Impresa di assicurazione: dedurre interamente e non pro-rata gli accantonamenti obbligatori non è un’operazione fiscale elusiva (Cass. n. 18447/2012)

Redazione 26/10/12
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Svolgimento del processo

Con avviso di accertamento ai fini IRPEG ed ILOR notificato alla società Lavoro e Sicurtà di Assi e Riass.ni s.p.a. (incorporata nel corso del giudizio in RAS s.p.a., successivamente denominata Riunione Adriatica di Sicurtà Holding s.p.a. ed incorporata per fusione nella società Alleanza SE come da atto 3.10.2006) venivano recuperati ad imponibile, per l’anno 1992, costi ritenuti indeducibili in quanto non documentati (Euro 5.164.67) e spese generali (accantonamenti a riserva matematica per L. Euro 113.394.25) in quanto portate in deduzione integralmente (con riferimento tanto alle somme derivanti da incasso dei premi assicurativi – che concorrevano alla formazione del reddito -, quanto alle somme derivanti dai proventi dell’impiego finanziario dei premi – interessi non concorrenti alla formazione del reddito) anzichè nei limiti della proporzione tra ricavi imponibili ed esenti come previsto dall’art. 75 co. 5, TUIR, nel testo vigente “ratione temporis”.
La decisione della CTP di Milano n. 250 del 2001, che aveva disposto l’annullamento dell’avviso, è stata parzialmente riformata dalla CTR lombarda con sentenza 17.2.2005 n. 23. I Giudici territoriali:
1- hanno accolto il motivo di gravame dell’Ufficio concernente il vizio di extrapetizione della sentenza impugnata nella parte in cui si era pronunciata, in assenza di domanda del contribuente, sulla illegittimità della ripresa concernente i costi non ammessi in deduzione per mancanza di documentazione;
2 – hanno invece rigettato il secondo motivo di gravame dell’Ufficio, richiamandosi al precedente di questa Corte 23.10.2003 n. 15935 ed alle successive pronunce conformi, che avevano evidenziato la natura peculiare di “ricavi sospesi” delle somme accantonate ex lege, non riconducibili pertanto alla disciplina normativa generale della deducibilità delle spese e degli oneri connesse alla realizzazione di ricavi, e dunque integralmente deducibili – indipendentemente dalla fonte di produzione – in quanto da considerare componenti passivi di reddito.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate ed il Ministero della Economia e delle Finanze, con atto notificato il 4.4.2006, deducendo con un unico motivo la violazione di norme di diritto.
Ha resistito con controricorso la società chiedendo il rigetto del ricorso per infondatezza del motivo.
In pendenza del presente giudizio la società contribuente ha presentato istanza di definizione della lite ai sensi dell’art. 3 comma 2bis lett. b) del D.L. 25.3.2010 n. 40 conv. in L. 22.3.2010 n. 73, che e stata ritenuta “irregolare” dalla Agenzia delle Entrate in quanto proposta in carenza del presupposto della soccombenza della Amministrazione finanziaria in entrambi i gradi del giudizio di merito.
La società ha depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c., con la quale ha eccepito, in via preliminare, la estinzione del giudizio ex L. n. 73/2010, rilevando che l’errore di definizione del “thema decidendum” in cui era incorso il primo giudice non poteva risolversi in pregiudizio del contribuente precludendogli l’accesso alla forma di definizione agevolata della lite.

 

Motivi della decisione

1. Questioni pregiudiziali.
1.1. Deve essere preliminarmente dichiarata ex officio l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione attiva, non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nel giudizio di appello svoltosi avanti la Commissione tributaria della regione Lombardia ed introdotto con ricorso proposto dall’Ufficio di Milano della Agenzia delle Entrate in data successiva all’1.1.2001 (subentro delle Agenzie fiscali a titolo di successione particolare ex lege nella gestione dei rapporti giuridici tributari pendenti in cui era parte l’Amministrazione statale), con conseguente implicita estromissione della Amministrazione statale ex art. 111 co.3 c.p.c., (cfr. Corte Cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e 3118).
Non avendo il ricorso proposto dal Ministero comportato aggravio di attività difensiva si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.
1.2 La società resistente ha eccepito la estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 3 comma 2 bis, lett. b) del D.L. 25.3.2010 n. 40 conv. in L. 22.3.2010 n. 73, contestando l’assunto della Agenzia delle Entrate della assenza del presupposto della soccombenza nei primi due gradi di giudizio, in quanto l’accoglimento da parte della CTR lombarda del motivo di gravame dell’Ufficio concernente il vizio di extrapetizione non implicava soccombenza della società contribuente, non avendo questa contribuito in alcun modo a determinare l’errore commesso dai Giudici di prime cure.
La eccezione è infondata.
Con l’art. 3 comma 2 bis del D.L. 25.3.2010 n. 40 conv. in L. 22.3.2010 n. 73, il Legislatore ha inteso incidere, in materia di tributi erariali, sulle situazioni processuali eccessivamente protrattesi nel tempo (“controversie tributarie pendenti… da oltre dieci anni”) in quanto suscettive di violare il “principio di ragionevole durata del processo” di cui all’art. 6 paragr. 1 CEDU (Concezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), principio che ha trovato anche fondamento costituzionale nell’art. 111 co. 2 Cost.
