Insensato ‘gioco’ con le armi all’interno della caserma finisce in tragedia. Responsabile solidale il Ministero della Difesa per omessa vigilanza. ( Corte di Cassazione, sez. III Civile, 6/5/2015, n. 8991)

Redazione 06/05/15
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Il Caso: un insensato gioco con le armi avvenuto all’interno della caserma finisce in tragedia con la morte di un carabiniere rimasto ucciso sul colpo.

Il Tribunale aveva anzitutto affermato una concorrente responsabilità nella misura del 75% a carico del carabiniere ancora vivo che aveva esploso il colpo e del 25% a carico del carabiniere morto per essersi comunque prestato al “gioco”, sparando (seppur con arma scarica) il primo colpo. Aveva inoltre liquidato i danni escludendo da responsabilità il Ministero della difesa.
La Corte d’Appello, accogliendo l’appello dei famigliari della vittima, affermava invece la responsabilità solidale del Ministero per l’omessa vigilanza da parte di due commilitoni, di grado superiore, che avrebbero potuto e dovuto impedire che le armi fossero usate per un “gioco”.

La Suprema Corte stabilisce che: “qualora un dipendente della P.A. abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto, è configurabile la responsabilità diretta della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori”.

 

Corte di Cassazione, sez. III Civile, 6 maggio 2015, n. 8991


Svolgimento del processo


1. T.G. , M.A. , T.T. e G. – rispettivamente genitori e sorelle del defunto T.M. – convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Palermo, il Ministero della difesa, il Ministero dell’interno e L.G. , chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni conseguenti all’uccisione di T.M. da parte del L. .
Esposero, a sostegno della domanda, che tanto la vittima quanto l’omicida erano appartenenti all’Arma dei Carabinieri e che la morte del T. era stata causata dall’esplosione di un colpo di arma da fuoco da parte del L. , nel corso di un tragico ed insensato gioco avvenuto all’interno della caserma dove gli stessi prestavano servizio.
Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, eccependo l’incompetenza per territorio e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda.
Il Tribunale, dopo aver dichiarato la propria competenza con sentenza non definitiva, con la successiva sentenza definitiva dichiarò il difetto di legittimazione passiva del Ministero dell’interno; riconobbe quindi la responsabilità del L. nella misura del 75 per cento ed un concorso di colpa della vittima per il restante 25 per cento; rigettò la domanda risarcitoria nei confronti del Ministero della difesa e liquidò i danni in favore di ciascuno degli attori, con condanna al pagamento delle spese di giudizio, ponendoli a carico esclusivo del convenuto L. .
2. La pronuncia è stata appellata dal L. in via principale e dagli eredi del T. in via incidentale.
La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 1 marzo 2010, in parziale riforma di quella di primo grado, ha respinto l’appello del L. volto a censurare la pronuncia di primo grado in ordine all’affermazione della sua responsabilità; ha accolto il medesimo appello e quello incidentale, riconoscendo la sussistenza della responsabilità anche del Ministero della difesa in rapporto a quanto accaduto; ha confermato la percentuale delle rispettive responsabilità del L. e della vittima; ha incrementato la liquidazione del danno biologico in favore della M. , madre del defunto; ed ha conseguentemente regolato le spese di lite.
Ha osservato la Corte territoriale, innanzitutto, che era risultata del tutto priva di riscontri la tesi difensiva del L. secondo cui egli avrebbe esploso il colpo di pistola nell’erroneo convincimento che l’arma, al pari di quella del T. , fosse scarica.
Doveva viceversa essere riconosciuta l’esistenza di una responsabilità solidale del Ministero della difesa. E ciò non tanto per la riferibilità di quanto accaduto allo svolgimento dell’attività istituzionale del dipendente – dovendosi dare per pacifico che il comportamento del L. non era in alcun modo riconducibile ai fini istituzionali dell’amministrazione – quanto piuttosto per l’omessa vigilanza che, nella tragica circostanza, era imputabile ad altri due commilitoni, di grado superiore al L. , i quali, presenti nel momento del fatto, avrebbero potuto e dovuto impedire che le armi fossero usate al di fuori delle esercitazioni regolamentari e, addirittura, per motivi di gioco.
Ciò posto, la Corte d’appello ha ritenuto di confermare il riparto delle colpe, osservando che anche il T. era responsabile, sia pure in misura assai minore, di quanto accaduto, essendo indubbio che la vittima, “al reiterato rifiuto di giocare a carte opposto dal L. , si prestò al tragico gioco ed esplose il primo colpo”, però dopo che la sua pistola era stata scaricata dal commilitone B. . Era d’altra parte evidente che la responsabilità più grande andava attribuita al L. , il quale “prima di sparare avrebbe quantomeno dovuto assicurarsi che l’arma fosse scarica”.
In ordine alla liquidazione del danno, la Corte palermitana ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria, avanzata dai familiari, fondata sull’assunto che il T. avesse percepito lucidamente l’approssimarsi della sua fine (c.d. danno catastrofico); ciò in quanto dalle testimonianze raccolte e dagli accertamenti compiuti in sede penale era emerso che lo sfortunato giovane era morto pochi attimi dopo essere stato attinto dal fatale colpo d’arma da fuoco, dovendosi quindi presumere l’immediata perdita di coscienza e la conseguente infondatezza della relativa domanda risarcitoria avanzata iure haereditatis. La sentenza, invece, ha innalzato notevolmente l’entità del danno biologico riconosciuto iure proprio alla madre della vittima, poiché sulla base della c.t.u. svolta era emersa l’esistenza di una grave patologia depressiva, conseguente alla tragedia, tale da determinare il crollo emotivo della donna, con conseguente assorbimento di ogni altro pensiero. Né poteva essere accolta, sul punto, l’eccezione della difesa del L. circa il fatto che il c.t.u. aveva depositato il proprio supplemento di relazione prima dell’udienza all’uopo fissata.
3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Palermo propone ricorso principale il Ministero della difesa, con atto affidato a cinque motivi.
Resistono i familiari del T. sopra indicati, con controricorso contenente ricorso incidentale affidato a due complessi motivi e ricorso incidentale condizionato affidato ad un motivo.
Resiste altresì L.G. , con controricorso contenente ricorso incidentale affidato a tre motivi.
Gli eredi T. resistono con controricorso al ricorso incidentale del L. .
Il L. , a sua volta, resiste con controricorso al ricorso incidentale degli eredi T. .
Gli eredi T. hanno depositato memoria.

