Illegittimità del provvedimento espulsivo per giusta causa inflitto al lavoratore per abbandono del posto di lavoro (Cass. n. 4197/2013)

Redazione 20/02/13
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Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Potenza, riformando della sentenza di primo grado, ed in parziale accoglimento della domanda di D.N. U., proposta nei confronti della società cooperativa C.O.M., dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa e condannava la predetta società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso sino a quella della scadenza del contratto di apprendistato.

La Corte del merito,per quello che interessa in questa sede, rilevava, preliminarmente, che il giudice di primo grado, relativamente alla copia fotostatica dell’atto di dimissioni prodotta in giudizio dalla società, aveva erroneamente applicato la disciplina di cui all’art. 2702 c.c. e non quella, invece, prevista dall’art. 2719. Pertanto, secondo la Corte del merito, non poteva il suddetto documento, stante il disconoscimento da parte del D. N. – il quale ne aveva contestato la conformità all’originale – e la mancanza di elementi anche presuntivi deponenti nel seno della conformità, avere il valore di prova.

Riteneva, poi, la Corte del merito che il contestato abbandono del posto di lavoro non era ingiustificato in quanto dal certificato, rilasciato dal locale presidio ospedaliero, risultava che il D. N. era ricorso alle cure mediche per la rimozione di corpo estraneo corneale all’occhio sx così risultando “confermata la sua ricostruzione dei fatti in ordine ai verificarsi di un infortunio all’occhio sul posto di lavoro, causa dell’allontanamento”.

Reputava, inoltre, la Corte territoriale che il licenziamento irrogato risultava proporzionato “in considerazione del fatto che la condotta fu posta in essere in una condizione di emergenza, non era stata preceduta da altre contestazioni, era stata in qualche modo segnalata al diretto superiore, non aveva determinato l’interruzione del ciclo produttivo, ma soprattutto non era stata foriera di danno o anche solo di pericolo alle cose o alle persone”. Nè la Corte potentina mancava di sottolineare che il regolamento di disciplina adottato dall’azienda prevedeva il licenziamento in tronco nel caso d’ingiustificata interruzione o sospensione della prestazione lavorativa con abbandono del posto di lavoro ovvero qualsiasi altra azione che provochi pregiudizio o pericolo per persone o beni aziendali” e nella specie, osservava la predetta Corte, nessuna conseguenza era derivata dall’abbandono, come confermato dalle dichiarazioni testimoniali. Del resto, l’uso di espressioni sconvenienti, mai giustificabile, sottolineava la Corte territoriale, doveva essere ricondotto ad una situazione di emergenza di modo che rimaneva la sola condotta di abbandono del posto di lavoro alla quale lo stesso datore non riconnetteva alcuna efficacia lesiva.

Avverso questa sentenza la società in epigrafe ricorre in cassazione sulla base di sei censure.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Motivi della decisione

Con la prima censura la società, deducendo violazione dell’art. 2909 c.c., formula, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito: “se incorra nella violazione di tale disposizione la pronuncia giurisdizionale che affronti nuovamente il tema deciso, non avvedendosi del giudicato formatosi sulla statuizione resa dal Tribunale di Melfi”.

Sostanzialmente la società ricorrente deduce che il giudice di appello si è pronunciato su di una questione – quella relativa alla applicabilità, riguardo al documento prodotto in copia, della disciplina di cui all’art. 2702 c.c. – che non gli era stata devoluta con l’impugnazione violando cosi il giudicato interno formatosi a seguito della statuizione adottata dal giudice di primo grado sulla medesima questione.

La censura è infondata.

La Corte del merito interpretando l’atto di appello e, quindi, accertando il devolutum, precisa che “la censura si incentra sulla erronea applicazione alla fattispecie dell’art. 2702 c.c. in luogo dell’art. 2179 c.c.”.

A fronte di tale accertamento a società ricorrente per correttamente investire questa Corte dell’avvenuto formarsi del giudicato sul punto in questione avrebbe dovuto censurare la interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell’atto di appello e non limitarsi a dedurre la violazione dell’art. 2099 c.c. sul presupposto che la questione non era stata oggetto di motivo di appello.