La norma in esame distingue le controversie (escluse quelle aventi a oggetto istanze di rimborso) pendenti avanti la Commissione tributaria centrale – comma 2 bis, lett. a) – per le quali è prevista la “definizione automatica” (non rilevano ai fini de presente giudizio le successive modifiche introdotte dall’art. 29 comma 16 decies D.L. 29.12.2011 n. 216 conv. in L. 24.2.2012, n. 14), e le controversie pendenti avanti la Corte di cassazione in ordine alle quali viene introdotta una forma agevolata di definizione delle lite, strutturata secondo uno schema analogo a quello del negozio transattivo, in quanto fondata sul presupposto della incertezza dell’esito della lite pendente (“res dubia”) e caratterizzata da concessioni reciproche (“aliquid datum, aliquid retentum”): ed infatti l’Erario rinuncia a far valere l’originaria pretesa, desistendo dalla prosecuzione del giudizio, rimanendo soddisfatto con “il pagamento di un importo pari al 5% del valore della controversia” e con la rinuncia da parte del contribuente a far valere eventuali pretese indennitarie ai sensi della L. 24.3.2001 n. 89; il contribuente estingue il rapporto tributario versando una minore imposta rispetto a quella vantata dall’Erario e rinunciando ad azionare eventuali pretese per il pregiudizio sofferto dalla eccessiva durata del giudizio.
Peculiare elemento dello schema procedimentale transattivo è costituito dalla predeterminazione normativa della “res dubia” secondo un criterio oggettivo – volto a sottrarre, alle parti del rapporto tributario, qualsiasi ambito discrezionale di esercizio del potere dispositivo, e volto altresì a prevenire possibili dubbi interpretativi del Giudice in ordine alla individuazione delle liti definibili – ancorato alla duplice soccombenza della Amministrazione finanziaria dello Stato “nei primi due gradi di giudizio”.
Tenuto conto che la estinzione del giudizio non si produce automaticamente per effetto del pagamento della somma e della manifestazione di rinuncia del contribuente ad eventuali pretese di equa riparazione (“a tal fine il contribuente può presentare apposita istanza alla competente segreteria o cancelleria entro novanta giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione ilei presente decreto con attestazione del relativo pagamento”: art. 3, co. 2 bis, lett. b) D.L. n. 40/2010), ma soltanto “a seguito di attestazione degli uffici della amministrazione finanziaria comprovanti la regolarità della istanza ed il pagamento integrale di quanto dovuto” (cfr. ultimo periodo dell’art. 3, comma 2 bis, aggiunto dall’art. 48 ter D.L. n. 78/2010, conv. in L. n. 122/2010), secondo uno schema procedimentale mutuato dalla disciplina del condono di cui all’art. 16, comma 8 della L. 27.12.2002, n. 289, si potrebbe profilare il dubbio della diretta sindacabilità da parte della Corte – ex officio o su richiesta di parte – della “attestazione negativa” od anche del silenzio serbato dagli uffici della Amministrazione finanziaria in ordine alla istanza presentata dal contribuente, avuto riguardo:
a) alla natura dell’atto di attestazione negativa o della condotta significativa (silenzio – rifiuto) che ne imporrebbe, ai sensi dell’art. 19, co. 1 lett. h) D.Lgs. n. 546/1992, la autonoma impugnazione da parte del contribuente;
b) all’accertamento in fatto che deve essere compiuto dal Giudice investito del sindacato dell’atto, e che, in considerazione della struttura propria del giudizio di legittimità, ed in difetto di espressa attribuzione legislativa (come invece prevista dall’art. 16, co. 8 legge n. 289/2002, – “l’eventuale diniego della definizione” notificalo al contribuente può essere dallo stesso impugnato “dinanzi all’organo giurisdizionale presso il quale pende la lite” – secondi) la interpretazione della norma fornita dalla giurisprudenza di legittimità: Corte Cass. V sez. 20.3.2006 n. 6205; id. V sez. 10.10.2008 n. 24910), esula dalle competenze della Corte.
Ritiene il Collegio che il dubbio debba essere risolto con l’affermazione della competenza della Corte, quale Giudice presso il quale pende la lite, a sindacare l’eventuale rifiuto di condono, non essendo ostativa a tale conclusione la mancanza di una espressa previsione normativa attributiva della competenza, ricavandosi implicitamente tale competenza dalla stessa disciplina legislativa in esame laddove, da un lato, dispone che la istanza di estinzione del giudizio è “presentata” dal contribuente “alla Cancelleria” della Corte (ed è comunicata all’Ufficio finanziario) che è quindi investita direttamente della questione attinente la sussistenza delle condizioni alle quali a legge ricollega l’effetto estintivo;
dall’altro intende provvedere alla esigenza di impedire l’ulteriore violazione del principio di ragionevole contenimento dei tempi processuali, con la conseguenza che, nel caso in cui l’atto di “attestazione di irregolarità” (o comunque il rifiuto di condono) dell’Ufficio dovesse essere autonomamente impugnato dal contribuente in un distinto giudizio avanti la CTP, si verrebbe ad ottenere un risultato palesemente incompatibile con la esplicita “ratio legis” del D.L. n. 40/2010 (e dell’art. 111 Cost.), venendosi a procrastinare la durata della lite pendente atteso che il Giudice della stessa dovrebbe disporre la necessaria sospensione del processo principale in attesa della risoluzione della causa avente ad oggetto la impugnazione della attestazione di irregolarità.
