Incompatibilità del dipendente pubblico part-time con l’esercizio della professione forense (Cass. n. 11833/2013)

Redazione 16/05/13
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Svolgimento del processo

1 – Con ricorso depositato il 13-3-2007 presso la segreteria del *** di Trapani l’avvocato N.F. impugnava la delibera con la quale era stata disposta la sua cancellazione dall’albo degli avvocati per incompatibilità ex L. n. 339 del 2003; il ricorrente, dipendente a tempo parziale del Comune di Trapani, in data 1-6-2002 era stato iscritto nell’albo degli avvocati di Trapani L. n. 662 del 1996, ex art. 1, comma 56 e ss.; a seguito dell’entrata in vigore della L. 25 novembre 2003, n. 339, l’avvocato N. con nota del 27- 11-2006 comunicava a quel Consiglio territoriale di optare per il mantenimento del rapporto di pubblico impiego a tempo ridotto e per il contemporaneo esercizio della professione forense; sennonchè il *** di Trapani in data 20-2-2007 deliberava la sua cancellazione per incompatibilità ai sensi della L. n. 36 del 1934, art. 37.

Il CNF con decisione del 12-5-2010 ha rigettato il ricorso.

Per la cassazione di tale decisione il N. ha proposto un ricorso affidato a sette motivi illustrato da due successive memorie; le parti intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

2 – Con delibera del 13-2-2007 il COA di Nola attivava la procedura di cancellazione dall’albo professionale dell’avvocato F. M., quale dipendente della Agenzia delle Entrate – Ufficio di Nola, per incompatibilità “ex lege” L. n. 339 del 2003.

L’avvocato F. era stato iscritto all’albo degli Avvocati di Nola fin dal 1988 a seguito della trasformazione del suo rapporto di lavoro con il Ministero delle Finanze da full – time a part – time per lo svolgimento dell’attività di avvocato.

A seguito della suddetta delibera con la quale gli veniva richiesto di comunicare entro la data del 1-12-2007 la sussistenza o meno dei motivi di incompatibilità con l’iscrizione all’Albo degli Avvocati, il F. con nota del 1-8-2008 comunicava all’Ordine di essere rientrato in servizio il 4-3-2008 presso l’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Nola nella posizione di dipendente part-time.

Il COA di Nola in data 15-9-2008, considerato che la L. n. 339 del 2003, aveva introdotto nell’ordinamento forense la norme che sanciscono l’incompatibilità tra l’esercizio della professione di avvocato con il rapporto di pubblico impiego a part – time, prevedendo l’obbligo a carico degli avvocati a part – time di optare entro trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge ora menzionata per il mantenimento del rapporto di impiego ovvero per la libera professione, dandone comunicazione al Consiglio dell’Ordine presso il quale risultano iscritti, e preso atto della comunicazione inviata dal F. con la nota del 1-8-2008, deliberava la cancellazione di quest’ultimo dall’albo degli Avvocati.

Proposta impugnazione da parte del F. il CNF con decisione del 16-3-2010 ha rigettato il ricorso.

Per la cassazione di tale decisione il F. ha proposto un ricorso articolato in nove motivi; nessuna delle parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede.

3 – Con istanza depositata il 1-12-2006 presso la segreteria del *** di Benevento l’avvocato ****, iscritto al predetto Ordine Professionale e quale dipendente pubblico in part-time ridotto (50% dell’orario ordinario) della Corte di Appello di Napoli, premesso di non essere soggetto alla disciplina della L. n. 339 del 2003, in quanto iscritto all’albo egli avvocati fin dal 15-3-2002, ovvero quasi due anni prima dell’entrata in vigore della menzionata legge, e quando era in vigore la L. n. 662 del 1996, la quale consentiva al dipendente pubblico in part – time di iscriversi ad un albo professionale, per mero tuziorismo, in relazione al disposto della L. n. 339 del 2003, comunicava all’Ordine Professionale la propria opzione di mantenimento del rapporto di lavoro pubblico in part – time ridotto (ovvero 50% dell’orario ordinario), anche dopo la scadenza del termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge suddetta.

Il COA di Benevento con delibera del 27-9-2007 dichiarava l’incompatibilità del R., non avendo questi desistito dal rapporto di pubblico impiego tuttora esistente, e ne disponeva la cancellazione dall’albo.

Proposta impugnazione da parte del R. il CNF con decisione del 2- 10-2010 ha rigettato il ricorso.

Per la cassazione di tale decisione il R. ha proposto un ricorso articolato in nove motivi illustrato successivamente da una memoria; le parti intimate non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Con ordinanza del 5-7-2011 questa Corte ha riunito i predetti ricorsi.

