Illegittimità dell’atto impositivo: il risarcimento non è automatico (Cass. n. 6283/2012)

Redazione 20/04/12
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Svolgimento del processo

1 – Con sentenza in data 25 marzo 8 settembre 2006 il Giudice di Pace di ***** accolse la domanda proposta da C.E. e condannò l’Agenzia delle Entrate al risarcimento del danno conseguente alla ritardata ammissione della erroneità della richiesta di pagamento di imposte e del conseguente provvedimento di sgravio.
2 – Con sentenza in data 17 febbraio – 12 novembre 2009 il Tribunale di Patti accolse il gravame della Agenzia delle Entrate e rigettò la domanda della C.
Il Tribunale osservò per quanto interessa: il contribuente aveva domandato i danni causati dall’operato della pubblica amministrazione, che prima aveva richiesto un tributo non dovuto e poi aveva provveduto con ritardo allo, sgravio; la responsabilità della pubblica amministrazione per aver richiesto un tributo non dovuto non è in re ipsa, ma occorre accertare che essa non si sia attenuta ai criteri di imparzialità, correttezza e buona fede; dagli atti non emergeva che la P.A. fosse a piena conoscenza della situazione patrimoniale del contribuente e che, comunque, l’errore commesso fosse imputabile a dolo o colpa; solo successivamente il contribuente aveva offerto documentazione valutata positivamente ai fini dello sgravio; non sussisteva colpa per il ritardo nell’emissione di tale provvedimento poiché i termini per impugnare l’avviso di accertamento erano scaduti e lo sgravio era meramente facoltativo; peraltro il denunciato ritardo non era neppure configurabile non essendo previsto alcun termine al riguardo.
3 – Avverso la suddetta sentenza la parte soccombente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

 