Tanto premesso, la questione sottoposta all’esame della Corte (se osti alla applicazione del “condono” la pronuncia resa in secondo grado. parzialmente favorevole alla appellante, in relazione a vizio inerente l’attività processuale svolta dal primo Giudice in assenza di domanda di parte) va risolta alla stregua del criterio ermeneutico teleologico dettato dalla stessa disciplina legislativa speciale, con riferimento:
a) al principio di ragionevole durata dei processi;
b) alla “rilevante probabilità” che la lite pendente venga decisa con esito sfavorevole alla Amministrazione finanziaria dello Stato (doppia soccombenza).
Se il primo criterio non sembra porre problemi applicativi, in quanto è lo stesso Legislatore a prevedere che giudizi pendenti da oltre dieci anni sono suscettibili di vulnerare il predetto principio, con conseguente indicazione di tendenziale definibilità di tutte le liti ultradecennali, il secondo criterio, pur nella sua consistenza “oggettiva” (soccombenza “nei primi due gradi di giudizio”) ha posto fin dall’inizio della applicazione della norma alcuni problemi determinati dalla censurabile approssimazione del Legislatore il quale, da un lato, ha trascurato del tutto di considerare – quanto ai giudizi pendenti avanti la Corte di cassazione – che il previgente sistema del processo tributario prevedeva tre gradi di giudizio di merito (cfr. art. 26 D.P.R. 26.10.1972 n. 636. In ordine alla piena cognizione anche in tatto della CTC: cfr. Corte Cass. I sez. 155.1993 n. 5565; id. I sez. 30.3.1994 n. 3146): dall’altro ha omesso del tutto di prendere in considerazione le ipotesi di regresso del giudizio ai gradi precedenti (giudizio di rinvio).
Inoltre, ed è questo l’aspetto problematico della disciplina normativa in esame che viene in questione nel presente giudizio, la disciplina legislativa non fornisce indicazioni specifiche per la definizione di “soccombenza”, sembrando, pertanto, rinviare alla nozione ricavabile dal sistema processuale tributario che, per quanto non altrimenti disposto, fa espresso rinvio alle norme del codice processuale civile in quanto compatibili (art. 1, co. 2, 49, 62, co. 2 del D.Lgs. n. 546/1992).
Orbene la pur suggestiva tesi difensiva della resistente – che riecheggia una autorevole ma risalente dottrina volta a ricercare nella soccombenza clementi propri della responsabilità civile – secondo cui non sarebbe dato ravvisare nel parziale annullamento della sentenza di primo grado affetta da vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c. una “vittoria” della Amministrazione finanziaria appellante e corrispondentemente una “soccombenza” della società contribuente, in quanto l’errore in cui è incorso il Giudice di primo grado – pronunciando “ultra petita partium” – non è imputabile a condotte processuali della società appellata, va incontro alla obiezione secondo cui l’interesse ad impugnare – espressione della più vasta categoria dell’interesse ad agire e resistere in giudizio ex art. 100 c.p.c. – trova in ogni caso il suo indefettibile presupposto processuale in una statuizione della pronuncia giurisdizionale sfavorevole alla parte, tale da determinarne la “soccombenza almeno parziale” in ordine alle domande od eccezioni proposte e dunque trova presupposto nella situazione oggettiva di svantaggio in cui la parte viene a trovarsi rispetto all’interesse sostanziale dedotto in giudizio (“petitum mediato”: bene della vita che la parte intende conseguire o difendere mediante la tutela giudiziale accordata dall’ordinamento). In tal senso le pronunce di questa Corte sono concordi nell’affermare che “ai fini della sussistenza dell’interesse ad impugnare una sentenza rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, che faccia riferimento non già alla divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia, ma agli effetti pregiudizievoli che dalla medesima derivino nei confronti della parte” (cfr. Corte Cass. sez., lav. 18.3.1999 n. 2494; id. sez. lav. 22.2.2000 n. 2022), dovendo aversi riguardo, pertanto, alla soccombenza nel suo aspetto sostanziale e non meramente formale, in quanto correlata al pregiudizio che la parte subisca a causa della sentenza e della sua idoneità a formare il giudicato (cfr. Corte Cass. III sez. 25.6.2003 n. 10134; id. I sez. 15.2.2007 n. 3608; id. III sez. 7.5.2009 n. 10486; id. II sez. 4.5.2012 n. 6770) e, corrispondentemente, all’”utilità concreta” che – in quanto diretta alla eliminazione di tale pregiudizio – deriva alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione (cfr. Corte Cass. II sez. 25.6.2010 n. 15353; id. III sez. ord. 28.6.2010 n. 15355; id. VI – Lav sez. ord. 27.1.2011 n. 2051).