Motivi della decisione

1 – Con il primo motivo il N., deducendo violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56 – art. 111 Cost., anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, ed insufficiente motivazione, assume che il CNF si è limitato ad invocare il R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, per giustificare il proprio convincimento senza offrire adeguate argomentazioni al riguardo; inoltre la decisione impugnata risulta viziata per non aver pronunciato su tutta la domanda, nulla essendo stato rilevato in ordine sia alla disparità di trattamento derivante dall’applicazione del citato art. 3, sia alla manifesta ingiustizia che consegue alla rigida applicazione della citata norma.

Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56 – art. 111 Cost., comma 5, anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, e vizio di motivazione, sostiene che la decisione del CNF si basa su di un richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 390/2006.

che peraltro aveva deciso soltanto nel senso della non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. n. 339 del 2003, solo art. 1, e quindi della legittimità della disposizione che vieta l’iscrizione per la prima volta all’albo forense di pubblici dipendenti in part – time, e non riguardava i limiti che incontra il legislatore attinenti al rispetto dell’affidamento ingenerato da leggi preesistenti nei confronti di chi, come il ricorrente, era già iscritto all’albo degli avvocati ai sensi della L. n. 662 del 1996.

Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, e dell’art. 3 Cost., art. 35 Cost., comma 1, e art. 41 Cost., nonchè omessa motivazione, assume che il CNF non si è pronunciato su una serie di questioni di legittimità costituzionale della L. n. 339 del 2003, artt. 1 e 2, in relazione all’art. 3 Cost., art. 35 Cost., comma 1, e art. 41 Cost., ritenuti in contrasto con il principio di ragionevolezza, di tutela dell’affidamento e del diritto al lavoro.

Con il quarto motivo il N., deducendo violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, e art. 111 Cost., comma 6, anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, ed insufficiente e contraddittoria motivazione, rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dal CNF, l’esponente non aveva mai richiesto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea in ordine a questioni di compatibilità della L. n. 339 del 2003, con il diritto comunitario, ma aveva soltanto chiesto la sua disapplicazione.

Con il quinto motivo il ricorrente denunciando violazione del R.D.L. n. 1578, art. 56, e art. 111 Cost., comma 6, anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, e vizio di motivazione, censura la decisione impugnata per aver disatteso la richiesta di disapplicazione della L. n. 339 del 2003, in quanto in contrasto con il diritto comunitario; chiede in via subordinata la rimessione della relativa questione alla Corte di Giustizia Europea in quanto la suddetta legge ha introdotto nell’ordinamento interno delle disposizioni che eliminano l’effetto utile della previgente regola più ampia sulla concorrenza tra avvocati.

Con il sesto motivo il N., deducendo violazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, in relazione all’art. 113 c.p.c., e dell’art. 117 Cost., comma 1, rileva che il disposto di tale ultima disposizione può dirsi non violato dalla L. n. 339 del 2003, solo se si addiviene all’interpretazione che salvaguarda i diritti quesiti degli iscritti agli albi degli avvocati previsti dalla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56, 56 bis e 57.

Con il settimo motivo il ricorrente deduce violazione della L. 4 febbraio 2005, n. 11 art. 14 bis, assumendo che, sulla base di detta disposizione, il C.N.F. non avrebbe dovuto fare applicazione della L. n. 339 del 2003, posto che la norma del citato art. 14 bis, vieta che a carico dei cittadini italiani possano trovare applicazione norme il cui effetto risulti discriminatorio rispetto alla condizione ed al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale; la L. n. 339 del 2003, realizzerebbe la cosiddetta “discriminazione al contrario”, perchè gli avvocati stabiliti o integrati in Italia non possono essere dipendenti pubblici, ma possono essere dipendenti di “corrispondenti istituzioni pubbliche nello Stato membro” ove hanno acquisito la qualifica professionale di avvocato; conseguentemente a questi ultimi sarebbe consentito l’esercizio della professione forense in Italia, che risulterebbe invece vietata ai dipendenti pubblici italiani.

2 – Con il primo motivo il F., deducendo violazione dell’art. 111 Cost., anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, e vizio di motivazione, rileva che la decisione del CNF, limitandosi a riportare stralci della sentenza n. 390 del 2006 della Corte Costituzionale, non risponde ai punti del ricorso, dando una interpretazione errata della legge e della menzionata sentenza; secondo il ricorrente, infatti, detta sentenza si è pronunciata, nel merito, solo sulla legittimità della L. n. 339 del 2003, art. 1, norma che prevede l’inapplicabilità delle disposizioni della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 – 56 “bis” e 57, all’iscrizione agli albi degli avvocati; tale disposizione, cioè, prevede per il futuro l’impossibilità per i dipendenti pubblici a tempo parziale di svolgere contemporaneamente la professione di avvocato; la Corte Costituzionale, però, non ha affrontato nel merito, nè nella citata sentenza nè nell’ordinanza n. 91 del 2009, la questione relativa alle legittimità della L. n. 339 del 2006, artt. 1 e 2, ove interpretati nel senso che essi imporrebbero la cancellazione dall’albo anche nei confronti degli avvocati già iscritti, come il ricorrente, i quali hanno esercitato da tempo entrambe le attività.

