Incompatibilità tra retrocessione ex artt. 46 e 47 DPR 327/01 e accessione invertita (Cons. Stato n. 2825/2013)

Redazione 24/05/13
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FATTO

Con l’appello in esame, il sig. ************ impugna la sentenza 7 ottobre 2011 n. 1496, con la quale il TAR per la Puglia, sez. III di Bari ha dichiarato inammissibile il suo ricorso, proposto per l’accertamento del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza 5 maggio 2011, tendente ad ottenere la retrocessione parziale di bene espropriato.
La sentenza appellata, in particolare, afferma:
– “va negata la sussistenza dell’obbligo di provvedere in presenza di istanze manifestamente infondate o inammissibili, con conseguente inammissibilità del ricorso contra silentium per difetto di interesse . . . non potendo il ricorrente ricavare alcuna utilità dall’eventuale accoglimento del gravame”;
– nel caso di specie, la sentenza n. 744/2011 del TAR Puglia ha accertato che anche la particella n. 922, di originaria proprietà del ricorrente, risulta interessata dall’occupazione posta in essere dall’amministrazione, e che anche in relazione a tale particella l’amministrazione è stata condannata al risarcimento del danno per intervenuta occupazione acquisitiva (a nulla rilevando il sopravvenuto decreto di espropriazione);
– “sussiste radicale incompatibilità tra l’istituto di matrice giurisprudenziale della occupazione acquisitiva, presupponente tra l’altro l’irreversibile trasformazione del fondo, e l’istituto della retrocessione parziale, richiedente al contrario proprio la parziale mancata esecuzione dell’opera oggetto della dichiarazione di pubblica utilità”, con conseguente necessità di declaratoria di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse “atteso che l’autorità espropriante non potrebbe in ipotesi che negare la richiesta retrocessione”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 3 l. n. 241/1990 e 47 DPR n. 327/2001; dell’art. 31, co. 3, 29 e 117 d. lgs. n. 104/2010; art. 112 c.p.c.; poichè “l’amministrazione non può rimanere inadempiente a fronte della richiesta di retrocessione parziale e non può sottrarsi all’obbligo di pronunciarsi espressamente sulla inservibilità dei relitti, in quanto una tale inerzia si tradurrebbe in una lesione di posizioni di interesse legittimo”. Nel caso di specie, mentre è incerto se i mq. 5596 occupati “ricomprendessero anche la particella 922, è certo, per contro, che il Comune non occupò mai materialmente e non fu condannato a risarcire le due camerette insistenti sulla particella 922”. Peraltro, “la questione della validità del decreto di esproprio esulava dall’oggetto della cognizione del TAR Puglia”;
b) violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 2 l. n. 241/1990 e 47 DPR n. 327/2001; violazione e falsa applicazione art. 31, co. 3, e art. 117 d. lgs. n. 104/2010; violazione e falsa applicazione del principio di correttezza e buona amministrazione della parte pubblica; difetto e/o carenza di motivazione; eccesso di potere per travisamento dei fatti; poiché l’amministrazione – pur in presenza di una sentenza che ha determinato (in ipotesi) l’effetto traslativo della particella n.922 – “avrebbe dovuto in ogni caso determinarsi con un provvedimento esplicito, circa l’inservibilità del bene ai fini dell’opera pubblica realizzata”. Inoltre, poiché l’accessione invertita corrisponde ad una “espropriazione sostanziale”, anche per essa trova applicazione l’istituto della retrocessione parziale;
c) violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 2 l. n. 241/1990 e 47 DPR n. 327/2001; violazione e falsa applicazione art. 31, co. 3, e art. 117 d. lgs. n. 104/2010; violazione e falsa applicazione del principio di correttezza e buona amministrazione della parte pubblica; difetto e/o carenza di motivazione; poiché, per un verso, “la domanda di risarcimento non può comportare un automatico trasferimento della proprietà in capo all’ente espropriante, perché l’acquisizione della proprietà di un bene da parte della p.a. non può conseguire ad un comportamento unilaterale del privato”; per altro verso, così come nel caso di cessione volontaria, è sempre possibile la retrocessione parziale “una volta accertato che il bene ceduto non sia funzionale all’opera per cui era stata avviata la procedura espropriativa”.
Nella memoria del 21 giugno 2012, l’appellante ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 47 DPR n. 327/2001, poichè non appare legittimo “escludere i fondi acquisiti dall’amministrazione tramite occupazione acquisitiva dalla retrocessione, atteso, tra l’altro, che si tratta di un illecito dell’amministrazione”.
Si è costituito in giudizio il Comune di Cerignola, che ha concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza. Nella memoria datata 3 maggio 2012, l’amministrazione ha inoltre eccepito la intervenuta prescrizione decennale del diritto alla retrocessione.
All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza appellata.