La soccombenza intesa come pregiudizio, rileva, pertanto, “ex se” – come dato obiettivo della difformità tra il provvedimento adottato in ordine al bene della vita conteso e l’interesse concreto di ciascuno dei contendenti in relazione a tale bene -, rimanendo del tutto indifferente il comportamento processuale tenuto dalla parte, tanto nel caso in cui, convenuta in giudizio, la stessa sia rimasta contumace, quanto nel caso in cui, costituitasi in giudizio, non abbia resistito alla domanda proposta nei suoi confronti ovvero abbia manifestato adesione ad essa (cfr. Corte Cass. sez. lav. 28.9.1998 n. 9684).
Nel caso in esame, diversamente da quanto ipotizzato dalla società resistente, la situazione oggettiva di soccombenza della Amministrazione finanziaria dello Stato, deve essere, pertanto, valutata a prescindere dalla verifica “causale” della derivazione del vizio processuale che ha inficiato la sentenza di primo grado dalla condotta tenuta dalla società contribuente (ricorrente in primo grado), dovendo piuttosto aversi riguardo alla posizione di vantaggio o svantaggio in concreto conseguita dalla parte in ordine all’oggetto del contendere.
L’argomento difensivo secondo cui l’oggetto del contendere viene ad essere comunque determinato dalle domande/eccezioni formulate dalle parti (e dunque in ultima analisi alla loro condotta processuale) è capzioso e fuorviate in quanto, se è vero che il Giudice non può prescindere dagli “alligata partium”. tuttavia rimane ad esso attribuito in via esclusiva il compito di qualificare giuridicamente il rapporto controverso individuando i fatti costitutivi della fattispecie nonchè di definire la esatta estensione del “thema controversum”, anche interpretando (in ipotesi erroneamente) gli atti difensivi delle parti. La differente tipologia del vizio di legittimità derivante dalla inesatta valutazione del contenuto degli atti difensivi (art. 360 co. 1, n. 5 c.p.c.) e dall’errore sui limiti della pretesa azionata (art. 360 co. 1, n. 4 c.p.c.), non incide sui criteri di accertamento della situazione di soccombenza, come sopra definita, atteso che in entrambi i casi indicati il parametro di riferimento è costituito dall’oggetto del giudizio come effettivamente definito dal Giudice di merito, richiedendo in ogni caso l’errata definizione dell’oggetto del giudizio – tanto se determinata da vizio motivazionale, quanto da vizio processuale – la necessaria impugnazione delle statuizioni della sentenza che hanno pregiudicato la parte, diversamente passando in giudicato anche il “decisum” relativo alla parte del bene della vita (nella specie la intera pretesa impositiva avente fondamento nel rapporto tributario) che, in assenza dei predetti vizi, sarebbe rimasta estranea alla controversia.
L’errore concernente la definizione dell’oggetto del giudizio rifluisce, pertanto, sempre e comunque sulla determinazione del parametro oggettivo in base al quale deve essere valutato il pregiudizio arrecato dalla pronuncia all’effettivo interesse della parte (id est la soccombenza sostanziale).
In proposito è stato esattamene rilevato come l’”interesse alla impugnazione” dell’appellante, pur avendo riferimento sempre e comunque al rapporto sostanziale controverso dedotto nel giudizio di primo grado, è tuttavia necessariamente mediato dalla esigenza di rimozione o modifica delle statuizioni contenute nella sentenza e risultate allo stesso pregiudizievoli, sia che queste attengano a questioni pregiudiziali o preliminari impeditive della “decidibilità” della causa (presupposti processuali; condizioni di ammissibilità: cfr. Corte Cass. II sez. 4.11.2011 n. 22954 “Qualora la sentenza impugnata, ne definire il giudizio abbia deciso esclusivamente una questione preliminare di rito (nella specie relativa alla legittimazione attivai, i motivi di appello che hanno la finalità di denunciare gli errori di diritto o l’ingiustizia della decisione, non possono concernere anche il merito della domanda che non ha formato oggetto della pronuncia, essendo al riguardo sufficiente che l’appellante abbia riproposto, ai sensi dell’art. 346 cod. proc. civ., la domanda non esaminata”), sia che attengano al regolamento di diritto sostanziale applicato al rapporto controverso (statuizioni di merito che, ove non tempestivamente e specificamente investite dal gravame, determinano il passaggio in giudicato dell’accertamento del rapporto contenuto in sentenza: cfr. Corte Cass. sez. lav. 18.5.2010 n. 12101 “Ove… l’appello cumuli in sè indicium rescindens e indicium rescissiorium, in quanto diretto non alla mera eliminazione di un allo illegittimo, ma alla rinnovazione del giudizio di merito, è necessario che in parte soccombente non si limiti a censurare i vizi di attività del primo giudice – che hanno carattere meramente strumentale – ma deduca ritualmente e tempestivamente le questioni di merito, dovendosi, diversamente, ritenere l’inammissibilità dell’appello per difetto d’interesse in quanto l’eventuale fondatezza della censura non comporta il potere del giudice di pronunciare sul merito della controversia”).