 

Motivi della decisione


Ricorso principale (Ministero della difesa).
1. Con il primo motivo del ricorso principale si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ. e dell’art. 40, secondo comma, del codice penale.
Rileva la ricorrente che la sentenza impugnata ha fondato il riconoscimento della responsabilità del Ministero della difesa sul rilievo della sussistenza di un obbligo di impedire l’evento a carico dei due commilitoni B. e D.M. . Tuttavia la responsabilità di cui all’art. 40, cpv., cod. pen., presuppone l’accertamento dell’esistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, non essendo sufficiente il richiamo al principio del neminem laedere. La sentenza avrebbe quindi errato nel fondare la responsabilità del Ministero sul semplice dato dell’omessa vigilanza.
1.1. Il motivo non è fondato.
1.2. Come si è in precedenza già visto, la Corte d’appello palermitana – dopo aver correttamente richiamato i precedenti di questa Corte in ordine al c.d. nesso di immedesimazione organica tra il dipendente e la pubblica amministrazione, condizione necessaria affinché ricorra la responsabilità di quest’ultima per il fatto illecito dannoso compiuto dal dipendente (sentenze 17 settembre 1997, n. 9260, 12 novembre 1999, n. 12553, 30 gennaio 2008, n. 2089, e 29 dicembre 2011, n. 29727) – ha rilevato che nel caso in esame non ricorreva il vincolo di occasionalità necessaria, in quanto il comportamento del L. non era “riconducibile in alcun modo ai fini istituzionali perseguiti dall’amministrazione”, trattandosi, al contrario, di azione dettata da fini assolutamente estranei e, anzi, contrari rispetto a quelli perseguiti dall’amministrazione.
Ciò nondimeno, la Corte territoriale ha ravvisato una ulteriore e diversa ragione di responsabilità solidale anche a carico del Ministero della difesa, e l’ha identificata nella “omessa adeguata vigilanza che avrebbe dovuto essere esercitata dai commilitoni presenti, gerarchicamente sovraordinati al L. , i quali avrebbero ben potuto, e dovuto, vietare l’uso delle armi, al di fuori delle esercitazioni regolamentari, e per di più per motivi di gioco, nell’ambito della caserma”.
Ora, a prescindere dai profili in fatto della vicenda, che restano quelli accertati dal giudice di merito e che sono perciò esclusi da ogni discussione in questa sede, il principio di diritto enunciato, sia pure non formalmente, dalla Corte d’appello è del tutto condivisibile.
Esso è pienamente conforme a quanto stabilito da questa Corte con la sentenza 17 gennaio 2008, n. 864, che costituisce, in effetti, un precedente specifico. Già in quella pronuncia, infatti, è stato affermato che, qualora un dipendente della P.A. abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto (vigilando poi sull’applicazione delle direttive medesime), è configurabile la responsabilità diretta della P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori, sussistendo sia la riferibilità di tale atto alla stessa P.A. (una volta assodato che nella fattispecie concreta la predetta emanazione rientrava tra i compiti di chi aveva funzioni dirigenziali nella struttura amministrativa in questione), sia l’esistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso.
Ed è quanto mai significativo che la citata pronuncia è stata emessa in relazione ad una fattispecie assai simile a quella odierna.
1.3. Il Ministero della difesa insiste, nel motivo in esame, con l’affermazione che non sarebbe configurabile a suo carico alcuna responsabilità, in quanto non vi era un obbligo giuridico di impedire l’evento rilevante ai fini dell’art. 40 del codice penale.
La censura, però, non merita accoglimento. È pacifico, infatti, che la semplice appartenenza alle Forze armate, pur conferendo un diritto all’uso legittimo delle armi nel solo limitato ambito delle funzioni di ufficio, certamente non consente analogo uso per finalità estranee e – come nella specie – del tutto insensate, quale quella di un gioco irresponsabile tra commilitoni all’interno di una caserma. Ed è altrettanto pacifico che, ricorrendo tale situazione, gli altri appartenenti alle Forze armate che siano presenti sul posto ed assistano alla scena hanno il preciso dovere, e non soltanto una mera facoltà, di adoperare tutta l’autorità di cui eventualmente dispongano – magari dettata dalla superiorità in grado – per far cessare immediatamente una simile follia.
