Infissi sporgenti: se non si pregiudica l’utilizzo dello spazio sottostante si possono installare (Cass. n. 17680/2012)

Redazione 16/10/12
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Svolgimento del processo

B.E., con atto di citazione del 8 ottobre 1994, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma, P. G. e premettendo di essere proprietaria di un appartamento con terrazzo a livello ubicato a piano terra dello stabile sito in (omissis) e che il P. proprietario di uno stabile contiguo aveva munito le due finestre dell’ultimo suo piano con infissi apribili all’esterno, composti da profilati di alluminio e lastre di vetro, deduceva che il convenuto non aveva diritto a collocare detti infissi in quanto sporgenti sulla sua proprietà e perchè costituenti pericolo per le persone che usavano il terrazzo, chiedeva che il convenuto fosse condannato alla rimozione degli infissi di cui si dice con ogni conseguenza di legge anche in ordine alle spese giudiziali.
Si costituiva P. deducendo che le finestre alle quali erano stati apposti gli infissi si trovavano ad una altezza tale da non arrecare molestia all’attrice e che era stato costretto ad applicare i nuovi infissi per ottenere un maggior grado di isolamento termico con conseguente risparmio energetico, chiedeva, pertanto, il rigetto della domanda.
Il Tribunale di Roma con sentenza n. 22683 del 2001 ordinava al convenuto di rimuovere gli infissi e lo condannava al pagamento delle spese giudiziali.
Affermava il Tribunale che, l’aver posto in opera gli infissi di cui era causa costituiva atto quanto meno emulatorio, giacchè il convenuto avrebbe potuto benissimo soddisfare le sue esigenze di isolamento termico applicando delle finestre a doppio vetro all’interno del proprio appartamento senza limitare lo spazio aereo all’attrice. Comunque, riteneva ancora il Tribunale, l’applicazione degli infissi violava il disposto di cui all’art. 840 cod. civ.
Avverso questa sentenza proponeva appello P.G., chiedendo la riforma della sentenza impugnata.
Resisteva al gravame l’appellata chiedendone il rigetto e la vittoria delle spese di lite.
La Corte di Appello di Roma con sentenza n. 2648 del 2005 accoglieva l’appello, riformava la sentenza di primo grado e rigettava la domanda avanzata dalla B., condannava l’appellata al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. A sostegno di questa decisione, la Corte romana osservava che:
a) la collocazione degli infissi di cui si dice non violava il disposto di cui all’art. 840 c.c. considerato che il proprietario del suolo non può opporsi ad attività che si svolgono a tale altezza nello spazio sovrastante il proprio suolo, che egli non abbia interesse da escluderle. E, nel caso in esame, gli infissi erano stati collocati su due finestre del terzo piano dello stabile del convenuto e, quindi, ad una altezza di circa nove metri dal piano di calpestio della terrazza di proprietà dell’appellata e proprio per la loro altezza l’apertura e la chiusura degli stessi non potevano arrecare alcun disturbo mentre assolutamente inconsistente era il profilo di un presunto pericolo per coloro che si sarebbero trovati sulla sottostante terrazza.
b) La collocazione degli infissi di cui si dice, non integrava neppure gli estremi di un atto emulativo considerati che gli stessi erano stati montati in sostituzione delle tapparelle e quindi non potevano che essere montati all’esterno.
c) Nel caso in esame, infine non era ravvisabile la costituzione di una servitù considerato che tra le servitù non è ricompresa l’ipotesi di una servitù passiva conseguente al collocamento o montaggio di infissi che prescinda dal relativo diritto di veduta.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da B. E. con atto di ricorso affidato a tre motivi. P. G., intimato, in questa sede non ha svolto alcuna attività difensiva.

 