Nella specie non appare contestabile che:
– oggetto del giudizio di primo grado la cui introduzione è veicolata dalla impugnazione dell’atto impositivo è il rapporto tributario come delimitato dalla pretesa vantata dalla Amministrazione finanziaria formulata nell’atto impositivo opposto, nonchè dai motivi volti a far valere la illegittimità e la infondatezza della pretesa dedotti dal contribuente con il ricorso introduttivo (nel caso in esame, l’avviso di accertamento emesso ai fini IRPEG ed ILOR per l’anno di imposta 1992 aveva ad oggetto due distinti rilievi – spese dedotte in violazione del principio di competenza; costi deducibili ma in misura minore di quelli indicati nella dichiarazione – ed il ricorso introduttivo si era limitato a contestare la pretesa tributaria solo in relazione al secondo rilievo).
– il rapporto tributario è stato, tuttavia, definito dal Giudice di primo grado mediante annullamento “integrale” dell’atto impositivo, travolgendo la pretesa impositiva anche per il rilievo contenuto nell’avviso di accertamento non contestato dal contribuente;
– le statuizioni della pronuncia di primo grado, viziate da “error in procedendo”, determinano l’insorgenza dell’interesse ad impugnare del soggetto (nella specie la Amministrazione finanziaria) che è risultato soccombente “in senso sostanziale” in ordine all’intera pretesa fatta valere con l’avviso di accertamento, con la conseguenza che, l’oggetto del giudizio di appello, a causa del vizio indicato, assume necessariamente una dimensione maggiore (in quanto esteso alla intera pretesa tributaria) rispetto a quello del giudizio di primo grado (limitato alla sola parte della pretesa effettivamente contestata), e ciò in quanto viene a gravare sulla Amministrazione finanziaria pregiudicata dall’annullamento “integrale” dall’atto impositivo l’onere di impugnazione anche del capo di sentenza che ha statuito – sebbene in difetto di richiesta delle parti ed in violazione dell’art. 112 c.p.c. – in ordine alla illegittimità dell’atto impositivo (relativamente al rilievo fiscale non contestato dalla contribuente), attesa la idoneità di tale statuizione (comunque incidente sul rapporto tributano) ad acquistare altrimenti efficacia di giudicato (in applicazione de principio di conversione delle nullità processuali in motivi di gravame ex art. 161 co. 1 c.p.c.) quanto all’accertamento negativo dei fatti costitutivi della (intera) pretesa tributaria (cfr. ex pluribus: Corte Cass. V sez. 28.9.2007 n. 20393; id. III sez. 24.5.2011 n. 11382).
Ne consegue che l’accoglimento del motivo di gravame volto ad eliminare la statuizione illegittima di annullamento dell’avviso di accertamento per l’intero importo vantato a titolo di imposta, non consente di qualificare “totale” (come richiesto dalla norma sul condono: cfr. Corte Cass. V sez. 22.10.2010 n. 21697) la soccombenza della Amministrazione finanziaria, in relazione alla impugnazione proposta, dovendo piuttosto ravvisarsi soltanto una soccombenza parziale in considerazione della ritenuta infondatezza, da parte dei Giudici di appello, dell’altro motivo di gravame proposto avverso la statuizione concernente la integrale deducibilità delle somme accantonate a riserva tecnica obbligatoria.
Difetta nella fattispecie, in conclusione, la condizione della “doppia soccombenza – totale – in entrambi i gradi di merito” richiesta per l’accesso alla definizione agevolata della lite.
2. La sentenza di appello ha risolto la controversia avente ad oggetto i rilevi mossi dall’Ufficio alla “integrale” deducibilità dall’imponibile (entro il limite del livello minimo della riserva obbligatoria fissato dal Ministro dell’ICA ai sensi dell’art. 31 co. 4 legge 2.10.1986, n. 742, vigente “ratione temporis” vedi ora art. 36 co. 3 D.Lgs. 7.9.2005 n. 209) delle somme accantonate dalle imprese assicuratrici del ramo vita per “riserve matematiche” obbligatorie, aderendo alle argomentazioni svolte nel precedente di questa Corte V sez. 23.10.2003 n. 15935 (cui hanno dato seguito le sentenze della stessa V sez. 6.11.2006 n. 23656; id. 19.11.2007 n. 23875; id. 9.11.2011 n. 23322; e con diversa prospettiva motivazionale incentrata principalmente sulla esegesi normativa del testo dell’art. 5 co. 1 D.P.R. n. 598/73 e dell’art. 95 D.P.R. n. 917/86, id. 23.4.2007 n. 9608 ) ed agli enunciati principi di diritto, riassunti nella seguente massima del CED: “Le somme accantonate ex lege dalle società di assicurazione per costituire o integrare le riserve matematiche, utilizzando in parte i premi e in parte gli interessi prodotti dagli investimenti obbligatori in titoli ed esenti dall’imposta sul reddito, non possono essere equiparate ai costi o agli altri oneri concorrenti alla orinazione del reddito che, in quanto non esclusivamente afferenti i ricavi imponibili, sono deducibili, ai sensi degli articoli 74, comma secondo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597e 75 comma quinto, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nelle proporzioni previste dai corrispondenti articoli 58 D.P.R. n. 597/1973 e 63 D.P.R. n. 917/86, (cosiddetta pro rata). Tali accantonamenti “sui generis”, rispondendo all’esigenza di rinviare agli esercizi successivi, e quindi detrarre dal reddito, i proventi conseguiti anticipatamente e vincolati alla produzione futura dei costi relativi agli indennizzi assicurativi, configurano ricavi sospesi o differiti che, in quanto tali, vanno identificati come componenti negativi del reddito deducibili interamente nei singoli esercizi in cui vengono contabilizzati fino al limite massimo ammesso dalla legge, indipendentemente dalla loro composizione e dal relativo trattamento fiscale”.