Con il secondo motivo il F., denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 339 del 2003, artt. 1 e 2, e degli artt. 11, 12, 14 e 15 disp. gen., assume che l’interpretazione corretta delle suddette norme impone di ritenere che la L. del 2003 abbia voluto reintrodurre un limite all’iscrizione negli albi degli avvocati, ma che non abbia introdotto anche una sopravvenuta causa di incompatibilità; la decisione del CNF è quindi errata in quanto la cancellazione di esso ricorrente non poteva essere disposta.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 16, in quanto la decisione impugnata non ha tenuto conto che il secondo periodo del terzo comma della disposizione ora richiamata prevede che “La cancellazione è sempre ordinata qualora la revisione accerti il difetto dei titoli e requisiti in base ai quali fu disposta l’iscrizione…”; pertanto l’introduzione legislativa di nuove cause di incompatibilità per l’esercizio della professione forense può operare solo come divieto di ulteriori iscrizioni agli albi di soggetti non in possesso dei nuovi requisiti di compatibilità che si inseriscono nell’ordinamento, ma non può pregiudicare quanti possano dimostrare la permanenza di tutte le condizioni in base alle quali furono iscritti all’albo.

Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione del principio di primazia ed efficacia del diritto comunitario, censura la decisione impugnata per non aver disapplicato la L. n. 339 del 2003, che si pone in contrasto con i principi comunitari di eguaglianza, certezza giuridica ed affidamento; in questa sede il F. chiede di sollevare questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea per accertare se la L. n. 339 del 2006, sia o meno compatibile con i suddetti principi.

Con il quinto motivo il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 2, 3, 4, 24, 35, 41, 81, 97, 111 e 117 Cost., afferma che il CNF, ritenendo che la cancellazione dall’albo forense dell’esponente fosse prescritta dalla L. n. 339 del 2006, artt. 1 e 2, avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale di tali disposizioni in quanto in contrasto con i menzionati articoli della Costituzione.

Con il sesto motivo il F., dopo aver ribadito che la normativa di cui alla L. n. 339 del 2003, artt. 1 e 2, dovrebbe essere interpretata nell’unico senso conforme alla Costituzione, ossia quello di non ritenerla applicabile agli avvocati già iscritti all’albo in base alla normativa previgente, rileva che, ove si ritenga il contrario, sarebbe necessario sollevare questioni di legittimità costituzionale in quanto in contrasto con i principi di ragionevolezza, di tutela dell’affidamento, del diritto al lavoro, del buon andamento della P.A., della copertura finanziaria e della tutela della concorrenza.

Con il settimo motivo il ricorrente prospetta violazioni del diritto comunitario in riferimento agli artt. 10 ed 81 del Trattato suddetto relativi al principio della concorrenza; tale questione viene proposta sotto due diversi profili: 1) richiesta di disapplicazione della L. n. 339 del 2003, in quanto in contrasto con il diritto comunitario, con conseguente cassazione della decisione che di tale legge ha fatto applicazione; 2) rimessione della relativa questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea in riferimento ai menzionati articoli del Trattato.

Con l’ottavo motivo il F. deduce violazione della L. 4 febbraio 2005, n. 11, art. 14 bis, assumendo che, sulla base di detta disposizione, il C.N.F. non avrebbe dovuto fare applicazione della L. n. 339 del 2003, posto che la norma del citato art. 14 bis, vieta che a carico dei cittadini italiani possano trovare applicazione norme il cui effetto risulti discriminatorio rispetto alla condizione ed al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale; la L. n. 339 del 2003, realizzerebbe la cosiddetta discriminazione “al contrario”, perchè gli avvocati stabiliti o integrati in Italia non possono essere dipendenti pubblici, ma possono essere dipendenti di “corrispondenti istituzioni pubbliche nello Stato membro” ove hanno acquisito la qualifica professionale di avvocato; conseguentemente a questi ultimi sarebbe consentito l’esercizio della professione forense in Italia, che risulterebbe invece vietata ai dipendenti pubblici italiani.