Questo Consiglio di Stato ha già affrontato il tema della compatibilità dell’istituto della retrocessione con ipotesi nelle quali si sia verificata la cd. accessione invertita. Con sentenza 15 dicembre 2011 n. 6619, dalle cui considerazioni non vi è ragione di discostarsi, il Collegio ha rilevato che l’istituto della retrocessione, sia in base alla legge n. 2359/1865, sia attualmente ai sensi degli articoli 46 (retrocessione totale) e 47 (retrocessione parziale) del DPR n. 327/2001, presuppone, a monte, un procedimento espropriativo conclusosi con l’emanazione del decreto di esproprio.
Ed infatti, l’art. 46, espressamente prevede, per il caso di retrocessione totale:
(comma 1) “se l’opera pubblica o di pubblica utilità non è stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l’impossibilità della sua esecuzione, l’espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo di indennità”.
A sua volta, l’art. 47, in tema di retrocessione parziale, prevede
“1. Quando è stata realizzata l’opera pubblica o di pubblica utilità, l’espropriato può chiedere la restituzione della parte del bene, già di sua proprietà, che non sia stata utilizzata. In tal caso, il soggetto beneficiario della espropriazione, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, trasmessa al proprietario ed al Comune nel cui territorio si trova il bene, indica i beni che non servono all’esecuzione dell’opera pubblica o di pubblica utilità e che possono essere ritrasferiti, nonché il relativo corrispettivo.
2. Entro i tre mesi successivi, l’espropriato invia copia della sua originaria istanza all’autorità che ha emesso il decreto di esproprio e provvede al pagamento della somma, entro i successivi trenta giorni.
3. Se non vi è l’indicazione dei beni, l’espropriato può chiedere all’autorità che ha emesso il decreto di esproprio di determinare la parte del bene espropriato che non serve più per la realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità.”
Come è dato osservare, l’intera definizione normativa dell’istituto – in disparte l’uso inequivocabile delle definizioni di “espropriato” e di “soggetto beneficiario dell’espropriazione” – presuppone il valido compimento di un procedimento espropriativo, fino alla sua corretta conclusione con il decreto di esproprio, e quindi il prodursi dell’effetto estintivo/acquisitivo del diritto di proprietà.
Come peraltro la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già affermato (Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 2002 n. 6470), è la dichiarazione di inservibilità del bene espropriato per la realizzazione di opera pubblica e non utilizzato ad avere valenza costitutiva, per i soggetti espropriati o per i loro aventi causa, del diritto soggettivo alla retrocessione.
L’istituto dell’accessione invertita, di creazione giurisprudenziale (Cass. Sez. Un., 26 febbraio 1983 n. 1264; 10 giugno 1988 n. 3940) – pur senza necessità di entrare nel merito (e nell’attualità) dell’istituto medesimo – presuppone, invece, proprio una occupazione di un bene da parte della Pubblica Amministrazione (quantomeno) in assenza di legittima conclusione del procedimento espropriativo entro i termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità.
Proprio per questo, la giurisprudenza ha collegato l’effetto acquisitivo del diritto di proprietà alla irreversibile destinazione del suolo all’opera pubblica, con diritto al risarcimento del danno conseguente all’illecito commesso dalla pubblica amministrazione.
Da ciò consegue l’incompatibilità, sul piano logico – giuridico, dei due istituti: ed infatti, se si ritiene configurarsi accessione invertita non vi è stata espropriazione e, quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non essere stata dichiarata come “irreversibilmente trasformata”); se invece si richiede la retrocessione, non si può che essere in presenza di un bene in precedenza espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente espropriazione.
Occorre, infine, notare che il legislatore, anche quando ha inteso estendere l’istituto della retrocessione alla ben più semplice ipotesi di procedimenti espropriativi non conclusisi con il decreto di esproprio (ma per il tramite di cessione volontaria), lo ha espressamente affermato (v. art. 45, co. 4, DPR n. 327/2001)
Nel caso di specie (e come noto anche all’appellante: v. memoria 21 giugno 2012, pag. 2), la particella n. 922, della quale si controverte, è stata oggetto della sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 480/1998, che condannava il Comune al risarcimento del danno per l’occupazione illegittima. A fronte di ciò non assume alcun rilievo né la circostanza che tale particella sia mai stata materialmente occupata dal Comune di Cerignola, né la successiva emanazione di decreto di esproprio (comprensivo o meno della detta particella).
Pertanto, per le ragioni esposte, i motivi di impugnazione sub lettere a) – c) dell’esposizione in fatto devono essere respinti, con conseguente reiezione dell’appello e conferma della sentenza impugnata.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto da F. Salvatore (n. 276/2012 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata.
Condanna l’appellante al pagamento, nei confronti del costituito Comune di Cerignola., delle spese, diritti ed onorari del grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.000,00 (tremila/00).
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 luglio 2012

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