Intervista con domande tendenziose, provocatorie ed ingiuriose: Canale 5 deve risarcire i danni (Cass. n. 14533/2013)

Redazione 10/06/13
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Svolgimento del processo

1. M.P., coniugata R.D., conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la s.p.a. RTI – Reti Televisive Italiane, osservando che in data 21 ottobre 1994 era stata avvicinata, all’uscita delta propria abitazione, da una troupe televisiva composta da S.S., collaboratore del programma Striscia la notizia, e da un cameraman; in particolare, l’intervistatore l’aveva aggredita con domande tendenziose, provocatorie ed ingiuriose, senza darle la possibilità di sottrarsi all’intervista. Poiché il filmato era stato messo in onda più volte sulla rete Canale 5, l’attrice chiedeva la condanna della convenuta al risarcimento dei danni conseguenti al carattere gravemente diffamatorio della vicenda.
Costituitasi la società convenuta, il Tribunale di Roma, con sentenza del 20 gennaio 2003, accoglieva in parte la domanda e condannava la s.p.a. RTI al pagamento della somma di euro 22.500, oltre interessi legali e con il carico delle spese.
2. Avverso la sentenza di primo grado proponevano appello principale la società soccombente ed appello incidentale la P.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza del 9 ottobre 2006, rigettava entrambi gli appelli e, dopo aver compensato per metà le spese del grado, poneva l’ulteriore metà a carico dell’appellante principale.
Osservava, la Corte territoriale, in riferimento all’appello principale, che dalla visione della registrazione della trasmissione era emerso che il giornalista non aveva alcuna intenzione di realizzare un servizio finalizzato ad evidenziare presunti comportamenti politici non corretti della P., ma aveva «sin dall’inizio mirato a realizzare un piccolo show, incentrato sulla provocazione violenta e gratuita dell’attrice e sulla conseguente reazione della medesima». L’intervistatore S., infatti, pur avendo la donna tentato gentilmente di sottrarsi all’intervista, l’aveva immediatamente attaccata con comportamenti aggressivi, rivolgendole epiteti diffamatori quale vigliacca, ed accusandola di aver mangiato per anni con i socialisti. Il tutto mentre alla P. non era consentito neppure «rispondere alle presunte domande con frasi minimamente articolate».
Ciò posto, la Corte romana rilevava che simili comportamenti sono del tutto incompatibili con il diritto di cronaca e di critica, in quanto l’art. 21 della Costituzione non tutela, la libertà di provocazione. Allo stesso modo, poi, non era ipotizzabile neppure il diritto di satira, perché esso – diretto a suscitare ilarità nello spettatore e spesso rivolto a porre in ridicolo singoli personaggi noti del mondo della politica – non può comunque essere asservito, per costante giurisprudenza, ad un fine meramente denigratorio, né risolversi in forme di puro dileggio, sicché la satira non può sfuggire al limite della correttezza.
In ordine all’appello incidentale della P., la quale lamentava l’esiguità del risarcimento, la Corte, d’appello ribadiva che non c’era prova della sussistenza di un danno patrimoniale e che la liquidazione del danno morale compiuta dal Tribunale doveva essere confermata, trattandosi di un risarcimento oggetto di valutazione equitativa. D’altra parte – osservava il giudice di appello – «la riparazione pecuniaria della lesione dell’immagine professionale della persona non può essere ridotta a misure tali da sfiorare il carattere meramente irrisorio».
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma propone ricorso per cassazione la s.p.a. RTI – Reti Televisive Italiane, con atto contenente quattro motivi.
Resiste la P. con controricorso.
La R.T.I. s.p.a. ha presentato memoria.