Con il nono motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 24 e 111 Cost., oltre che dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali deducendo che il CNF – che ha deciso il ricorso relativo alla cancellazione – non ha avuto, rispetto alla questione sottoposta al suo esame, la natura di giudice terzo ed imparziale, poichè si era in argomento già più volte pronunciato nella sua funzione di indirizzo e coordinamento dei vari Consigli dell’ordine territoriali sollecitando, da parte di questi, l’adozione dei provvedimenti di cancellazione; pertanto il CNF non ha quei requisiti di terzietà ed imparzialità che anche la Corte Costituzionale ha in più occasioni ribadito essere una qualità imprescindibile di qualsiasi organo giudicante.

3 – Con il primo motivo il R. denuncia violazione degli artt. 24 e 111 Cost., oltre che dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali deducendo che il CNF – che ha deciso il ricorso relativo alla cancellazione – non ha avuto, rispetto alla questione sottoposta al suo esame, la natura di giudice terzo ed imparziale, poichè si era in argomento già più volte pronunciato nella sua funzione di indirizzo e coordinamento dei vari Consigli dell’ordine territoriali sollecitando, da parte di questi, l’adozione dei provvedimenti di cancellazione; pertanto il CNF non ha quei requisiti di terzietà ed imparzialità che anche la Corte Costituzionale ha in più occasioni ribadito essere una qualità imprescindibile di qualsiasi organo giudicante.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5, e comma 3, in quanto la sentenza impugnata non risulta essere stata sottoscritta dal Presidente e dall’estensore.

Con il terzo motivo il R. sostiene che il CNF non ha dato risposta al terzo motivo di ricorso con il quale si era dedotta la palese discriminazione nei confronti dell’esponente dal provvedimento di cancellazione dall’albo rispetto ad altri avvocati che esercitavano la funzione di parlamentare.

Con il quarto motivo il R., deducendo violazione dell’art. 111 Cost., e art. 132 c.p.c., n. 4, nonchè omessa motivazione, assume di aver richiesto la disapplicazione della L. n. 339 del 2003, in quanto in contrasto con i principi di uguaglianza e proporzionalità che informano l’ordinamento comunitario, considerato che l’attività di avvocato rientra nell’ambito di applicazione del diritto di libera prestazione di servizi; ed invero, mentre l’incompatibilità nel caso di avvocati parlamentari non è applicabile, essa invece è applicabile nell’ipotesi di avvocati impiegati pubblici part-time, avendo così determinato la cancellazione dall’albo professionale del ricorrente.

Il ricorrente aggiunge che la disapplicazione della suddetta legge per contrasto con l’ordinamento comunitario si imponeva anche sotto il profilo della tutela dei diritti quesiti.

Con il quinto motivo il ricorrente rileva che la L. n. 339 del 2003, che ha reintrodotto il divieto per il dipendente pubblico part – time di esercitare la professione forense, si pone in contrasto con l’art. 3, lett. g) artt. 10, 43, 49, 50, 81 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità Europea in relazione ai principi dell’economia di mercato e della libera concorrenza.

Con il sesto motivo il R. deduce violazione della L. 4 febbraio 2005, n. 11, art. 14 bis, assumendo che, sulla base di detta disposizione, il C.N.F. non avrebbe dovuto fare applicazione della L. n. 339 del 2003, posto che la norma del citato art. 14 bis, vieta che a carico dei cittadini italiani possano trovare applicazione norme il cui effetto risulti discriminatorio rispetto alla condizione ed al trattamento dei cittadini comunitari residenti o stabiliti nel territorio nazionale; la L. n. 339 del 2003, realizzerebbe la cosiddetta “discriminazione al contrario”, perchè gli avvocati stabiliti o integrati in Italia non possono essere dipendenti pubblici, ma possono essere dipendenti di “corrispondenti istituzioni pubbliche nello Stato membro” ove hanno acquisito la qualifica professionale di avvocato; conseguentemente a questi ultimi sarebbe consentito l’esercizio della professione forense in Italia, che risulterebbe invece vietata ai dipendenti pubblici italiani.

Con il settimo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 111 Cost., anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4, e vizio di motivazione, rileva che la decisione del CNF, limitandosi a riportare stralci della sentenza n. 390 del 2006 della Corte Costituzionale, non risponde ai punti del ricorso, dando una interpretazione errata della legge e della menzionata sentenza; secondo il ricorrente, infatti, detta sentenza si è pronunciata, nel merito, solo sulla legittimità della L. n. 339 del 2003, art. 1, norma che prevede l’inapplicabilità delle disposizioni della L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56 – 56 “bis” e 57, all’iscrizione agli albi degli avvocati; tale disposizione, cioè, prevede per il futuro l’impossibilità per i dipendenti pubblici a tempo parziale di svolgere contemporaneamente la professione di avvocato; la Corte Costituzionale, però, non ha affrontato nel merito, nè nella citata sentenza nè nell’ordinanza n. 91 del 2009, la questione relativa alle legittimità della L. n. 339 del 2006, artt. 1 e 2, ove interpretati nel senso che essi imporrebbero la cancellazione anche nei confronti degli avvocati già iscritti, come il ricorrente, i quali hanno esercitato da tempo entrambe le attività.