Non è necessario individuare, come vorrebbe la parte ricorrente, un qualche specifico obbligo o una precisa elencazione di compiti per radicare la responsabilità della pubblica amministrazione. D’altra parte, come meglio si dirà a proposito del quarto motivo di ricorso del Ministero della difesa, l’Arma dei Carabinieri ha dettato precise regole interne sull’uso delle armi, che dovevano essere ben note al L. ma anche ai suoi superiori presenti nel momento della tragedia.
Da ciò conseguono la correttezza della decisione impugnata e l’evidente infondatezza del motivo in esame.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al profilo del nesso di causalità.
Il vizio di motivazione consiste, nell’assunto del ricorrente, 1) nella convinzione che l’utilizzazione della pistola, da parte del L. , nell’erronea certezza che fosse scarica sia da ricondurre ad un difetto di vigilanza da parte dei commilitoni; 2) nella mancata adeguata valutazione delle tragiche circostanze (eccezionali) nelle quali l’evento si verificò.
3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine in ordine al profilo della colpa.
Ritiene il Ministero che la sentenza non avrebbe considerato il fatto che i commilitoni B. e D.M. non avrebbero potuto fare, nella circostanza, nulla di più di quanto effettivamente fecero.
4. Il secondo ed il terzo motivo, da trattare insieme in considerazione dell’evidente collegamento tra loro esistente, sono entrambi privi di fondamento.
La Corte d’appello ha ricostruito le modalità della tragica vicenda con una motivazione congrua, del tutto consequenziale e priva di vizi logici, per cui non è raffigurabile alcun vizio di motivazione.
I motivi in esame si risolvono, all’evidenza, in una ulteriore discussione sulle prove esistenti e sulla valutazione delle medesime, e tentano di ottenere da questa Corte una nuova e non consentita decisione di merito. Quanto alla pretesa eccezionalità del fatto, è palese che la stessa, ove pure fosse ammessa, non muterebbe in nulla i termini giuridici della vicenda.
5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 cod. civ., con riferimento al regolamento del comando generale dell’Arma dei carabinieri del 1990 avente ad oggetto l’uso delle armi e delle munizioni da parte degli appartenenti all’Arma.
Dalla lettura del citato regolamento emergerebbe, infatti, che il L. ha tenuto un comportamento gravemente lesivo del regolamento stesso, con conseguente necessità di un’attribuzione esclusiva di responsabilità a suo carico.
6. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 28 della Costituzione.
Sostiene il ricorrente che non vi sarebbero, nella specie, le condizioni per ritenere operante la responsabilità di cui all’art. 28 Cost., perché la condotta del L. e del T. non era in alcun modo strumentalmente connessa con l’attività d’ufficio, mancando il vincolo di occasionalità necessaria. Nella specie, al contrario, si trattava di un comportamento tenuto per finalità estranee e contrarie a quelle dell’amministrazione.
7. Il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale, da trattare congiuntamente in considerazione della stretta connessione che li unisce, sono entrambi privi di fondamento.
7.1. Fermo restando tutto quanto si è già detto a proposito del primo motivo, il Collegio osserva che non sussiste alcuna delle prospettate violazioni di legge.
Quanto al quarto motivo, è fuor di dubbio che il comportamento tenuto dal L. è stato un comportamento illecito, e ciò anche senza bisogno di fare ricorso ai regolamenti interni dell’Arma dei Carabinieri riguardanti l’uso delle armi. Ma il fatto che il L. abbia violato le regole non esclude la corresponsabilità del Ministero della difesa, per un titolo ovviamente diverso, secondo quanto si è detto a proposito del primo motivo.
In riferimento al quinto motivo, poi, è appena il caso di rilevare che esso torna a porre una questione del tutto pacifica, già affrontata e risolta dalla Corte d’appello, e cioè quella del carattere non istituzionale – anzi, contrario ai doveri d’ufficio – del comportamento tenuto dal L. ; ma, come si è detto, ciò non esclude la responsabilità del Ministero della difesa per altre e diverse ragioni.