Motivi della decisione

1.1 – Il primo motivo rappresenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. Si assume, sotto un primo profilo, che il Tribunale non avrebbe dovuto stabilire se sussistesse o meno una colpa sufficientemente grave in relazione al tempo trascorso prima dell’annullamento dell’atto, ma se la P.A. possa essere ritenuta responsabile per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo, nell’esercizio del potere di autotutela, ove tale comportamento abbia arrecato danno al privato.
1.2 – La censura è infondata poiché sostanzialmente postula che venga riconosciuta una responsabilità in re ipsa in difformità dell’orientamento costante di questa Corte (art. 360-bis n. 1 c.p.c.).
Infatti è ormai certo (confronta, ex plurimis, la recente Cass. n. 19458 del 2011) che l’Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell’adottare l’atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione.
Pertanto non è sufficiente l’obiettiva illegittimità del comportamento della P.A. (nel caso di specie della pretesa tributaria), ma occorre che tale illegittimità sia connotata da un quid pluris, che viene identificato nella violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Del resto, tutte le volte che l’azione giudiziaria viene basata sull’art. 2043 c.c. occorre necessariamente verificare non solo che la condotta abbia cagionato l’evento e che si sia verificato un danno – conseguenza, ma anche che essa sia qualificata dall’elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Questa stessa sezione ha avuto modo di affermare (Cass. n. 22508 del 2011) che, in tema di responsabilità civile della P.A., l’ingiustizia del danno non può considerarsi in “re ipsa” nella sola illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa o pubblica in generale, dovendo, invece, il giudice procedere, in ordine successivo, anche ad accertare se: a) sussista un evento dannoso; b) l’accertato danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su di un interesse rilevante per l’ordinamento (a prescindere dalla qualificazione formale di esso come diritto soggettivo); c) l’evento dannoso sia riferibile, sotto il profilo causale, facendo applicazione dei criteri generali, ad una condotta della P.A.; d) l’evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., sulla base non solo del dato obiettivo dell’illegittimità del provvedimento, ma anche del requisito soggettivo del dolo o della colpa.
La questione che ha originato il ricorso è già stata ripetutamente indagata da questa Corte, il cui orientamento è ormai consolidato nel ritenere (confronta, per tutte, Cass. Sez. III, n. 5120 del 2011) che l’attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti della legge e dal principio primario del “neminem laedere”, di cui all’art. 2043 c.c.; è, pertanto, consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della stessa P.A., un comportamento doloso o colposo, che, in violazione della norma e del principio indicati abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., la P.A. è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., ponendosi tali principi come limiti esterni alla sua attività discrezionale.
Orbene, la sentenza impugnata è conforme a tale orientamento, atteso che il Tribunale ha testualmente affermato che “nel semplice fatto di avere richiesto un tributo non dovuto dal contribuente la responsabilità non è in re ipsa, deve accertarsi se l’Agenzia delle entrate non si è attenuta ai criteri di imparzialità, correttezza e buona amministrazione”.
2.1 – Merita, tuttavia, di essere corretta l’affermazione del Tribunale circa il carattere facoltativo dello sgravio in sede di autotutela, poiché essa contrasta con il sopra enunciato (peraltro riconosciuto anche dalla sentenza impugnata) dovere della P.A. di conformarsi alle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
È evidente che le predette regole impongono alla P.A., una volta informata dell’errore in cui è incorsa, di compiere le necessarie verifiche e poi, accertato l’errore, di annullare il provvedimento riconosciuto illegittimo o, comunque, errato. Non vi è, dunque, spazio alla mera discrezionalità poiché essa verrebbe necessariamente a sconfinare nell’arbitrio, in palese contrasto con l’imparzialità, correttezza e buona amministrazione che sempre debbono informare l’attività dei funzionari pubblici.
Questo principio vale anche allorché il contribuente – compiendo una scelta di strategia difensiva il cui esito eventualmente negativo non può che imputare a se stesso – abbia lasciato scadere il termine utile per impugnare il provvedimento avanti alla Commissione Tributaria, giudice competente ad accertarne l’illegittimità e, quindi, sia stato costretto ad affidarsi all’autotutela della P.A..
L’errore in cui è incorso il Tribunale non comporta l’annullamento della sentenza, ma soltanto la correzione della sua motivazione, in quanto in concreto l’Agenzia delle Entrate ha emesso il provvedimento di sgravio.
2.2 – La sentenza impugnata non può essere condivisa neppure allorché dichiara non configurabile il ritardo nell’emissione del provvedimento in autotutela a seguito della mancanza di un termine normativamente stabilito. L’obbligo per la P.A. di agire nel rispetto delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione impone il riconoscimento in tempi ragionevoli del diritto del contribuente, anche quando, come rilevato dal Tribunale, non sia previsto uno specifico termine per l’adempimento. Spetta, dunque, al giudice di merito stabilire, volta per volta e considerando la situazione concreta (ad esempio: il numero di “pratiche” cui l’ufficio deve far fronte, la loro trattazione in ordine cronologico, il grado di complessità dell’accertamento, ecc.) se il tempo impiegato dalla P.A. sia o meno rispettoso delle regole indicate.
2.3 – L’incidenza nella specie di tale errore va riscontrata con riferimento alla presenza, a causa del ritardo, di un danno ingiusto imputabile alla P.A., che, comportandone il risarcimento, sarebbe idoneo a configurare l’indispensabile interesse processuale di parte ricorrente. Ciò in quanto il Tribunale, valutando il fatto, non ha ravvisato elementi di colpa nella mera emissione del provvedimento impositivo poi annullato in autotutela a seguito del ricorso presentato dal commercialista incaricato dal contribuente, che aveva, dunque, sopportato il conseguente esborso. In primo grado il contribuente aveva chiesto e ottenuto dal Giudice di Pace la condanna dell’amministrazione a rimborsare la somma corrisposta al commercialista cui si era dovuto rivolgere e a risarcire il danno esistenziale.