Con l’ottavo motivo il ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale della L. n. 339 del 2003, art. 2, per contrasto con l’art. 3 Cost., art. 35 Cost., comma 1, e art. 41 Cost., e con i principi della sicurezza giuridica e della tutela del legittimo affidamento.

Con il nono motivo il R. in via subordinata chiede, nel caso di mancato accoglimento della richiesta di disapplicazione della L. n. 339 del 2003, art. 2, di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per violazione dell’art. 117 Cost..

Innanzitutto deve rilevarsi l’infondatezza dei seguenti motivi di ricorso che rivestono carattere preliminare in quanto eventualmente assorbenti rispetto agli altri motivi riguardando l’asserita nullità delle decisioni impugnate:

1) – mancata sottoscrizione della decisione impugnata da parte del Presidente e dell’estensore (secondo motivo del ricorso R.);

2) – violazione del principio di terzietà del CNF (nono motivo del ricorso F. e primo motivo del ricorso R.).

Con riferimento alla prima censura deve anzitutto rilevarsi che ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 44, sull’ordinamento della professione di avvocato e, con riferimento alle deliberazioni in materia disciplinare, degli artt. 51 e 64 dello stesso decreto, norme aventi carattere speciale rispetto alla disposizione dell’art. 132 c.p.c., u.c., le deliberazioni del CNF sono sempre sottoscritte dal solo Presidente e segretario, e non anche dal relatore, senza che ciò determini alcun contrasto con gli artt. 24 e 101 Cost., (Cass. S.U. 1-8-2012 n. 13797); orbene tale requisito nella fattispecie risulta regolarmente osservato, atteso che la copia conforme della decisione impugnata risulta essere stata sottoscritta da “Il Presidente f.f. f.to avv. V.C.”.

L’infondatezza della seconda censura deriva dal rilievo che il Consiglio Nazionale Forense, allorchè pronuncia in materia disciplinare, è un giudice speciale istituito con D.Lgs. 23 novembre 1944, n. 382, e tuttora legittimamente operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; le norme che lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio Nazionale ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano – per il metodo elettivo della prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e dell’intervento del P.M. – il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all’indipendenza dei giudice ed all’imparzialità dei giudizi; infatti l’indipendenza del giudice consiste nella autonoma potestà decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza.

Pertanto è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto Consiglio Nazionale Forense, non potendo incidere sulla legittimità di detta normativa neanche la circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative in quanto, come evidenziato anche dalla Corte Costituzionale, non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali (Corte Cost. sent. n. 284 del 1986; Cass. S.U. 3-5-2005 n. 9097).

Con riguardo poi a tutte le altre censure formulate dai ricorrenti occorre fare riferimento al tessuto normativo che interessa le questioni sollevate, muovendo dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 56 e 60, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica); in particolare il comma 56 stabilisce che “Le disposizioni di cui al D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 58, comma 1, e successive modificazioni ed integrazioni, nonchè le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a tempo pieno”.

Con la L. n. 339 del 2003, (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato) il legislatore disciplina nuovamente la materia con una modifica di segno contrario rispetto a quella di cui alla sopra menzionata normativa; tale legge, che non riguarda la generalità delle professioni, ma soltanto specificatamente la professione di avvocato, prevede all’art. 1 che “Le disposizioni di cui alla L. n. 662 del 1996, art. 1, commi 56, 56 bis e 57, non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni”; il successivo art. 2, dispone che gli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base della richiamata normativa del 1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (comma 2), ed il mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di pubblico impiego (comma 3); in questa seconda ipotesi il dipendente pubblico part – time conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (comma 4); inoltre l’art. 2, comma 1, dispone che in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal proprio albo.

A tal punto deve essere esaminato l’impatto su tale disciplina della normativa di cui al D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito in L. 14 settembre 2011, n. 148; in particolare il titolo secondo (Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo) all’art. 3, comma 1, (Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche) stabilisce che Comuni, Province, Regioni e Stato entro il 30-9-2012 dovranno adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di:

a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;

b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;

c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale;

d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;

e) disposizioni relative alle attività di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti sulla finanza pubblica.