Ricorso incidentale degli eredi T. .
8. Con il primo motivo del ricorso incidentale i familiari del defunto T. lamentano, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., oltre ad omessa o insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi per il giudizio.
Osservano i ricorrenti che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha riconosciuto in capo alla vittima l’esistenza di un concorso di colpa nella misura del 25 per cento. È risultato dall’istruttoria, invece, che il T. aveva maneggiato la pistola che sapeva essere senza caricatore, mentre il L. aveva arretrato il carrello della sua arma prima che partisse per errore il colpo fatale; ma in tal modo egli aveva compiuto un’azione preparatoria al tiro, sicché la colpa doveva essere attribuita integralmente al L. o, in alternativa, a carico anche del T. , ma in misura ben inferiore a quella del 25 per cento.
8.1. Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata, con un accertamento in fatto correttamente motivato e privo di vizi logici, è pervenuta alla conclusione che la responsabilità di quanto accaduto era da ricondurre nella maggiore percentuale (75 per cento) a colpa del L. e nel residuo 25 per cento a colpa del defunto T. . A tale decisione la Corte d’appello è giunta ponendo in evidenza, come s’è detto, che la vittima, “al reiterato rifiuto di giocare a carte opposto dal L. ”, si prestò “al tragico gioco ed esplose il primo colpo” (sia pure con una pistola che era stata scaricata), mentre il L. è stato considerato maggiormente colpevole in quanto esplose il colpo fatale senza aver prima verificato che l’arma fosse scarica.
Ora, a prescindere dalla circostanza, richiamata nel motivo in esame, secondo cui il L. esplose il colpo dopo aver arretrato il carrello dell’arma – manovra considerata come preparatoria al tiro – è pacifico che a carico di quest’ultimo dovesse essere posta la maggiore percentuale di responsabilità; ma stabilire quale percentuale rimanesse a carico del T. , in considerazione della colpa pure accertata a suo carico, costituisce evidentemente oggetto di una decisione che spetta al giudice di merito. Questa Corte non ha la possibilità di intervenire e di sindacare il concreto riparto delle rispettive percentuali di colpa senza andare oltre i limiti dei propri compiti di giudice di legittimità, tanto più in presenza di una motivazione in fatto che, come si è detto, è del tutto immune da lacune e da vizi logici.
9. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2043, 2727 e 2729 cod. civ., oltre ad omessa o insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi per il giudizio.
La sentenza, secondo i ricorrenti, avrebbe errato nella liquidazione del danno, in particolar modo nella parte in cui ha negato ai familiari della vittima il risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla perdita dell’aiuto economico che il giovane carabiniere stava già dando al proprio padre ed avrebbe certamente continuato a dare nel prosieguo della sua vita.
Allo stesso modo, poi, la sentenza avrebbe errato nel non riconoscere ai familiari il diritto al risarcimento del danno c.d. catastrofale, perché dall’espletata istruttoria era risultato che il giovane non era morto immediatamente, e comunque aveva fatto in tempo a percepire lucidamente l’inevitabile sopraggiungere della sua morte.
9.1. Il motivo, che contiene due distinte censure, non è fondato.
9.2. Una prima censura riguarda il mancato riconoscimento, in favore dei familiari della vittima, del risarcimento del danno patrimoniale nei termini di cui sopra. Su questo punto la Corte d’appello, richiamando la pronuncia 28 agosto 2007, n. 18177, di questa Corte, ha osservato che era mancata la prova -che i congiunti sono tenuti a fornire – “che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia”.