3. La Agenzia ricorrente con l’unico motivo di impugnazione censura la sentenza per violazione degli artt. 2425 c.c., 52, 63, 73, 75, 103 D.P.R. 22.12.1986, n. 917 (TUIR), in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.).
Il motivo riproduce gli stessi argomenti giuridici prospettati in grado di appello con il secondo motivo di gravame, idonei secondo la ricorrente a “superare” anche le argomentazioni dei richiamati precedenti giurisprudenziali della Corte Tali argomenti possono riassumersi nelle seguenti proposizioni assertive:
– le riserve tecniche hanno natura reddituale in quanto sono formate con i premi incassati ed I’ proventi dei loro investimenti: gli accantonamenti vengono iscritti al bilancio alla voce del passivo nel conto economico incidendo pertanto sulla determinazione dell’imponibile quali componenti negativi di reddito;
– le regole fiscali sulla deducibilità dei componenti negativi di reddito sono fissate anche a scopo antielusivo. come è dato desumere dal principio generale (art. 73 co. 4 TUIR) secondo cui “non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente capo”: tuttavia trattandosi, nella specie, di accantonamenti obbligatori ex lege (art. 31 legge n. 742/1986), il Legislatore fiscale ne consente una limitata deducibilità (lino a concorrenza del minimo d’obbligo stabilito con decreto ministeriale) ma pur sempre secondo la disciplina generale prevista dall’art. 75 comma 5 TUIR che distingue tra componenti negativi direttamente correlati alla produzione di beni ed attività di quali derivano ricavi o proventi che confluiscono nella determinazione del reddito imponibile (interamente deducibili), e componenti negativi “indistintamente” riferibili tanto alle predette attività e beni produttivi di reddito imponibile quanto ad altre attività e beni produttivi di redditi invece esenti da tassazione od esclusi dall’imponibile (deducibili solo “pro rata”, e cioè in misura proporzionale “per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare del ricavi e degli altri proventi che concorrono a formare il reddito e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi” e, comunque, solo per la parte “eccedente” l’ammontare complessivo dei ricavi e proventi esenti: art. 75 co. 5 che rinvia all’art. 63 co. 1 e co. 3 TUIR): gli accantonamenti per riserve tecniche infatti – secondo a tesi sviluppata dalla ricorrente – non perderebbero, a causa della prescritta “obbligatorietà”, la loro natura di “costi inerenti” all’esercizio della impresa assicurativa, essendo considerati dalla stessa legge come oneri patrimoniali necessari per consentire l’inizio ed il proseguimento dell’attività imprenditoriale assicurativa;
– poichè gli accantonamenti per riserve matematiche delle imprese assicurataci del ramo vita sono costituiti “indistintamente” dai premi (ricavi derivanti dall’esercizio della attività d’impresa concorrenti alla formazione del reddito imponibile) e da proventi “esenti”, quali quelli derivanti dal prevalente investimento di tali premi in titoli del debito pubblico (appunto, al tempo, considerati “redditi esenti” dalla legislazione fiscale), ne consegue la applicabilità a detti accantonamenti del criterio di deducibilità “pro rata” di cui all’art. 75, co. 5 TUIR, dovendo meramente riconoscersi alla norma dell’art. 103 TUIR una funzione di cautela antielusiva mediante la previsione di un “ulteriore limite” rispetto a quelli già previsti dall’art. 63 TUIR per la deducibilità “pro rata”;
– la funzione di “garanzia dell’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti degli assicurati”, riconosciuta agli accantonamenti obbligatori dal citato precedente della Corte n. 15935/2003 al fine di sottrarre tali poste di bilancio alla ordinaria disciplina dei “costi” di esercizio dettata dall’art. 75 co. 5 TUIR, va disattesa, secondo la Agenzia ricorrente, in quanto anche le somme accantonate sono gestite dalla società – mediante diversificate forme di investimento – per ricavarne utili, e dunque rientrano tra le disponibilità impiegate come costi funzionali alla produzione di reddito nell’attività d’impresa (in tal modo sembrerebbe doversi interpretare il richiamo, contenuto nel ricorso, al precedente della CTC in data 7.5.1998 n. 2394), e ciò troverebbe riscontro nella differente collocazione nelle voci di bilancio delle riserve matematiche obbligatorie, secondo che si tratti di bilancio “finale” di esercizio (in cui le somme accantonate vengono appostate come componenti negativi di reddito) ovvero di esercizio successivo, in cui tali accantonamenti vengono iscritti alla voce “riserva matematica iniziale” che va ad affluire (come componente positivo) nel conto economico tra i “ricavi”.