L’art. 3, comma 5, poi prevede che gli ordinamenti professionali devono garantire che l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni al principio di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti; con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17, comma 2, gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto suddetto per recepire determinati principi ivi enunciati tra i quali è opportuno richiamare quello “sub” a) secondo il quale l’accesso alla professione è libero ed il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista; la limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana, e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della società professionale.

L’art. 3, comma 5 “bis”, dispone poi che le norme vigenti sugli ordinamenti professionali in contrasto con i principi di cui al comma 5, lett. da a) a g), sono abrogate con effetto dalla data di entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma 5 e, in ogni caso, dal 13-8-2012.

Il comma 5 “ter” inoltre prevede che il Governo entro il 31-12-2012 provvedere a raccogliere le disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5 “bis” in un testo unico da emanare ai sensi della L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17 “bis”.

Successivamente è stato emanato il D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, (Regolamento recante riforma degli ordinamenti professionali a norma del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148) il cui art. 2 (Accesso ed esercizio dell’attività professionale) prevede: “1. Ferma la disciplina dell’esame di Stato, quale prevista in attuazione dei principi di cui all’art. 33 Cost., e salvo quanto previsto dal presente articolo, l’accesso alle professioni regolamentate è libero. Sono vietate limitazioni alle iscrizioni agli albi professionali che non sono fondate su espresse previsioni inerenti al possesso o al riconoscimento dei titoli previsti dalla legge per la qualifica e l’esercizio professionale, ovvero alla mancanza di condanne penali o disciplinari irrevocabili o ad altri motivi imperativi di interesse generale.

2. L’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia e indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnico. La formazione di albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività professionale, fondati su specializzazioni ovvero titoli o esami ulteriori, è ammessa solo su previsione espressa di legge.

3. Non sono ammesse limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni deontologiche, del numero di persone titolate a esercitare la professione, con attività anche abituale e prevalente, su tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico interesse, quale la tutela della salute. E’ fatta salva l’applicazione delle disposizioni sull’esercizio delle funzioni notarili.

4. Sono in ogni caso vietate limitazioni discriminatorie, anche indirette, all’accesso e all’esercizio della professione, fondate sulla nazionalità del professionista o sulla sede legale dell’associazione professionale o della società tra professionisti”.

Il successivo art. 12, dopo aver previsto al primo comma che le disposizioni di cui al decreto si applicano dal giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso, al comma 2, sancisce che “Sono abrogate tutte le disposizioni regolamentari e legislative incompatibili con le previsioni di cui al presente decreto, fermo quanto previsto dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 settembre 2011, n. 148, e successive modificazioni, e fatto salvo quanto previsto da disposizioni attuative di direttive di settore emanate dall’Unione Europea”.

Si rileva poi che non risulta essere stato finora emanato il testo unico previsto dal sopra richiamato D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5 “ter”, convertito in L. 14 settembre 2011, n. 148.

Tanto premesso, occorre accertare se per effetto di tale normativa, costituente “jus superveniens” nelle presenti controversie dopo la proposizione dei rispettivi ricorsi per cassazione, sia intervenuta una abrogazione tacita della L. n. 339 del 2003, quanto alla incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio della professione di avvocato e l’impiego pubblico part-time.

In tale prospettiva, in particolare, con riferimento al D.P.R. n. 137 del 2012, art. 2, comma 3, laddove si prevede che non sono ammesse limitazioni all’esercizio delle libere professioni “con attività anche abituale e prevalente”, potrebbe porsi il quesito se tale disposizione, sancendo l’ammissibilità di esercitare anche la professione di avvocato in misura non abituale o prevalente, possa incidere sulla normativa di cui alla L. n. 339 del 2003, artt. 1 e 2.

Nella stessa prospettiva è legittimo chiedersi se l’esigenza di scongiurare il rischio di compromissione dell’indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico part – time possa o meno configurarsi quale “motivo imperativo di interesse generale” (D.P.R. n. 137 del 2012, art. 2, n. 1) tale da giustificare la permanenza della suddetta incompatibilità.

Ancora potrebbe dubitarsi se una abrogazione tacita delle disposizioni sopra richiamate della L. n. 339 del 2003, non sia comunque sopravvenuta alla data del 13-8-2012 per contrasto con il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5 “bis”, che ha introdotto un principio di generale liberalizzazione dei servizi professionali.

Il Collegio ritiene di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della L. n. 339 del 2003, per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part – time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente; la L. n. 339 del 2003, è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 Cost., (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni; pertanto tale “ratio”, tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, esclude che con la normativa in oggetto si sia inteso introdurre dei limiti all’esercizio della professione forense o comunque delle modalità restrittive della organizzazione di tale attività.