Secondo questa Corte, infatti, l’interpretazione della domanda e l’apprezzamento della sua ampiezza, oltre che del suo contenuto, costituiscono, anche nel giudizio di appello, ai fini della individuazione del devolutum, un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo dell’esistenza, sufficienza e logicità della motivazione (Cfr. Cass. 6 ottobre 2005 n. 19475 e Cass. 6 febbraio 2006 n. 2467, nonchè in particolare Cass. 12 ottobre 1998 n. 10101 – seguita da Cass. 25 settembre 2002 n. 13945 – la quale ha precisato che il sindacato su tale operazione interpretativa, in quanto non riferibile ad un vizio in procedendo, è consentito alla Corte di cassazione nei limiti istituzionali del giudizio di legittimità).

Con il secondo motivo parte ricorrente, allegando violazione degli artt. 2702 e 2719 c.c. nonchè 215 c.p.c., formula il seguente interpello: “se per contestare il contenuto di una scrittura privata acquisita in copia in giudizio, la cui sottoscrizione è stata espressamente riconosciuta come propria dalla parte contro cui era stata prodotta è necessario produrre querela di falso”. La censura è infondata. Nella specie, è bene precisare, come emerge dall’accertamento condotto sul punto dalla Corte di Appello,che il D.N., pur non avendo contestato la sottoscrizione dell’atto prodotto in copia fotostatica, ha disconosciuto la conformità all’originale.

Siffatto disconoscimento, a prescindere dall’avvenuto o meno disconoscimento della sottoscrizione,qualora non si tratti di copia la cui autenticità sia attestata da pubblico ufficiale, come nella specie, vale di per sè ad escludere che la copia abbia la stessa efficacia dell’originale, sottraendola in tal modo alla disciplina di cui all’art. 2702 c.c.. (v. Cass. 1831/01, 5461/06, 28026/09).

Con la terza critica la società ricorrente, allegando motivazione carente e contraddittoria, assume che la Corte del merito non ha valutato, ai fini dell’art. 2719 c.c., le dichiarazioni dei testi C. e Z. dalle quali si desume che il D.N. aveva volontariamente abbandonato il posto di lavoro.

Con il quarto motivo la società ricorrente, deducendo motivazione carente e contraddittoria,prospetta che la Corte di Appello ha omesso di prendere in considerazione la diversa ricostruzione operata dal giudice di primo grado e, quindi, non ha valutato gli elementi istruttori su cui siffatta ricostruzione si basava.

Con la quinta censura la società ricorrente, denunciando motivazione carente e contraddittoria, rileva che la Corte del merito non ha tenuto conto, ai fini del giudizio di proporzionalità, di tutti gii addebiti posti a base del licenziamento.

Con la sesta critica la società ricorrente, allegando ancora motivazione carente e contraddittoria, lamenta che la Corte territoriale ha preso in considerazione, ai fini del giudizio di proporzionalità, la tenuità del danno causato non considerando l’irrilevanza di tale elemento e la rilevanza, invece, di un comportamento idoneo a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento.

Le censure, che in quanto strettamente connesse dal punto di vista logico giuridico vanno trattate unitariamente, sono infondate.

Innanzitutto è opportuno, preliminarmente, ribadire che al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, il giudice del merito non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte “e argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. 25 maggio 1995 n. 5748).

Parallelamente va riaffermato che al giudice del merito spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge), mentre al giudice di legittimità non è conferito il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito (Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e 27 luglio 2008 n. 2049).E nella stessa ottica i giudici di legittimità hanno, altresì, precisato che – nel caso in cui nel ricorso per cassazione venga prospettato come vizio di motivazione della sentenza una insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento, operato dal giudice di merito, di un fatto principale della controversia, il ricorrente non può limitarsi a prospettare una possibilità o anche una probabilità di una spiegazione logica alternativa, essendo invece necessario che tale spiegazione logica alternativa del fatto appaia come l’unica possibile (cfr. in tali sensi Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267 e 27 luglio 2008 n. 20499).