 

Motivi della decisione

1.1. Col primo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., dell’art. 21, primo comma, Cost., in tema di diritto di cronaca.
Rileva la ricorrente che la sentenza impugnata, pur avendo, ammesso che il revirement politico addebitato alla P. poteva avere un qualche rilievo pubblico, ha poi negato l’esistenza del diritto di cronaca. La Corte di merito non avrebbe tenuto conto del fatto che, a causa della «desensibilizzazione del linguaggio», espressioni un tempo considerate offensive «sono ormai penetrate nel linguaggio comune, avendo perso ogni carica diffamatoria». Ne consegue che la pronuncia impugnata avrebbe dato rilievo ad espressioni in astratto offensive, senza considerare la notorietà della persona cui le espressioni erano state rivolte. D’altra parte, «impedire che le domande possano essere rivolte anche in modo incalzante e provocatorio significa, di fatto, privare il giornalista di uno strumento fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica».
1.2. Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha provveduto a delineare in modo rigoroso i limiti del diritto di cronaca che, in quanto espressione della libertà di manifestazione del pensiero, gode di tutela costituzionale.
È stato affermato, al riguardo, che la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’accertamento in concreto dell’attitudine offensiva delle espressioni usate, la valutazione dell’esistenza dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica (la quale ultima si deve esprimere nel rispetto del requisito della continenza e, perciò, in termini formalmente corretti e misurati ed in modo tale da non trascendere in attacchi ed aggressioni personali, diretti a, colpire sul piano individuale la figura morale del soggetto criticato) costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto (sentenze 18 ottobre 2005, n. 20137, 15 febbraio 2006, n. 3284, e 10 gennaio 2012, n. 80, relativa ai limiti dell’esimente del diritto di cronaca). Allo stesso modo si è detto, in tema di diffamazione a mezzo stampa, che l’esercizio del diritto di cronaca non consente mai di far ritenere scriminato l’uso di espressioni gratuite e non necessarie, volgari, umilianti o, comunque, atte al mero dileggio di un terzo (sentenza 18 ottobre 2005, n. 20137).
La Corte di merito ha fatto corretta applicazione di detti principi. Con motivazione correttamente argomentata e priva di vizi logici, infatti, ha spiegato che non c’è stata alcuna intervista nei confronti della P. Ella, infatti, è stata avvicinata «con un atteggiamento platealmente ed insistentemente rivolto ad impedirle di allontanarsi», poiché il ***** le si è rivolto profferendo frasi offensive al suo indirizzo e, in pratica, predisponendo una sorta di piccolo show televisivo con l’obiettivo di determinare la reazione della vittima la quale, dopo aver inizialmente tenuto toni «del tutto misurati», si è lasciata andare a comportamenti violenti. Nella specie, quindi, la Corte di merito ha chiarito che il giornalista non era affatto interessato a dare conto delle scelte politiche assunte dalla P. – il che, ragionando in astratto, avrebbe potuto trovare un suo fondamento nel diritto di cronaca – bensì soltanto a «costruire un prodotto televisivo che risultasse appetibile in un orario di massimo ascolto, contando sulla reazione violenta della P.».
Alla luce di simile ricostruzione dei fatti, che questa Corte non ha il potere di modificare, le conseguenze tratte dal giudice d’appello sono del tutto condivisibili: non è ipotizzabile, infatti, alcun diritto di Cronaca e neppure, eventualmente, di satira attraverso il mero strumento della provocazione che non trova alcuna protezione nell’ambito dell’art. 21 della Costituzione. Non si tratta, quindi, come ipotizza la parte ricorrente, di una «desensibilizzazione del linguaggio» che avrebbe fatto venire meno l’aspetto diffamatorio delle espressioni usate, perché il problema non riguarda il linguaggio – sul quale, infatti, il giudice di merito nulla dice – ma le modalità concrete dell’episodio assunto nella sua globalità; episodio che rimane confinato nell’ambito di un’aggressione che non ha nulla a che vedere col diritto di cronaca costituzionalmente garantito.
2.1. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 610 del codice penale.
Secondo; la ricorrente, la corte d’appello ha fatto riferimento ad un atteggiamento del S. volto ad impedire alla P. di sottrarsi all’intervista, comportamento che si sarebbe risolto in una sorta di violenza morale.
