Illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dall’ufficio non competente (Cass. n. 27128/2013)

Redazione 04/12/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 841/2008 il Giudice del lavoro del Tribunale di Potenza, in parziale accoglimento del ricorso proposto da F.G. in data 8-3-2007 nei confronti dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale San Carlo” di (…), dichiarava l’illegittimità del licenziamento da quest’ultima intimato e condannava la convenuta al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 33.254,88, a titolo di indennità di mancato preavviso, oltre interessi dal dovuto al saldo.
Con il suddetto ricorso il F. , dirigente medico di I livello presso l’U.O. di Ostetricia e Ginecologia del detto Ospedale dal 14-1-2002, aveva esposto: che nel giugno 2005 aveva avanzato all’Ufficio del Personale richiesta di aspettativa per sei mesi (dal 16-7-2005 al 15-1-2006), avendo ricevuto incarico a tempo determinato presso l’Ospedale Cristo Re di *Roma*; che, invitato a riprendere servizio con telegramma del 21-7-2005, egli aveva chiarito la propria posizione con racc. del 27-7-2005, giustificando la domanda per i motivi di studio e aggiornamento scientifico specificati; che, dopo un telegramma di risposta negativa ed un nuovo invito a riprendere servizio, aveva ricevuto comunicazione del diniego dell’aspettativa (per essere l’Ospedale Cristo Re di natura privata – nota del 18-7-2005 -) e della contestazione dell’addebito (nota dell’1-8-2005), con invito a comparire per T8-8-2005 per rispondere di “assenza dal lavoro nonostante il diniego dell’aspettativa; ritardata e telegrafica risposta del 27-7-2005; inconferente e pretestuosa equiparazione dell’Ospedale Cristo Re ad una struttura pubblica; gravità del comportamento; cumulo di impieghi”; che egli era comparso ed aveva presentato memoria difensiva; che in data 19-8-2005 l’azienda aveva comunicato al Comitato dei Garanti di ritenere infondate le difese e chiesto il parere sulla risoluzione del contratto; che in data 19-9-2005 il D.G. C. , nel corso di una riunione con oltre 10 medici, aveva annunciato il suo licenziamento, con notizia giunta alla stampa; che solo successivamente gli era pervenuta comunicazione del dirigente *** con allegato il provvedimento del 7-10-2005 con cui l’Azienda aveva deliberato di recedere dal rapporto.
Tanto premesso, il F. aveva chiesto la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la condanna dell’Azienda convenuta al pagamento delle somme determinate come da conteggi effettuati con riferimento all’intero rapporto (e relativi a festività e ferie non godute, indennità di mancato preavviso, TFR, danni non patrimoniali) oltre al risarcimento dei danni esistenziali.
Con la sentenza di primo grado il giudice adito riteneva che, pur essendo acclarata la legittimità della scelta di risolvere il rapporto, il recesso era viziato sul piano formale, essendo stato irrogato dal Direttore Generale anziché dall’Ufficio Procedimenti Disciplinari (ex art. 55 d.lgs. n. 165/2001), e condannava l’Azienda al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, quantificata dal CTU, respingendo tutte le altre richieste.
Avverso tale sentenza l’Azienda Ospedaliera “Ospedale San Carlo” di (…) proponeva appello chiedendone la riforma con il rigetto integrale della domanda di controparte. Il F. si costituiva chiedendo il rigetto dell’appello principale e proponendo appello incidentale per i seguenti motivi: 1) difetto di rappresentanza in giudizio, difetto di legittimazione passiva in primo grado e attiva in grado d’appello – omessa pronuncia circa la dichiarazione di contumacia – inammissibilità dell’appello; 2) vizio procedimentale – contestazione addebito; 3) illegittimità del diniego dell’aspettativa; 4) vizio di motivazione nella negazione dei danni non patrimoniali, circa diritto riservatezza, licenziamento e mobbing; 5) ferie e festività non godute – vizio di motivazione; 6) divieto di cumulo di interessi e rivalutazione; 7) illegittimità del licenziamento irrogato da organo incompetente – riforma della sentenza sul punto errore formale.
La Corte d’Appello di Potenza, con sentenza depositata il 10-6-2010, in accoglimento dell’appello principale rigettava la domanda proposta dal F. e condannava quest’ultimo a restituire all’Azienda le somme da questa corrisposte in esecuzione della sentenza appellata oltre interessi legali dalla data del pagamento al soddisfo; rigettava altresì l’appello incidentale e condannava il F. al rimborso in favore di controparte di due terzi delle spese del doppio grado, compensandone il residuo terzo.
