Impresa familiare (Cass. n. 443/2012) (inviata da R. Staiano)

Redazione 16/01/12
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo
1. Nell’ambito di un giudizio di separazione personale, instaurato dinanzi al Tribunale di Chiavari da ***** nei confronti di A. P. D. per sentir addebitare la separazione alla convenuta, quest’ultima, oltre a richiedere la pronuncia di addebito nei confronti del P, e altre pronunce relative al rapporto di coniugio, domandava, ai sensi dell’art. 230 bis cod.civ., la liquidazione del suo diritto di partecipazione ai redditi ed al patrimonio dell’impresa familiare -cessata per unilaterale determinazione del P. – costituita da un’azienda di bar-ristorante-pensione in Cavi di *******, e la condanna del P. alla restituzione di alcune somme, Il Tribunale, con sentenza definitiva del dicembre 2004, addebitava la sparazione alla D., e respingeva le domande proposte dalla medesima.
2. Proposto appello dalla D. la Corte d’appello di Genova, riformata con sentenza non definitiva del settembre 2005 la sentenza di primo grado in ordine all’addebito della separazione, e disposta con ordinanza una consulenza d’ufficio tecnico-contabile, con sentenza definitiva depositata il 26 marzo 2007 accoglieva parzialmente il gravame condannando il P. al pagamento in favore della D. della somma di € 80.683,49 oltre interessi, quale quota di sua pertinenza -stabilita dalle parti nel 49% con scrittura privata autenticata del gennaio 1985- degli utili maturati per il periodo gennaio 1985/maggio 1996 dall’impresa familiare, e del valore della stessa, alienata dal P. nel 1999 ad un terzo che l’aveva gestita in comodato per un biennio circa. La Corte, recependo le conclusioni della consulenza tecnica d’ ufficio espletata, ha rilevato che, nella mancanza assoluta della contabilità di impresa e nella inconsistenza della documentazione bancaria acquisita a seguito di ordinanza ex art. 210 c.p.c., la ricostruzione dei redditi prodotti, nel periodo in questione, dall’impresa familiare e del valore della stessa al momento della cessione non potevano che basarsi sugli unici elementi certi emergenti dai documenti in atti, cioè sui dati esposti nelle denunce fiscali dei redditi relative al periodo in questione (il cui totale ammonta a lire 217.827.000) e nel contratto di cessione del marzo 1999 (che espone un corrispettivo di lire 100.000.000), essendo ogni altra ricostruzione induttiva impraticabile e dagli esiti inequivocabilmente arbitrari, come diffusamente spiegato dalla relazione di consulenza d’ufficio anche in base all’ esame approfondito delle consulenze di parte depositate dalle parti, pervenute a soluzioni contrapposte sulla base di elementi non certi. Ed ha quindi attribuito alla D. la somma pari alla quota del 49% di detti importi.
3. Avverso entrambe le sentenze, non definitiva e definitiva (ancorché le critiche siano rivolte esclusivamente alla seconda), P., con atto notificato il 12 giugno 2007, proposto ricorso a questa Corte basato un unico articolato motivo, cui resiste la D. con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

 

Motivi della decisione
1. Sotto un primo profilo, il ricorrente censura la determinazione della quota degli utili dell’ impresa familiare spettante alla controparte denunciando violazione e falsa applicazione dell’articolo 230 bis cod.civ, per non avere la Corte territoriale dedotto dal reddito prodotto dall ‘impresa le spese di mantenimento dei partecipanti, che avrebbe potuto determinare in via presuntiva. La doglianza è inammissibile, perché introduce una questione di fatto che non risulta dalla sentenza né dal ricorso essere stata sollevata nel giudizio di merito (cfr.ex multis, Cass. n. 20018/2008). 2. Sotto altro profilo, la medesima censura e denuncia di violazione/falsa applicazione dell’articolo 230 bis cod.civ. vengono prospettate per non avere la Corte considerato, ai fini della determinazione degli utili spettanti al coniuge partecipante, il valore iniziale dell’azienda familiare e quindi le perdite, gli apporti di capitale del titolare, i reinvestimenti di utili, la distruzione dell’azienda da parte del figlio. 2.1 Tuttavia, premesso che il criterio dell’apporto incrementativo del partecipante alla produttività dell’azienda non serve per accertare gli utili, bensì la quota di essi spettante al familiare nel solo caso in cui tale quota non sia stata predeterminata con consensualmente dalle parti, come invece avvenuto nella specie, è ragionevole ritenere che i redditi dell’impresa familiare dichiarati fiscalmente dal titolare tengano conto dei ricavi ottenuti nel periodo e delle spese effettuate: la esistenza di altri costi, non dichiarati, avrebbe dovuto essere specificamente dedotta – nonché dimostrata- dal P. in sede di merito, del che non vi è traccia né nella sentenza né in ricorso. D’altra parte, l’accertamento di fatto compiuto motivatamente dalla corte di appello con riguardo agli utili maturati non può essere in questa sede riesaminato, tantomeno sotto il profilo della violazione di legge.
3. Analoghe considerazioni si impongono in relazione all’ulteriore profilo di doglianza, con il quale il ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia liquidato il diritto del coniuge agli incrementi ed all’avviamento dell’azienda sulla scorta del corrispettivo della cessione della stessa a terzi avvenuta tre anni dopo la cessazione dell’impresa familiare e dopo che, priva di avviamento, era stata quasi per un biennio data in comodato gratuito alla persona che poi l’ha acquistata. Anche qui, la valutazione in fatto compiuta dalla Corte d’appello – la quale ha ritenuto ragionevole considerare il valore di cessione dell’azienda ai fini della determinazione del valore della stessa al momento della cessazione dell’impresa familiare – non implica alcuna erronea ricognizione della fattispecie astratta prevista dall’art. 230 bis, e non è quindi censurabile in sede di legittimità sotto il profilo della violazione di legge.
4. Si impone pertanto il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio, in € 3.500,00 per onorari e € 200,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori di legge.

Redazione