4. La controricorrente sostiene, al contrario, che l’art. 75 TUIR troverebbe applicazione solo ai “costi inerenti” (a beni e) ad attività connesse con la produzione di ricavi – imponibili od esenti che siano -, sicchè tale nesso eziologico – richiesto dall’art. 75 TUIR – potrebbe ravvisarsi soltanto con riferimento alle spese sostenute per la stipula delle polizze. Con la conseguenza che soltanto le spese necessaire alla stipula dei contratti ed alla riscossione dei premi sarebbero da considerare “inerenti” alla attività d’impresa (in quanto direttamente correlati alla gestione tecnico-assicurativa), mentre l’ulteriore investimento finanziario delle somme (rivenienti dall’incasso dei premi) ed i proventi in tal modo realizzati, non potrebbero in alcun modo essere ricollegati a spese strumentali all’esercizio dell’attività assicurativa in quanto la gestione finanziario – patrimoniale si collocherebbe al di fuori della relazione funzionale tra costi e ricavi inerenti l’attività contrattuale assicurativa.
Secondo la società resistente la relazione di derivazione causale (strumentalità) tra i costi e la produzione di beni ed attività generatori di ricavi (anche esenti) richiesta ai fini della deducibilità dei costi dall’art. 75 TUIR, non potrebbe ritenersi reversibile – come invece sosterrebbe la Agenzia ricorrente affermando che le somme accantonate nella riserva obbligatoria deriverebbero dai ricavi e dai proventi finanziari conseguiti dalla impresa -, non essendo contemplata dalla norma tributaria anche la ipotesi “inversa” della relazione di dipendenza causale tra attività e beni generatori di ricavi (anche esenti) e costi conseguenti alla disponibilità di tali ricavi (nella specie le somme destinate agli “accantonamenti” obbligatori. in quanto corrispondenti all’ammontare – delle prestazioni dovute dalla impresa agli assicurati, calcolate in relazione alla probabilità di accadimento del rischio assicurato).
Anche nella ipotesi in cui dovesse invece ravvisarsi il predetto nesso di derivazione funzionale tra ricavi e costi, rimarrebbe in ogni caso esclusa la violazione della disciplina tributaria della deducibilità “pro rata” dei costi inerenti la produzione di reddito esente, in quanto – secondo la consolidata prassi contabile seguita dalle imprese assicurative del ramo vita – le somme destinate alla riserva obbligatoria e che vengono considerate come “costi”, vengono riportate a nuovo come componenti positivi di reddito e quindi assoggettate a tassazione nell’esercizio successivo.
5. Il motivo di ricorso della Agenzia delle Entrate è infondato.
L’argomento della ricorrente secondo cui gli “accantonamenti” obbligatori (considerati sotto il profilo contabile come “componenti negai ivi” iscritti nel bilancio finale d’esercizio) sarebbero comunque impiegati nell’attività d’impresa per produrre beni ed attività da cui deriva reddito (imponibile od esente) operando in tal modo come spese strumentali alla produzione di ricavi alle quali – ricorrendo i presupposti di legge- deve applicarsi la regola di deduzione dei costi “pro rata”, non introduce alcuna questione nuova rispetto a quelle già esaminate e disattese nei precedenti giurisprudenziali della Corte in quanto:
a) la “generica” riconducibilità degli “accantonamenti” alle componenti negative del conto economico, desumibile dalla disciplina civilistica del bilancio di impresa, non fornisce alcuna dimostrazione della esistenza di una “necessaria specifica correlazione” – rilevante invece ai sensi dell’art. 75 TUIR – tra detti accantonamenti e “determinati” beni o “determinate” attività generatori di ricavi. Ed infatti la circostanza, addotta dalla Agenzia a sostegno della tesi della strumentalità, che in difetto di riserve tecniche la “attività d’impresa non potrebbe essere esercitata, non è dimostrativa di un “costo” inteso nel senso indicato dalla norma tributaria, ma di una condizione legale – di natura patrimoniale – imposta alla impresa assicurabile che “dipende dalla entità patrimoniale delle obbligazioni assunte nei confronti degli assicurati, ma non svolge alcuna funzione economica strumentale rispetto all’assunzione di nuove obbligazioni assicurative, con la conseguenza che l’attività avente ad oggetto la stipula di nuove polizze non può ritenersi “eziologicamente dipendente” dagli accantonamenti, ovvero – il che è a dire – che gli accantonamenti non integrano “costi direttamente correlati” alla produzione dei contratti assicurativi e quindi dei conseguenti ricavi;