In sintesi la Corte territoriale, esclusa preliminarmente la sussistenza di alcun vizio di rappresentanza in giudizio dell’azienda e premessa la distinzione tra responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare, affermava che mentre l’art. 55 comma 4 del d.lgs. n. 165 del 2001 è una norma generale e si applica a tutto il personale non dirigenziale, l’art. 21 dello stesso d.lgs. è una norma speciale applicabile solo al ruolo dirigenziale, con la conseguenza che, dovendo farsi riferimento per la responsabilità disciplinare alla disciplina collettiva applicabile ratione temporis, nella fattispecie sussisteva la competenza del Direttore Generale con la sola necessità dell’acquisizione del previo parere del Comitato dei Garanti.
La Corte di merito riteneva inoltre legittimo anche sul piano sostanziale il provvedimento adottato dall’azienda, posto che un giudizio di ingiustificatezza del diniego della stessa giammai avrebbe potuto avere effetti sananti rispetto ad un comportamento tenuto dal dipendente e sostanziatosi in una consapevole sottrazione agli obblighi di prestazione lavorativa, in totale indifferenza rispetto alle determinazioni aziendali (non incidendo peraltro sulla regolarità del procedimento disciplinare la circostanza della contemporanea ricezione da parte del F. sia del diniego dell’aspettativa sia della contestazione dell’addebito) e confermava, infine, il rigetto delle pretese risarcitorie relative all’asserita situazione di mobbing e al dedotto mancato godimento di ferie e festività, in mancanza di relative allegazioni e prove.
Per la cassazione di tale sentenza il F. ha proposto ricorso con sette motivi.
L’Azienda Ospedaliera “Ospedale san Carlo” di (…) ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando difetto di rappresentanza processuale e di jus postulandi, carenza di legittimazione passiva in primo grado ed attiva in appello, con conseguente inammissibilità dell’appello e nullità della sentenza, deduce che l’avv. *************** si è avvalso in appello, come già in prime cure, di un mandato conferitogli con delibera del 11-9-2007, avente il suo presupposto in una delega che il ******** , direttore generale, ebbe a conferire al direttore amministrativo con atto del 10-8-2004, perché lo sostituisse in caso di assenza e di impedimento, ed, invece, azionata per la costituzione nel giudizio di primo grado (comparsa depositata il 29-9-2007), quando il ******** era già dimissionario e l’Azienda era vacante (dal 21-5-2007), in violazione dell’art. 3 bis comma 2 del d.lgs. n. 502/1992 (che prevede la nomina del nuovo direttore generale nel termine perentorio di 60 giorni, scaduto il quale bisogna nominare un commissario ad acta).
In sostanza il ricorrente, come già eccepito davanti ai giudici di merito, ribadisce che l’Azienda ha agito in nome di un direttore generale già dimissionario e perciò non più suo legale rappresentante.
Il motivo è infondato.
Come già rilevato dalla Corte territoriale, il mandato difensivo in favore dell’avv. *************** (a margine della costituzione di primo grado) è stato conferito dal ******** , che rivestiva, in ragione delle intervenute dimissioni del Dott. C. , le funzioni di direttore generale in quanto già individuato ex art. 10, comma, 10 della l.r. n. 1857 del 2004 (giusta delibera della Giunta Regionale n. 758 del 21-5-2007).
La legittimazione del ******** a rappresentare l’Azienda ed a conferire il mandato, in base alla quale la stessa si è costituita in giudizio ed ha proposto appello, ha trovato, quindi, fondamento innanzitutto nell’atto deliberativo della Giunta Regionale prodotto in giudizio.
Del resto, nella fattispecie, neppure poteva trovare applicazione l’art. 3 bis del d.lgs. n. 502/1992 (invocato in questa sede dal F. ), riferendosi tale norma alla ipotesi di vacanza dell’ufficio, mentre nel caso in esame la Giunta Regionale aveva immediatamente disposto, con la citata delibera, l’attribuzione delle funzioni di Direttore Generale al Dott. R..G. , già direttore amministrativo, senza soluzione di continuità e fino a nuova nomina.