Al riguardo giova anche richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390 che, investita delle questioni di legittimità della nuova normativa (sostanzialmente ripristinatoria del divieto di esercizio della professione forense a carico dei dipendenti pubblici ancorchè part – time), ha ritenuto non manifestamente irragionevole tale opzione legislativa, non potendo ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione, da parte del legislatore, di maggiore pericolosità e frequenza dei possibili inconvenienti derivanti dalla commistione tra pubblico impiego e libera professione quando detta commistione riguardi la professione forense; in proposito la Corte Costituzionale alla luce dell’art. 3 Cost., ha rilevato che il divieto ripristinato dalla L. n. 339 del 2003, è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, recante Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).

Pertanto deve escludersi che la disciplina introdotta dalla L. n. 339 del 2003, sancendo l’incompatibilità tra impiego pubblico ed una professione avente una natura ed una funzione peculiari quale quella forense, possa essere stata abrogata per effetto delle sopra richiamate norme sopravvenute, che introducono i principi ispiratori delle attività economiche private (D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito in L. 14 settembre 2011, n. 148) e delle attività professionali regolamentate il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o collegi subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche professionalità (D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137); invero l’incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle precedenti si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicchè dalla applicazione ed osservanza della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra (Cass. 21-2-2001 n. 2502; Cass. 1-10-2002 n. 14129), ipotesi non ricorrente nella specie alla luce delle argomentazioni sopra svolte.

Deve inoltre aggiungersi che la successiva L. 31 dicembre 2012, n. 247, (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), ancorchè non suscettibile di efficacia immediata (invero l’art. 1 terzo comma prevede che “All’attuazione della presente legge si provvede mediante regolamenti adottati con decreto del Ministero della giustizia, ai sensi della L. 23 agosto, n. 400, art. 17, comma 3, entro due anni dalla data della sua entrata in vigore…”), conferma l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione forense; infatti, considerato che l’art. 65 (Disposizioni transitorie) comma 1, sancisce che “Fino alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella presente legge, si applicano se necessario e in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate”, e che l’art. 18, lett. d), prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato anche “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”, ne consegue logicamente che non sono stati certamente abrogati dalla legge in esame il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, e L. 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2, che anzi sono riconducigli agli stessi principi informatori di cui all’art. 18 citato.

Tanto premesso sulla vigenza della L. n. 339 del 2003, si osserva che tutte le censure sollevate dai ricorrenti riguardano da un lato i dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2, della legge suddetta con riferimento in particolare ai principi di uguaglianza, affidamento, libera prestazione di servizi, ragionevolezza, sicurezza giuridica, e dall’altro la prospettata incompatibilità tra detta disciplina ed i principi del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza e della libertà di stabilimento.

Sotto il primo profilo occorre richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 che, a seguito di due ordinanze di identico contenuto di questa Corte, Sezioni Unite Civili, del 6-6- 2010, che avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale, sia in relazione agli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., sia in riferimento al parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3 Cost., comma 2, della L. 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2, ha dichiarato non fondate tali questioni.

Tale sentenza ha esaminato preliminarmente la questione sollevata da alcune parti private secondo la quale la L. n. 339 del 2003, art. 2, non avrebbe dovuto essere applicato in quanto, diversamente dagli avvocati italiani, i legali “stabiliti” o “integrati”, pur non potendo lavorare in Italia, neppure part – ti me, alle dipendenze ovvero in veste di titolari d’impiego o ufficio retribuito a carico dello Stato italiano perchè tenuti a rispettare il R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 3, potrebbero nondimeno rimanere dipendenti delle corrispondenti istituzioni pubbliche dello Stato membro di acquisizione della qualifica professionale; in tal modo si verificherebbe una discriminazione “al contrario” in tema di incompatibilità non più ammissibile nei confronti degli avvocati italiani ai sensi della L. 4 febbraio 2005, n. 11, art. 14 bis (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).

In proposito la suddetta sentenza ha richiamato la già menzionata precedente pronuncia della stessa Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390, che ha ritenuto che la normativa nazionale di recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale prevede espressamente che tutte le norme sulle incompatibilità si applicano anche all’avvocato “stabilito”o “integrato”, ivi comprese, riguardo ai contratti di lavoro con enti corrispondenti nello Stato di origine, le eccezioni di cui al R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 3, comma 4, (D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, art. 5 comma 2, recante “Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale”); la sentenza in oggetto ha poi evidenziato che tale soluzione era inevitabile, atteso che la disciplina delle incompatibilità in tema di ordinamento professionale forense – secondo il diritto vivente che ne risulta dalla giurisprudenza di legittimità – deve essere interpretata con estremo rigore, in coerenza con la “ratio” di garantire l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale.

