giudizio.

5. Minacce e lesioni volontarie gravi in danno di P.V. e connesso reato in materia di armi; tentativo di estorsione in danno di S.G..

I motivi di ricorso dedotti da V.N.I. in relazione a questi capi della sentenza sono inammissibili.

Per quanto riguarda il reato di minacce e lesioni volontarie gravi in danno di P.V. (così derubricata l’originaria imputazione di tentato omicidio) e ai connessi reati in materia di armi, sotto la rubrica della violazione di legge e vizio di motivazione, in realtà il ricorrente avanza censure di merito nel confronto dell’apprezzamento degli elementi probatori operato dalla Corte d’assise d’appello, che ha già rigettato gli analoghi motivi di gravame con motivazione giuridicamente corretta e indenne da vizi logici.

Del tutta generica, e perciò in contrasto con l’obbligo di specificità previsto, a pena d’inammissibilità, dall’art. 581, lett. c) e art. 591 cod. proc. pen., lett. c) è la censura relativa all’affermazione di colpevolezza per il delitto di tentata estorsione in danno di S.G..

6. In conclusione, la sentenza impugnata va annullata nei confronti di M. e di Vi., nonchè di D.T. e di V. limitatamente all’omicidio di Vi.Wi. e ai connessi reati d’armi, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello, che procederà a nuovo giudizio attenendosi ai principi di diritto sopra enunciati.

Va rigettato nel resto il ricorso di V.C.. Devono altresì rigettarsi i ricorsi di D.F. e di N.I. V., con condanna alle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen..

 

P.Q.M.

 

La Corte annulla la sentenza impugnata nei confronti di ***** e di Vi.Fr., nonchè nei confronti di D.T. O. e di V.C. in ordine all’omicidio di V. W. e ai connessi reati d’armi e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Lecce (Taranto).

Rigetta nel resto il ricorso di V.C..

Rigetta i ricorsi di D.F.M. e di V.N.I., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Redazione