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, B.E. lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 840 c.c. e degli artt. 100 e 115 c.p.c.
In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
Avrebbe errato la Corte romana, secondo la ricorrente, nell’aver ritenuto insussistente l’interesse di B.E. a richiedere la rimozione degli infissi data l’altezza di ml 9 in cui i medesimi si trovano collocati, non considerando che l’interesse della ricorrente non è solo quello giuridico attuale e concreto di proprietario, ma, anche quello di natura personale concreto ed attuale, ad utilizzare il terrazzo secondo la sua naturale destinazione e trarre dal medesimo qualsivoglia beneficio senza limitazioni o timori. Se dovesse persistere l’attuale situazione la ricorrente, per ovviare al pericolo della caduta degli infissi o delle lastre di vetro, dovrebbe discostarsi dalla parete del fabbricato e con una recinzione creare una zona non praticabile. Se vi fosse costretta il suo diritto domenicale subirebbe una limitazione a favore del P.G.
1.1. Il motivo è infondato.
Anche in questa occasione, questa Corte ribadisce quanto ha avuto modo di affermare più volte, in passato e, cioè, che: ai sensi dell’art. 840 cod. civ., l’immissione di sporti nello spazio aereo sovrastante il fondo del vicino, è consentita quando questi non abbia interesse ad escluderla, cioè quando la stessa intervenga ad un’altezza dal suolo, tale da non pregiudicare alcun legittimo interesse del proprietario del fondo in relazione alle concrete possibilità di utilizzazione di tale spazio aereo (ex multis Cass. n. 1484 del 1996 nonchè Cass. n. 9047 del 2012). Nel caso concreto, come, per altro, ha osservato la Corte di merito, la collocazione dei manufatti di cui si dice non pregiudicavano alcun interesse di B.E. proprietaria della terrazza sottostante considerato che la fissazione al muro di ante apribili verso l’esterno, la tipologia del manufatto (telai metallici) e lo stesso sistema di ancoraggio degli infissi non creavano per se stesse situazioni di pericolo, nè l’apertura e la chiusura degli infissi, attesa la significativa altezza del piano di calpestio, era in grado di limitare la fruizione della sottostante terrazza.
Pertanto, appare del tutto convincente e coerente con i principi giuridici l’affermazione della Corte di merito secondo cui “non si vede quale interesse possa avere B.E. a domandare la rimozione” dei manufatti di cui si dice.
1.2. Questa Corte ritiene opportuno osservare, altresì, che, il pericolo di danni proveniente dall’opera non andrebbe denunciato con azione ex art. 840 cod. civ. che fa riferimento ad un interesse all’utilizzabilità di tale spazio, ma integrerebbe gli estremi di un’azione per turbative o molestie ex art. 949 c.c., comma 2.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 833, 1064, 1067 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Avrebbe errato la Corte romana, secondo la ricorrente, nel non aver ritenuto che l’apposizione degli infissi alle due finestre integrasse un’ipotesi di atto emulato – così come aveva ritenuto il Giudice di merito di primo grado – considerato che P.G. avrebbe potuto soddisfare le sue esigenze di isolamento termico applicando delle finestre a doppio vetro all’interno del proprio appartamento senza limitare lo spazio aereo dell’attrice. Nè è convincente, sempre secondo la ricorrente, l’affermazione della Corte romana secondo cui le servitù sono un numero chiuso previsto dalla legge e che tra queste non è dato ravvisare una servitù passiva conseguente al collocamento o montaggio di infissi che prescinde dal relativo diritto di veduta, perchè non avrebbe considerato che il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne. Nella fattispecie, gli infissi apposto esternamente non costituivano un adminiculum necessario per l’esplicazione della servitù di veduta nè un miglioramento che rendeva più comodo il suo esercizio.
Epperò, l’art. 1067 cod. civ. mantiene immutato l’esercizio della servitù, però, vieta l’innovazione che non apporta alcuna utilità e che rappresenta solo un danno per il fondo servente.
2.1. La censura è infondata.
Va qui osservato che la collocazione di sporti sulla colonna d’aria altrui non integra una servitù considerato che il calcolo delle distanze delle nuove costruzioni dalle altrui vedute ai sensi dell’art. 907 c.c. che richiama l’art. 905 cod. civ. va operata dalla faccia esteriore del muro nel quale si aprono le vedute dirette e non già dal punto di massima sporgenza delle stesse che si aprono “a compasso” verso l’esterno. Piuttosto, la collocazione degli sporti di cui si dice integra gli estremi di un’attività regolamentata dall’art. 840 c.c. e con valutazione di merito la sentenza, in presenza di un’oggettiva utilità, ha escluso l’esistenza di un atto emulativo, nonostante, non sembra che sia stato dedotto che gli infissi non avevano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia altrui.
3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 in relazione all’art. 2712 c.c. Secondo la ricorrente la Corte di appello di Roma contrariamente al vero ha asserito che il resistente ha posto in opera tali infissi esterni in sostituzione delle tapparelle per come è pacifico tra le parti.
L’argomentazione non ha pregio – scrive la ricorrente – perchè urta sia contro il contenuto degli scritti difensivi scambiati dalla ricorrente nel corso dei due giudizi nei quelli ha da sempre lamentato la esistenza delle due tapparelle, sia con la realtà della situazione ambientale di fatto esistente riprodotta dalle fotografie.
Le tapparelle non sono state mai sostituite dagli infissi, anzi le due finestre – come appare dalle fotografie sono dotate di infissi apribili verso l’interno dell’appartamento e di tapparelle e, per ultimo di due infissi esterni con intelaiatura in metallo e lastre di vetro.
3.1. Questo motivo è inammissibile perchè la circostanza dedotta non rappresenta un punto decisivo della controversia. A ben vedere, la sostituzione di infissi aprentisi a compasso (ante esterne) al posto di infissi a caduta o ad avvolgimento (tapparelle) non costituisce la ratio decidendi della sentenza impugnata sicchè anche ove si sia trattato di aggiunta o di sostituzione di infissi l’esito del giudizio sarebbe pur sempre lo stesso.
In definitiva, i ricorso va rigettato e la ricorrente, in ragione del principio della soccombenza di cui all’art. 91 c.p.c., condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che verranno liquidate con il dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso nella Camera di Consiglio della II Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il 27 giugno 2012.

Depositata in cancelleria il 16 ottobre 2012

Redazione