Con il secondo motivo il ricorrente censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto di accogliere la tesi dell’Azienda circa la non applicabilità ai dirigenti della disposizione di cui all’art. 55 comma 4 del d.lgs. n. 165/200, e, posto che mentre tale disposizione “è una norma generale e si applica a tutto il personale non dirigenziale”, l’art. 21 dello stesso d.lgs. “è una norma speciale applicabile solo al ruolo dirigenziale”, ha affermato che “in sostanza, se può ipotizzarsi come legittimo che la contrattazione collettiva relativa ai dirigenti preveda, per l’ipotesi di responsabilità disciplinare, la stessa procedura prevista per i dipendenti del citato art. 55 co. 4, non è di contro, illegittimo che, nella medesima sede, si preveda una disciplina diversa, prescindendo dalla previsioni di cui al citato art. 55 co. 4”.
Al riguardo il ricorrente deduce che, fatta salva l’applicazione del citato art. 21 per l’ipotesi di “responsabilità dirigenziale”, a tutti i procedimenti disciplinari concernenti la “responsabilità disciplinare” di cui all’art. 55, doveva applicarsi, anche per i dirigenti, la relativa disciplina di legge, inderogabile da parte della contrattazione collettiva, in relazione alla competenza dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari (u.c.p.d.).
Il motivo è fondato come di seguito.
Innanzitutto va precisato che nella fattispecie deve farsi riferimento alla disciplina di legge dell’epoca (artt. 21 e 55 d.lgs. 165/2001, nel testo vigente nel periodo luglio/ottobre 2005, anteriore alle modifiche successive ed in specie alla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2009).
L’art. 55 così disponeva: “Sanzioni disciplinari e responsabilità (Art. 59 del d.lgs. n.29 del 1993, come sostituito dall’art. 27 del d.lgs. n.546 del 1993 e successivamente modificato dall’art.2 del decreto legge n.361 del 1995, convertito con modificazioni dalla legge n.437 del 1995, nonché dall’art.27, comma 2 e dall’art.45, comma 16 del d.lgs n.80 del 1998).
1. Per i dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, resta ferma la disciplina attualmente vigente in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
2. Ai dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, si applicano l’articolo 2106 del codice civile e l’articolo 7, commi primo, quinto e ottavo, della legge 20 maggio 1970, n. 300.
3. Salvo quanto previsto dagli articoli 21 e 53, comma 1, e ferma restando la definizione dei doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento di cui all’articolo 54, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi.
4. Ciascuna amministrazione, secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari. Tale ufficio, su segnalazione del capo della struttura in cui il dipendente lavora, contesta l’addebito al dipendente medesimo, istruisce il procedimento disciplinare e applica la sanzione. Quando le sanzioni da applicare siano rimprovero verbale e censura, il capo della struttura in cui il dipendente lavora provvede direttamente.
L’Art. 21, dal canto suo, all’epoca così stabiliva:
“Responsabilità’ dirigenziale (Art. 21, commi 1, 2 e 5 del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituiti prima dall’art. 12 del d.lgs. n. 546 del 1993 e poi dall’art. 14 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente modificati dall’art. 7 del d.lgs. n. 387 del 1998).
1. Il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286, comportano, ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può, inoltre, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo…..” (comma così sostituito dall’art. 3, comma 2, lettera a) della legge n. 145 del 2002, poi ulteriormente sostituito nel 2009).
Con riferimento, quindi, a tale disciplina vigente ratione temporis, nella “responsabilità disciplinare”, scaturente in generale dalla violazione dei doveri del dipendente pubblico privatizzato è competente (salvo che per il rimprovero verbale e la censura) l’u.c.p.d. e la “tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”, mentre per la “responsabilità dirigenziale”, caratterizzata dal “mancato raggiungimento degli obiettivi” ovvero “dall’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente”, l’amministrazione “può recedere dal rapporto secondo le disposizioni del contratto collettivo” (e i provvedimenti di cui all’art. 21, comma 1, “sono adottati previo conforme parere di un comitato di garanti” – v. successivo art. 22-).
La differenza intrinseca tra le due responsabilità si riflette quindi sulla competenza, sulla disciplina relativa al procedimento e alle sanzioni e sull’ambito del ruolo della contrattazione collettiva.
Orbene, come è stato affermato da questa Corte, “in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 59, quarto comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, trasfuso nell’art. 55 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari (u.c.p.d.), il quale è anche l’organo competente alla irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura. Ne consegue che il procedimento instaurato da un soggetto o organo diverso dal predetto ufficio, anche se questo non sia ancora stato istituito, è illegittimo e la sanzione irrogata è, in tale caso, affetta da nullità, risolvendosi in un provvedimento adottato in violazione di norme di legge inderogabili sulla competenza; né la previsione legislativa è suscettibile di deroga ad opera della contrattazione collettiva, sia per l’operatività del principio gerarchico delle fonti, sia perché il terzo comma dell’art. 59 cit. attribuisce alla contrattazione collettiva solo la possibilità di definire la tipologia e l’entità delle sanzioni e non anche quella di individuare il soggetto competente alla gestione di ogni fase del procedimento disciplinare.” (v. Cass. 5-2-2004 n. 2168, in una fattispecie riguardante proprio un licenziamento di un dirigente sanitario di primo livello; nello stesso senso v. anche Cass. 30-9-2009 n. 20981, in una fattispecie di licenziamento di direttore generale di un Comune).