Secondo la giurisprudenza penale, per integrare il delitto di violenza privata non è sufficiente una condotta che determini una costrizione, essendo invece necessaria la presenza della violenza o della minaccia; né il Tribunale né la Corte d’appello, invece, hanno rilevato l’esistenza di comportamenti tali da suscitare un timore idoneo a costringere la P. a sottoporsi all’intervista.
2.2. Il motivo, ai limiti dell’inammissibilità, non è comunque fondato.
La sentenza impugnata non ha in alcun modo accertato, neppure in via incidentale, l’esistenza del reato di violenza privata, bensì solo di un comportamento aggressivo ed ingiurioso che aveva impedito alla vittima di rispondere in modo articolato alle domande poste o di sottrarsi all’intervista. Il giudizio civile, infatti, non era finalizzato all’accertamento dell’esistenza di un reato, bensì soltanto a chiarire la natura diffamatoria del comportamento assunto dai dipendenti della società oggi ricorrente.
Così inquadrati correttamente i termini del problema, risulta evidente che il quesito formulato alla p. 9 del ricorso dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata, rispetto alla quale pone una questione che è, in effetti, eccentrica e priva di rilevanza ai fini della decisione.
3.1. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 10 cod. civ. e degli artt. 96 e 97 della legge 22 aprile 1941, n. 633.
Si rileva, in proposito, che la Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado sul punto della liquidazione del danno patrimoniale all’immagine. Non risulterebbe, peraltro, in cosa sia consistita la violazione della sfera privata, perché l’intervista è stata effettuata sulla pubblica via, era rivolta contro un personaggio noto all’opinione pubblica e l’argomento oggetto dell’intervista aveva rilievo pubblico, riguardando le scelte di appartenenza politica della *********** d’appello, quindi, avrebbe dovuto ravvisare gli elementi previsti dal citato art. 97 per la diffusione dell’immagine senza il consenso dell’interessata.
3.2. Il motivo – che, analogamente al precedente, non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata – non è fondato.
La sentenza impugnata ha affermato, nel momento in cui si è occupata del problema della determinazione del danno da risarcire, che l’accertata condotta diffamatoria, cui ha fatto seguito la reazione violenta della vittima, «potrebbe aver avuto una sua oggettiva potenzialità lesiva riguardo alla commercializzazione del marchio “*************************” nel mondo dell’abbigliamento e della moda per signora». Contestualmente, però, la sentenza ha anche aggiunto che tale astratta possibilità non era stata supportata da alcuna idonea prova concreta di una qualche diminuzione patrimoniale conseguente all’episodio di cui si discute, tanto che ha poi liquidato il danno (morale) in via equitativa.
Nella sentenza in esame, perciò, manca ogni riferimento alla lesione del diritto all’immagine tutelato dalle norme della legge sul diritto d’autore invocate nel motivo di ricorso, sicché non ha senso occuparsi in questa sede dei limiti nei quali è consentita la diffusione dell’immagine altrui.
4.1. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2043 e 2697 del codice civile.
La Corte di merito, infatti, ha confermato la sentenza di primo grado sul profilo della liquidazione del danno morale soggettivo. Tale danno, però, sarebbe stato riconosciuto senza un’effettiva prova sul punto, come invece necessario alla luce della giurisprudenza di questa Corte, sull’argomento.
Il motivo è sostenuto dal seguente quesito di diritto:
«dica la Suprema Corte se, in assenza di elementi probatori da cui far ritenere sussistente un perturbramento psichico risarcibile, ed altresì essendo presenti circostanze da cui si desume che detto perturbamento consiste in una reazione assolutamente spropositata, non riconducibile, in virtù di un nesso di causalità adeguata, al fatto illecito contestato, sia o no risarcibile il danno morale soggettivo».
4.2. Il motivo è inammissibile.
Risulta evidente, infatti, dalla formulazione del quesito di diritto sopra trascritto, che la censura relativa alla liquidazione del danno morale presuppone, per il suo eventuale accoglimento, una diversa ricostruzione dell’episodio di cui si discute. Dire, infatti, che la reazione della P. è stata assolutamente spropositata, mentre da un lato impone una nuova valutazione dei fatti che è sottratta ai poteri di questa Corte, dall’altro si rivela anche non concludente in vista dell’obiettivo che si vuole raggiungere, ossia quello di escludere l’esistenza di un danno morale risarcibile.
5. In conclusione, il ricorso è rigettato.
A tale esito segue la condanna della parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 4,700, di cui euro 200 per spese, oltre accessori di legge.

Redazione