Inoltre va ribadito che, in tema di motivazione della sentenza del giudice di appello ed al fine della valutazione di congruità nel rispetto del combinato disposto dell’art. 132 c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., commi 1 e 2, è sufficiente il riferimento alle ragioni in fatto ed in diritto ritenute idonee a giustificare la soluzione adottata, tenuto conto dei motivi esposti con l’atto di appello avverso la sentenza, di segno opposto, resa dal primo giudice, non essendo necessaria altresì la compiuta esposizione della motivazione data dal medesimo primo giudice e l’esplicita esternazione delle ragioni del dissenso da quella motivazione, poichè tale dissenso risulta implicitamente dal confronto tra le due sentenze (Cass. 17 giugno 2003 n. 9670 e Cass. 26 febbraio 1998 n. 2078 e nello stesso senso stanzialmente Cass. 22 dicembre 2005 n. 2847).

Alla luce di siffatti principi e del tutto destituita dr fondamento la terza censura con la quale si sostiene che la Corte del merito, nel valutare le circostanze di causa ai fini dell’accertamento della conformità della copia del documento all’originale, non ha considerato le dichiarazioni dei testi C. e Z..

Infatti la Corte di Appello valuta le dichiarazioni rese dai testi, ma le considera, secondo il suo apprezzamento, inidonee a fornire anche presuntivamente prova della conformità in questione.

Con la critica in esame, sostanzialmente, la società ricorrente, quindi, mira ad ottenere da questa Corte un riesame delle emergenze istruttorie, ma tanto non è consentito nel nostro ordinamento processuale.

Altrettanto infondata è la quarta censura,con la quale la società deduce che la Corte di Appello ha omesso di prendere in esame la diversa ricostruzione operata dal giudice di primo grado. Infatti, come sottolineato, non è necessario che il giudice di secondo grado esterni le ragioni del dissenso dalla ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado; atteso che tale dissenso risulta implicitamente dal confronto tra le due sentenze.

Del resto, è lo si è rilevato, spetta al giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le tonti del proprio convincimento.

La quinta censura, con la quale si denuncia che la Corte del merito non ha valutato tutti gli addebiti posti a base del licenziamento, e parimente infondata.

In proposito è sufficiente annotare che la Corte potentina, diversamente da quanto sostenuto dalla società, accerta che si è trattato di un infortunio sul lavoro – quindi ritiene del tutto indimostrati gli addebiti che si riferiscono alla non veridicità di tale infortunio – e considera l’uso di espressioni sconvenienti come giustificato dallo stato di emergenza, sì che residua, di tutte le contestazioni mosse al D.N., solo quella concernente l’allontanamento dal posto di lavoro.

La critica, pertanto, si risolve anche in questo caso, a fronte di una motivazione congrua e logica,nella inammissibile richiesta di un riesame delle risultanze probatorie.

L’ultima censura, relativa al giudizio di proporzionalità, non può essere accolta perchè la Corte del merito, nel valutare la proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato, tiene anche conto della disciplina pattizia aziendale che fa riferimento, ai fini della non giustificatezza del comportamento del lavoratore, ai pregiudizio o pericolo per persone o beni aziendali che possono derivare dal detto comportamento.

Nè la Corte del merito oblitera il principio secondo il quale il licenziamento è giustificato quando vi è un comportamento tale da far venir meno la fiducia nell’esattezza delle future prestazioni, solo che relaziona, correttamente, siffatto principio alla valutazione che fatta in sede di disciplina contrattuale, dalle parti sociali, le quali hanno ritenuto che il licenziamento è giustificato solo se collegato ad un inadempimento determinante pregiudizio o pericolo per persone o beni aziendali.

Nè vi è censura sull’interpretazione fornita dalla Corte di Appello della detta disciplina pattizia.

Per concludere la sentenza impugnata – per risultare fondata su una motivazione congrua, priva di salti logici e corretta sul versante giuridico – va confermata non potendo incidere su di essa le censure che, per i motivi esposti, non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità.

Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso, pertanto, va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Redazione