Indebito utilizzo di un bancomat (Cass. pen. n. 18269/2013)

Redazione 22/04/13
Scarica PDF Stampa

Osserva

Con sentenza in data 25 gennaio 2012 la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza emessa il 24 ottobre 2009 dal Tribunale di Udine con la quale D.F. era stato dichiarato colpevole del reato continuato di indebito utilizzo, per tre volte, di una tessera bancomat (reato commesso in (omissis) e in (omissis) ) ed era stato condannato, con le circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni uno, mesi due di reclusione ed Euro 500,00 di multa nonché al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 1.000,00, e alla rifusione delle spese in favore della parte civile P.M. , subordinando il beneficio della sospensione condizionale al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno da effettuarsi nel termine di un mese dal passaggio in giudicato della sentenza.
Avverso la predetta sentenza l’imputato ha proposto, personalmente, ricorso per cassazione. Con il ricorso si deduce:
1) l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 649 c.p.p. in quanto per lo stesso fatto, sia pure con una diversa qualificazione giuridica, l’imputato sarebbe stato già giudicato, essendo stato assolto con sentenza del giudice per le indagini preliminari, divenuta irrevocabile, dal reato di furto della carta bancomat (inizialmente contestata al capo A dell’imputazione), mentre sulla base delle confuse dichiarazioni della persona offesa sarebbe stato ritenuto responsabile della sottrazione e dell’uso, per effettuare tre prelievi, della medesima tessera;
2) la mancanza e manifesta illogicità della motivazione e la violazione degli artt.125, 192 c.p.p. in rei. agli artt. 81 c.p. e 12 D.L. 143/91 per essere stata affermata la responsabilità dell’imputato pur in mancanza di videoregistrazioni effettuate presso gli sportelli bancari nei quali i prelievi erano stati effettuati, sulla base unicamente del possesso da parte del D. , alla fine di una serata trascorsa in pizzeria con amici, della carta bancomat di cui era intestatario il suo amico e commilitone P.M. ;
3) il vizio della motivazione e la violazione di legge in relazione all’eccessività della pena e al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;
4) la violazione dell’art. 153 disp. att. c.p.p. per essere stata emessa condanna alla rifusione delle spese sostenute nel giudizio di appello in favore della parte civile in assenza di presentazione della nota spese ed anche di domanda di rifusione; si richiama sul punto la sentenza n. 20 del 1999 delle Sezioni Unite.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è manifestamente infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. V 10 ottobre 2005 n. 44018, *****; v. anche Cass. Sez. Un. 28 marzo 2001 n. 22902, ******), che il collegio condivide, il delitto di furto della carta di credito concorre con quello di cui all’art. 12 L. n. 143 del 1991, limitatamente alla ipotesi dell’indebito utilizzo del medesimo documento, in quanto si tratta di condotte eterogenee sotto l’aspetto fenomenico, verificandosi la seconda quando la prima è ormai esaurita e non trovando, l’uso indebito, un presupposto necessario ed indefettibile nell’impossessamento illegittimo. Nel caso di specie all’imputato è stata contestata la violazione della prima parte dell’art. 12 della legge n. 143 del 1991, che si riferisce all’indebito utilizzo della tessera bancomat e, quindi, una condotta diversa dalla sottrazione della medesima carta di credito. È consolidata la giurisprudenza di legittimità nel ritenere che, ai fini della preclusione connessa al principio “ne bis in idem”, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. Sez. Un. 28 giugno 2005 n. 34655, P.G. in proc. ******). La preclusione del “ne bis in idem” non opera, del resto, ove tra i fatti già irrevocabilmente giudicati e quelli ancora da giudicare sia configurabile un’ipotesi di “concorso formale di reati”, potendo in tal caso la stessa fattispecie essere riesaminata sotto il profilo di una diversa violazione di legge, salvo che nel primo giudizio sia stata dichiarata l’insussistenza del fatto o la mancata commissione di esso da parte dell’imputato (Cass. sez. III 15 aprile 2009 n. 25141, **********).
Il secondo motivo tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito che, nel caso in esame, ha ineccepibilmente osservato che la prova della responsabilità dell’imputato si desumeva dalla coincidenza documentale dei dati, anche numerici, identificativi del bancomat utilizzato per il pagamento della cena (gli stessi dati della tessera bancomat di cui era intestatario P.M. , commilitone dell’imputato) in una pizzeria cui avevano partecipato anche i testi M. e Pe. , i quali avevano ricordato che in tale occasione il D. aveva pagato il conto con una tessera bancomat, facendosi rimborsare in contanti dagli amici le rispettive quote. La Corte territoriale ha inoltre ritenuto, con argomentazione logicamente coerente, che indipendentemente dalla “confessione” riferita dal teste P. da parte dell’imputato che temeva di essere stato ripreso dalle telecamere installate presso gli sportelli bancomat da cui aveva effettuato illeciti prelievi con la tessera dell’amico, “il comprovato possesso da parte dell’imputato della tessera bancomat in oggetto la sera della cena…consente di affermare con sufficiente margine di certezza, anche in assenza di specifiche video riprese, la colpevolezza del D. anche in relazione ai prelevamenti avvenuti presso gli sportelli bancomat degli istituti bancari indicati specificamente nel capo d’imputazione…”. Le conclusioni circa la responsabilità del ricorrente risultano quindi adeguatamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove, che ha consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni. Tanto basta per rendere la sentenza impugnata incensurabile in questa sede non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile. Esula peraltro dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30-4-1997 n. 6402, *********).
Il terzo motivo è manifestamente infondato in quanto all’imputato sono state riconosciute già con la sentenza di primo grado le circostanze attenuanti generiche, con riduzione massima della pena base nella misura di un terzo. Quanto alla misura della pena base, la Corte territoriale ha fornito congrua motivazione in ordine al rigetto della richiesta difensiva di mitigazione del trattamento sanzionatorio evidenziando da un lato la condotta spregiudicata messa in atto ai danni dell’amico e dall’altro l’ostinata negazione della propria responsabilità da parte dell’imputato, che pure ha provveduto al risarcimento del danno. Del resto la pena base è stata determinata in misura non particolarmente afflittiva, prossima al minimo edittale.
Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Dal verbale dell’udienza del 25 gennaio 2012, in cui è stata emessa la sentenza impugnata, risulta infatti che il difensore della parte civile aveva concluso chiedendo la conferma della sentenza e rimettendosi alla Corte di appello per le spese (era nel frattempo intervenuto il risarcimento del danno da parte dell’imputato). Non risulta quindi – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – che la domanda di rifusione delle spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di appello sia stata omessa, essendosi il difensore di parte civile limitato a rimettersi alla discrezionalità del giudice. Del resto l’art. 153 disp. att. c.p.p. non prevede sanzione alla mancata produzione da parte della parte civile della apposita nota se la domanda di rifusione sia stata, sia pur genericamente e oralmente, come nel caso in esame, proposta (Cass. sez. V 27 ottobre 2006 n.38942, Calonico; Sez. Un. 27 ottobre 1999 n. 20, ********).
Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Redazione