2.4 – La configurabilità del danno esistenziale si pone in evidente contrasto con l’orientamento, ormai consolidato dopo e per effetto della nota sentenza delle Sezioni Unite n. 27972 del 2008, la quale ha sancito il principio della inammissibilità nel nostro ordinamento dell’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che – ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato – essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione.
In definitiva, il danno c.d. esistenziale non costituisce voce autonomamente risarcibile, ma è solo un aspetto dei danni non patrimoniali di cui il giudice deve tenere conto nell’adeguare la liquidazione alle peculiarità del caso concreto in caso di lesione di un diritto fondamentale della persona.
Nelle ipotesi come quella di specie è appunto da escludere che sia stato leso un diritto fondamentale della persona.
2.5 – Resta da esaminare se le spese per l’onorario del commercialista integrino il danno ingiusto, che è risarcibile.
Come riferito dalla sentenza impugnata, in sede di merito l’Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che le spese per il professionista sono inerenti al diritto di difesa attribuito dalla legge al contribuente nell’ambito del fisiologico svolgimento del procedimento di accertamento della pretesa tributaria.
Questa impostazione non è totalmente condivisa dalla giurisprudenza della Corte, la quale ha ripetutamente affermato (confronta, per tutte, Cass. Sez. III, n. 10191 del 2007) che la risarcibilità delle spese per la difesa non può essere aprioristicamente esclusa. Tuttavia occorre pur sempre un comportamento della P.A. censurabile sotto gli indicati profili.
La questione non si pone tutte le volte in cui il contribuente abbia proposto ricorso avanti alla Commissione Tributaria, poiché sarà quel giudice a stabilire se e in quale misura le spese sostenute debbano essere rimborsate.
Essa si presenta quando il contribuente, anziché ricorrere in sede giurisdizionale, si sia affidato all’autotutela da parte della P.A..
La soluzione discende dai principi sopra ribaditi. La condanna della P.A..
non può essere pronunciata sulla base della allegazione della mera illegittimità dell’atto, ma presuppone che sia accertata la violazione delle ripetutamente richiamate regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione.
La relativa valutazione non può che essere demandata al giudice di merito, il quale decide applicando i principi in tema di onere probatorio posti dall’art. 2697 c.c..
Quindi, se invoca l’art. 2043 c.c. per lamentare il ritardo con cui la P.A. ha esercitato l’autotutela, il contribuente, una volta che sia stata negata l’ingiustizia del provvedimento poi annullato, deve dimostrare il danno che tale ritardo gli ha cagionato e che invece non si sarebbe verificato ove il provvedimento della P.A. fosse stato tempestivo.
Ma il ricorso in esame non prospetta argomentazioni idonee al riguardo e, anzi, in esso si afferma esplicitamente che “il Tribunale di Patti non doveva stabilire se nella fattispecie sussistesse o meno una colpa sufficientemente grave, in relazione al tempo trascorso prima dell’annullamento dell’atto” per cui non occorrono ulteriori apprezzamenti di fatto da demandare al giudice di merito.
3.1 – Il primo motivo di ricorso sottopone all’esame della Corte una seconda questione: il Tribunale ha errato ad escludere la responsabilità della P.A. Si sostiene che l’Agenzia delle Entrate fosse in grado di accertare che non vi era stato un omesso versamento di imposte, non essendovi difficoltà interpretative del quadro normativo né particolari complessità fattuali, per cui non avrebbe dovuto neppure emettere l’avviso di accertamento.
3.2 – Questa seconda censura è manifestamente infondata poiché rende indispensabili esame degli atti e apprezzamenti di fatto, cioè attività di esclusiva pertinenza del giudice di merito e non sindacabili in sede di legittimità, tanto meno sotto il profilo della violazione di una norma di diritto (il solo prospettato nel motivo in esame).
È agevole rilevare che, ai fini dell’affermazione della responsabilità che da luogo al diritto al risarcimento del danno, il rispetto o meno del dovere di diligenza da parte della P.A. non può essere affermato in base a considerazioni di carattere astratto ma implica la valutazione delle implicazioni specifiche e delle peculiarità dei singoli casi concreti. Il Tribunale ha spiegato che solo successivamente è stata allegata una documentazione che ha consentito alla P.A. di accertare una situazione diversa da quella originariamente ipotizzata e, quindi, idonea a riconoscere lo sgravio. Ciò viene contestato nel ricorso ma la censura non è inquadrabile nella denunciata violazione dell’art. 2043 c.c., attiene al merito e non può formare oggetto del sindacato di legittimità.
4.1 – Il secondo motivo lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Le argomentazioni addotte stigmatizzano, appunto, le affermazioni del Tribunale circa la pregressa non conoscenza (e non conoscibilità) da parte dell’Agenzia delle Entrate della situazione patrimoniale del contribuente.
4.2 – Il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorché dalla lettura della sentenza non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice. (Cass. n. 8106 del 2006).
Il difetto di insufficienza della motivazione è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese e alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione; in ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 2272 del 2007).
Le argomentazioni, peraltro assolutamente generiche e già per questo inammissibili, poste a corredo della censura non dimostrano né l’uno, né l’atro profilo del vizio di motivazione, ma sostanzialmente ne criticano il contenuto decisionale, postulandone uno diverso e più favorevole.
5 – Pertanto il ricorso va rigettato. La complessità e particolarità della controversia suggerisce di compensare le spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Redazione