Del resto anche la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sentenza del 2-12-2010 ha escluso che la L. n. 339 del 2003, si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e produca in tal modo una discriminazione alla rovescia.

La sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 ha poi escluso una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata, osservando che il significato letterale e sistematico della novella non consente altra ricostruzione esegetica che quella – coerente con il reintrodotto divieto di svolgimento contemporaneo delle due attività – dell’imposizione di una scelta per l’una o per l’altra, da esprimere entro un determinato periodo, a quanti si fossero trovati nella condizione, ora non più consentita, di pubblici dipendenti part – time e di avvocati; in effetti il dato normativo è assolutamente chiaro nel prescrivere l’esercizio di un’opzione tra l’esercizio esclusivo della professione forense e la prestazione di lavoro pubblico a tempo pieno a tutti coloro i quali avessero ottenuto nella posizione di dipendenti pubblici part – time l’iscrizione all’albo degli avvocati, con il beneficio di una fase di transizione per una migliore ponderazione della scelta definitiva.

Tanto premesso, la sentenza in esame ha rilevato che già la precedente sentenza del 25-11-2006 n. 390 aveva dato risposta negativa ai dubbi di legittimità costituzionale della normativa in oggetto riguardo agli artt. 4 e 35 Cost., ritenendo che essi, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimettono l’attuazione, quanto ai tempi ed ai modi, alla discrezionalità del legislatore, che nella specie non aveva esercitato malamente il suo potere; anche in relazione all’asserito contrasto con l’art. 41 Cost., era stato escluso che i dipendenti pubblici svolgessero servizi configuranti una attività economica, cosicchè la loro attività non poteva essere considerata come quella di un’impresa.

La Corte Costituzionale ha poi escluso una lesione da parte della disciplina in esame dell’affidamento in riferimento all’art. 3 Cost., per quanto riguardava i dipendenti pubblici part – time i quali, sulla base delle regole “permissive” del 1996, avevano affiancato al rapporto di lavoro pubblico l’impegno professionale forense; invero in base alla giurisprudenza della stessa Corte il valore del legittimo affidamento trova copertura costituzionale in tale articolo non in termini assoluti ed inderogabili, non essendo interdetta al legislatore l’emanazione di disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale.

Orbene la disciplina in esame, avendo concesso ai dipendenti pubblici part – time già iscritti all’albo degli avvocati un primo periodo di durata triennale onde esercitare l’opzione per l’uno o per l’altro percorso professionale e poi, ancora, un altro di durata quinquennale – in caso di espressa scelta in prima battuta della professione forense – ai fini dell’eventuale richiesta di rientro in servizio, soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla L. n. 339 del 2003; pertanto la Corte Costituzionale ha concluso che tale disciplina, lungi dal tradursi in un regolamento irrazionale lesivo dell’affidamento maturato dai titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto l’impero della normativa previgente, era assolutamente adeguata a contemperare la doverosa applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’avvenire (con effetto altresì sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti pubblici a tempo parziale già ammessi dalle legge dell’epoca all’esercizio della professione legale.

Con riferimento poi al prospettato contrasto della normativa in oggetto con i principi comunitari, è anzitutto opportuno rilevare che la legge in esame ha inciso sulle modalità di svolgimento del servizio presso enti pubblici e non sul modo di organizzazione della professione forense, con conseguente estraneità dei principi di concorrenza tra imprese al tema della libera circolazione degli avvocati nell’Unione Europea; i dipendenti pubblici, d’altra parte, non svolgono servizi configuragli come una attività economica, e la loro attività non può essere considerata come quella di una impresa.

In ogni caso gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità.

E’ comunque decisivo rilevare che, a seguito di ordinanza del Giudice di Pace di Cortona del 19-6-2009, che aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale relativa al possibile contrasto della L. n. 339 del 2003 (nella parte in cui reintroduce il divieto di svolgimento della professione forense per i pubblici dipendenti part – time) con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento e protezione dei diritti quesiti alla luce delle direttive 77/249/CE e 98/5/CE, la suddetta Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la già richiamata sentenza del 2-12-2010 ha ritenuto che gli artt. 3 n. 1 lett. g) CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la loro cancellazione dall’albo degli avvocati.

In definitiva i ricorsi devono essere rigettati; non occorre procedere ad alcuna statuizione in ordine alle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi.

Così deciso in Roma, il 9 aprile 2013.

Redazione