Nel contempo questa Corte ha anche precisato che “nel pubblico impiego contrattualizzato, trova applicazione anche con riferimento alla dirigenza sanitaria il principio di cui all’art. 55 del d.lgs. 165 del 2001, secondo il quale tutte le fasi del procedimento disciplinare sono svolte esclusivamente dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, il quale è anche l’organo competente all’irrogazione delle sanzioni disciplinari, ad eccezione del rimprovero verbale e della censura, con la conseguenza che il procedimento instaurato da un soggetto diverso al predetto ufficio è illegittimo e la sanzione è affetta da nullità, restando altresì escluso l’intervento nel procedimento del comitato dei garanti, che è previsto per il diverso caso della responsabilità dirigenziale” (v. Cass. 17-6-2010 n. 14628). Del resto proprio in base alla diversità della natura intrinseca della responsabilità disciplinare (che concerne le condotte realizzate in violazione di singoli doveri) rispetto alla natura intrinseca della responsabilità dirigenziale (che riguarda le sole ipotesi di responsabilità gestionale per il mancato raggiungimento degli obbiettivi nell’attività amministrativa e di grave inosservanza delle direttive impartite dall’organo competente a ciò preposto), è stata da questa Corte affermata la necessità del previo conforme parere del comitato dei garanti (v. Cass. 8-4-2010 n. 8329, Cass. n. 14628/2010 cit, Cass. 14-9-2011 n. 18769, cfr. già Cass. 2-2-2007 n. 3929).
Tali principi vanno qui riaffermati, precisandosi (sempre con riferimento alla normativa nella fattispecie applicabile ratione temporis) che allorquando l’amministrazione fa valere ragioni intrinseche di responsabilità disciplinare e non di responsabilità dirigenziale, anche per i dirigenti non può che trovare applicazione la disciplina generale di cui all’art. 55 del d.lgs. n. 165 del 2001 (nel testo all’epoca vigente) e non anche quella di cui all’art. 21 dello stesso d.lgs..
Orbene la sentenza impugnata, pur rilevando che “nello specifico, la contestazione di addebito (consistente nella violazione dello specifico dovere di rendere la prestazione – ingiustificata e protratta assenza dal lavoro -, nella manifesta insubordinazione, nell’essersi il F. consapevolmente posto in una posizione di incompatibilità) ha un contenuto evidentemente disciplinare”, disapplicando in concreto i suddetti principi e con un evidente salto logico, ha affermato che “ai sensi dunque, di quanto previsto dal citato art. 21 occorre far riferimento, per tale tipo di responsabilità alla disciplina contenuta nel contratto collettivo” ed ha ritenuto inapplicabile l’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001, non evincendosi nel contratto stesso alcun richiamo a tale procedura.
A tale riguardo va rilevato che la ratio sottesa al citato art. 55 vada individuata nell’esigenza di assoggettare ai medesimi organi disciplinari l’esame della condotta di tutti coloro – e quindi anche dei dirigenti – cui vengono contestati addebiti che, in ragione della natura subordinata del loro rapporto lavorativo, configurano un inadempimento agli obblighi scaturenti da detti rapporti, con esclusione quindi di quelle condotte che necessitano invece di giudizi che richiedono differenti criteri valutativi per avere ad oggetto non la configurabilità della responsabilità disciplinare dei dirigenti ma la responsabilità scaturente da un esercizio dei loro poteri del tutto inadeguato rispetto alla rilevanza delle funzioni ad essi attribuite.
In tali sensi va quindi accolto il secondo motivo, restando assorbiti tutti gli altri motivi, riguardanti questioni successive in ordine logico (ed in specie il terzo e il quarto profili ulteriori di illegittimità del licenziamento e il quinto, il sesto e il settimo questioni comunque in qualche modo consequenziali.
L’impugnata sentenza va pertanto cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, la quale provvederà attenendosi ai principi sopra riaffermati, statuendo anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, assorbiti gli altri, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli.

Redazione