Osserva il Collegio che l’affermazione in diritto ora enunciata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale esige, con riguardo al risarcimento del danno patrimoniale in favore dei genitori in caso di uccisione del figlio, non una prova generica, bensì specifica, non solo della situazione di bisogno dei destinatari, ma anche della possibilità e della volontà del defunto di contribuire, ove fosse rimasto in vita, alle necessità della propria famiglia (si vedano, oltre alla suindicata pronuncia, anche le sentenze 11 maggio 2012, n. 7272, e 16 gennaio 2014, n. 759).
La verifica sulla sussistenza di tale situazione costituisce un accertamento di fatto devoluto al giudice di merito e non sindacabile in questa sede in presenza di una idonea motivazione; e la Corte d’appello ha dato atto dell’avvenuto versamento di alcune somme, da parte di T.M. , in favore del padre e della madre, ritenendo tuttavia che ciò non costituisse prova sufficiente della permanenza del futuro contributo del figlio all’ordinario menage della famiglia di origine; punto sul quale a questa Corte è evidentemente preclusa ogni possibilità di diversa conclusione senza oltrepassare i limiti del giudizio di legittimità.
9.3. La seconda censura riguarda, invece, il c.d. danno catastrofale.
La Corte d’appello ha, su questo punto, negato il diritto al risarcimento, sul rilievo che il giovane morì immediatamente dopo essere stato attinto dal colpo sparato dal L. , avendo la pallottola trapassato il suo cuore; ed ha motivato tale conclusione richiamando gli accertamenti medico legali compiuti in sede di processo penale e precisando che i sussulti del T. ricordati dal solo commilitone B. dovevano considerarsi “reazioni del tutto involontarie”.
Osserva in proposito questa Corte che la decisione oggi impugnata è conforme, in diritto, al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità (v., tra le altre, le sentenze 24 marzo 2011, n. 6754, e 21 marzo 2013, n. 7126). Da un punto di vista della ricostruzione dei fatti, poi, è evidente che la censura ora in esame – che torna a proporre la valutazione della circostanza secondo cui il T. si sarebbe alzato in piedi portandosi le mani al petto, dimostrando in tal modo di percepire l’inesorabile sopraggiungere della propria morte – si risolve nella prospettazione di un dilemma insolubile in sede di legittimità, poiché l’accoglimento della doglianza presupporrebbe necessariamente un nuovo e non consentito accertamento di merito.
10. Il rigetto del ricorso principale, poi, esime questa Corte dalla necessità di esaminare il ricorso incidentale condizionato avanzato dai medesimi familiari della vittima, ricorso che rimane assorbito.
Ricorso incidentale L. .
11. Con il primo motivo del ricorso incidentale L.G. lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 62 del codice di procedura civile.
Osserva il ricorrente che, poiché la relazione del c.t.u. era stata aspramente criticata, la Corte d’appello ha ritenuto di disporre una nuova convocazione del consulente per l’udienza del 21 novembre 2007. Il consulente, però, ha depositato un supplemento di relazione in data 14 novembre 2007, cioè prima dell’udienza fissata per i chiarimenti, per cui la Corte d’appello avrebbe dovuto rilevare la violazione della norma citata, con nullità dell’elaborato peritale.
11.1. Il motivo non è fondato.
Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni.
Da un lato, sta il fatto che se il c.t.u., convocato per un’udienza a chiarimenti, deposita un proprio supplemento di relazione per una data precedente quell’udienza, ciò non integra, di per sé, alcun motivo di nullità, se non ove vengano prospettate effettive lesioni del diritto di difesa (che, nella specie, non sono state realmente evidenziate).
A questo si deve aggiungere che il ricorso, formulato in modo non rispettoso della previsione di cui all’art. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ., non si è premurato né di chiarire se il c.t.u. sia poi comparso all’udienza all’uopo fissata per rispondere ai richiesti chiarimenti, né di dare conto di aver eccepito l’ipotetica nullità nei termini di cui all’art. 157, secondo comma, cod. proc. civ., limitandosi soltanto ad affermare di aver sollevato la questione in sede di precisazione delle conclusioni (circa un anno e mezzo dopo).