b) la tesi sostenuta dalla Agenzia ricorrente non tiene conto della peculiare natura dell’attività della impresa assicurativa, caratterizzata dalla “inversione del ciclo di produzione” (per cui i ricavi – incasso dei premi – precedono cronologicamente i costi – le prestazioni erogale a favore degli assicurati ) in quanto i premi riscossi – da imputarsi contabilmente a ricavi – non concorrono, per l’intero ammontare, a formare il reddito prodotto nel medesimo anno di esercizio in cui sono riscossi, ma al contrario, per la quota che – obbligatoriamente – deve essere temporaneamente accantonata a riserve tecniche e destinata ad assicurare l’adempimento delle obbligazioni assunte (id est: le somme necessarie al pagamento degli indennizzi e dei capitali maturati nel corso dell’esercizio ed anche le somme necessarie ai prevedibili pagamenti futuri calcolati secondo criteri attuariali in relazione alla progressiva probabilità di verificazione dell’evento – rischio considerato in polizza ed alla redditività dei rendimenti ritratti dagli investimenti obbligatori ex art. 32 legge 22.10.1986 n. 742 vigente al tempo), vengono a costituire, sotto il profilo economico, dei “ricavi sospesi” (che possono essere contabilizzati come costi tino alla misura massima stabilita dalla legge: art. 103 comma 1 TUIR): trattasi in sostanza di “ricavi e proventi anticipatamente conseguiti nell’esercizio che andranno a correlarsi con costi di esercizi futuri…… non costituiscono accantonamenti di utili o incrementi patrimoniali, ma riflettono importi destinati fin dall’origine a estinguere debiti equivalenti della società verso gli assicurati (cfr. Corte Cass. V sez. 15935/2003 in motiv. pag. 21). Tale funzione economica, unitamente alla rilevata assenza di una specifica correlazione eziologica tra la riserva tecnica obbligatoria e le attività costituenti esercizio d’impresa, consente di escludere una assimilazione degli accantonamenti ai costi strumentali alla produzione del reddito, sottraendo in conseguenza la “riserva tecnica” obbligatoria alla disciplina dell’art. 75 co. 5 TUIR;
c) il motivo di ricorso omette del tutto di considerare il dato normativo testuale, trascurando di fornire una chiave ermeneutica alternativa rispetto a quella adottata nei precedenti della Corte (in particolare Corte Cass. n. 9608/2007 cit.): l’art. 95 del TUIR, a differenza del precedente art. 5 D.P.R. n. 598/1973, non contiene, infatti, la clausola finale che poneva un controlimite all’operatività del principio di specialità quale criterio risolutore del conflitto tra norme. Ed invero entrambe le norme indicate dispongono che il “reddito imponibile” deve essere determinato alla stregua delle disposizioni che regolano la formazione del reddito d’impresa, “salvo quanto stabilito” da altre disposizioni (rispettivamente: del medesimo decreto n. 598/73; del Titolo II Capo II – società ed enti commerciali – del D.P.R. n. 917/1986, TUIR) da ritenersi, pertanto, “speciali” rispetto alla disciplina normativa generale del reddito d’impresa (D.P.R. n. 597/1973, Tit. V: artt. 52 – 77 TUIR). Tuttavia, mentre l’art. 5 D.P.R. n. 598/1973 poneva un limite alla operatività delle norme speciali, disponendo che restavano fermi “i criteri generali di cui agli artt. 74 e 75 del presente decreto”, diversamente l’art. 95 del TUIR si limita soltanto a prevedere il rapporto di specialità tra le norme di cui agli artt. 95 – 107 (tra cui anche l’art. 103 co. 1 TUIR, che prevede la deducibililà degli accantonamenti relativi alle “riserve tecniche” tino alla misura massima stabilita a norma di legge) e quelle del medesimo TUIR che disciplinano la formazione del reddito di impresa, tra cui sono collocati anche gli artt. 63, 73, 74 e 75, che regolano la deducibilità dei costi e dei componenti negativi dal reddito imponibile, e che, in conseguenza, debbono intendersi derogate dalla norma speciale del l’art. 103 TUIR. Indipendentemente peraltro. dalla interpretazione sistematica delle richiamate norme, occorre osservare che la esegesi dello stesso art. 103 co. 1 TUIR, compiuta alla stregua del criterio ermeneutico letterale, non lascia adito a dubbi, in quanto la stessa norma dispone un inequivoco coordinamento con la disciplina generale dei componenti negativi del reddito d’impresa, laddove stabilisce che nella determinazione del reddito delle imprese assicurative “/sono deducibili, oltre quelli previsti nel capo VI del Titolo I (ndr: artt. 73, 74 e 75), gli accantonamenti destinali a costituire od integrare le riserve tecniche obbligatorie fino alla misura massima stabilita a norma di legge”, dove la locuzione “oltre” (che nella sintassi opera in funzione incrementativa) è volta a ribadire la specialità di tale norma (già prevista dall’art. 95 TUIR) n quanto intesa espressamente a derogare proprio alla disposizione limitativa dell’art. 73 co. 4 TUIR (“non sono ammesse deduzioni per accantonamenti diversi da quelli espressamente considerati dalle disposizioni del presente capo”).
Va dunque esente da censura la sentenza della CTR della Lombardia che si è conformata ai principi di diritto enunciati da questa Corte e da cui il Collegio non intende discostarsi in difetto di nuovi dirimenti argomenti giuridici addotti dalla ricorrente.
6. Il ricorso, in conseguenza, deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio come liquidate in dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte:
– dichiara inammissibile per difetto di legittimazione attiva, il ricorso proposto dal Ministero della Economia e delle Finanze, compensando interamente tra le parti le spese di lite;
– rigetta il ricorso proposto dalla Agenzia delle Entrate che condanna alla rifusione delle spese de presente giudizio liquidate in Euro 10.000,00 per compensi professionali oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 settembre 2012.

Redazione