D’altra parte la sentenza impugnata, nell’affrontare il problema, ha comunque rilevato che il c.t.u. aveva ribadito le conclusioni contenute nella prima relazione, ritenute “pienamente condivisibili”, sicché il motivo in esame si risolve nella contestazione di un requisito di mera forma, del tutto privo di riflessi sul merito della decisione.
12. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., omessa o insufficiente motivazione su di un punto controverso e decisivo per il giudizio.
Si osserva, in proposito, che la sentenza impugnata non avrebbe dato conto in modo adeguato – se non attraverso un fuggevole richiamo alle conclusioni del c.t.u. – delle ragioni per le quali ha ritenuto di incrementare in modo assai notevole l’entità della somma liquidata in favore di M.A. a titolo di risarcimento del danno biologico.
12.1. Il motivo non è fondato.
La Corte d’appello, con una valutazione di merito supportata dalle conclusioni del c.t.u., è pervenuta alla conclusione che la M. , madre del defunto T. , ha sofferto, in conseguenza della tragedia, di una “grave depressione non emendabile, ed anzi soggetta probabilmente ad ulteriori complicazioni, che pur non intaccando le capacità intellettive, ne hanno determinato il crollo emotivo, non concedendo altro spazio al pensiero”; ed ha ritenuto che simile patologia (depressione maggiore) abbia inciso sull’integrità psicofisica della donna, determinando un danno biologico nella percentuale del 60 per cento.
Si tratta, com’è palese, di una decisione di merito supportata da adeguata motivazione e priva di vizi logici. A tale conclusione la difesa del L. oppone le proprie critiche alla c.t.u., sottolineando soprattutto il lungo lasso di tempo intercorso tra gli eventi e il sopraggiungere della sindrome in questione; ma è evidente, anche qui, che si tratta di una discussione che non trova più spazio in questa sede, perché l’accoglimento della censura presupporrebbe, inevitabilmente, un nuovo accertamento di merito precluso a questa Corte.
13. Con il terzo motivo del ricorso incidentale si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 del codice di procedura civile.
Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata si sarebbe pronunciata oltre i limiti della domanda in riferimento al danno biologico patito dalla M. ; in particolare, a fronte di una richiesta di risarcimento per la somma di Euro 60.000, la Corte d’appello ha liquidato una somma di molto superiore.
13.1. Il motivo è inammissibile.
Alla luce del principio, già sopra richiamato, di cui all’art. 366, primo comma, n. 6), cod. proc. civ., il ricorrente non poteva limitarsi, come invece ha fatto, alla generica affermazione secondo cui gli eredi T. avrebbero chiesto in appello, per il titolo di cui sopra, una somma minore rispetto a quella poi riconosciuta, ma avrebbe dovuto riportare le conclusioni delle parti su questo punto. Ciò in considerazione della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di ricorso per cassazione, ai fini del rituale adempimento dell’onere, imposto dal citato art. 366, primo comma, n. 6), di indicare specificamente nel ricorso anche gli atti processuali su cui si fonda (e di trascriverli nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza), è necessario che si provveda anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza di documentazione dello svolgimento del processo nel suo complesso, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (ordinanza 23 marzo 2010, n. 6937, sentenza 9 aprile 2013, n. 8569).
Non ottemperando il motivo a siffatti requisiti, il medesimo va dichiarato inammissibile.
Conclusioni.
14. In conclusione, sono rigettati sia il ricorso principale che i due ricorsi incidentali.
In considerazione della tragicità della vicenda, della complessità della controversia, degli alterni esiti dei giudizi di merito e della sostanziale reciproca soccombenza di tutti i ricorrenti, la Corte ritiene equo disporre l’integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione tra tutte le parti.

 

P.Q.M.


La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e i due ricorsi incidentali, assorbito il ricorso incidentale condizionato degli eredi T. , e compensa integralmente le spese del giudizio di cassazione tra tutte le parti.

Redazione