Illegittimità del licenziamento e possibilità di reimpiego dei lavoratori (Cass. n. 4653/2013)

Redazione 25/02/13
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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Napoli, i ricorrenti di cui all’epigrafe esponevano che, quali operai specializzati, iniziarono a lavorare per l’ARIN, anche se formalmente prima alle dipendenze della DPR Costruzioni s.p.a., dal 15 novembre 1999 sino al settembre 2000, e successivamente della Coop. ******* a r.l., soggetti appaltatori dei lavori edili relativi alla manutenzione ordinaria e straordinaria nonchè al potenziamento della rete idrica ARIN; che i lavori furono effettuati utilizzando prevalentemente materiali ed apparecchiature fornite dall’ARIN, il cui personale era all’epoca assolutamente carente.

Deducevano di aver ricevuto direttive unicamente dai dipendenti ARIN, limitandosi le ditte appaltatrici a fornire manodopera nonchè minime attrezzature. Che la DPR Costruzioni li aveva licenziati per cessazione dell’attività, sicchè chiedevano, previa declaratoria dell’interposizione fittizia di manodopera ex L. n. 1369 del 1960, e comunque l’illegittimità del licenziamento, la sussistenza dell’esistenza di un rapporto di lavo subordinato con la ARIN dal 15 novembre 1999, con ordine di reintegra ex art. 18 S.L., e condanna di quest’ultima al pagamento delle relative differenze retributive, da quantificarsi in separata sede, od in subordine dichiararsi l’ARIN solidalmente responsabile, ai sensi della L n. 1369 del 1960, art. 3, al pagamento di un trattamento economico non inferiore a quello spettante ai dipendenti ARIN. Il Tribunale, esperita attività istruttoria, rigettava le domande.

Avverso tale sentenza proponevano appello i lavoratori.

Si costituivano l’ARIN s.p.a. e la DPR Costruzioni s.p.a. resistendo al gravame.

La Corte di appello di Napoli, con sentenza dell’11 febbraio 2009, in parziale riforma della sentenza impugnata, per quanto qui interessa, accoglieva il gravame, dichiarando l’illegittimità dei licenziamenti intimati, ordinando alla società DPR Costruzioni l’immediata reintegra dei lavoratori nel posto di lavoro, con le conseguenze economiche di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, ponendo a carico di quest’ultima il pagamento della metà delle spese del doppio grado.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società DPR Costruzioni, affidato a due motivi.

Resistono i lavoratori con controricorso, poi illustrato con memoria.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo la ricorrente denuncia una omessa valutazione dei documenti acquisiti agli atti; l’immotivata prevalenza della prova testimoniale su quella documentale proveniente da ente pubblico; travisamento dei fatti e vizio di motivazione relativo agli stessi; violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c..

Lamenta che la Corte territoriale decise di dare prevalenza alle deposizioni testimoniali raccolte (talune, peraltro, in altri processi), di cui riportava taluni brani, rispetto al “certificato di ultimazione lavori” che, ove valutato unitamente ad altre circostanze (non avere ad esempio i ricorrenti affermato che le lavorazioni cui erano addetti erano ancora in corso al momento dei licenziamenti, affermando in modo generico solo che “la società DPR risultava impegnata in favore dell’ARIN”), avrebbe dovuto condurre al rigetto delle domande.

Ad illustrazione del motivo formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se possano essere sufficienti ai fini del decidere prove testimoniali assunte in altro processo con diverso petitum, in contrasto con la prova documentale offerta e con le presunzioni che da essa ne derivando”.

Chiarito che l’ordinamento non prevede alcuna gerarchia delle fonti di prova (ex multis, Cass. 18 aprile 2007 n. 9245, Cass. 12 settembre 2011 n. 18644), il motivo è inammissibile, chiedendo sostanzialmente alla Corte un riesame ed una diversa valutazione delle risultanze di causa.

Conviene al riguardo rammentare che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Del resto, il citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. 6 marzo 2006 n. 4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19 dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).

Ancor più precisamente questa Corte ha già affermato che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).

A ciò va aggiunto che il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice di merito, provvedendo alla loro trascrizione (o quanto meno all’indicazione della loro esatta ubicazione all’interno dei fascicoli di causa, specificandone il contenuto, Cass. sez. un. 3 novembre 2011 n. 22726), al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione, la S.C. deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Cass. ord. 30 luglio 2010 n. 17915), mentre nella specie la ricorrente non produce nè specifica chiaramente dove il “certificato di ultimazione lavori”, che la Corte di merito non menziona e che i controricorrenti deducono non essere stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio, sia esattamente ubicato.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, conseguente all’errata valutazione, ex art. 116 c.p.c., dei documenti esibiti e di cui al primo motivo.

Contraddittorietà della decisione.

Lamenta che la Corte di merito ritenne contraddittoriamente che la società non avrebbe dimostrato l’impossibilità di utilizzare i ricorrenti in mansioni equivalenti, laddove gli stessi avevano chiesto di essere reintegrati presso l’ARIN; che sussisteva un onere dei lavoratori di indicare in quali altre mansioni avrebbero potuto essere utilmente collocati.

Ad illustrazione del motivo formula il seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se, in mancanza di allegazione da parte del lavoratore, che impugni il licenziamento, dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali poter essere utilmente ricollocato, sussista un onere del datore di lavoro di provare in assoluto la non utilizzabilità del lavoratore nell’ambito aziendale”.

Il motivo risulta in parte inammissibile e per il resto infondato.

Inammissibile per le stesse considerazioni svolte in ordine alla prima censura (mancata od erronea valutazione delle risultanze istruttorie).

Inammissibile ancora non essendo neppure chiarita la causale dei licenziamenti in questione.

Infondato posto che ai fini della prova della sussistenza del giustificato motivo obiettivo di licenziamento, l’onere della dimostrazione della impossibilità di adibire il lavoratore nell’ambito della organizzazione aziendale – concernendo un fatto negativo – deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi. Detto onere può considerarsi assolto mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva o indiziaria, con l’ulteriore precisazione che il lavoratore, pur non essendo gravato dalla relativa incombenza probatoria, che grava per intero sul datore di lavoro, ha comunque un onere di deduzione e di allegazione di tale possibilità di reimpiego (Cass. 8 febbraio 2011 n. 3040; Cass. 18 marzo 2010 n. 6559; Cass. 19 febbraio 2008 n. 4068). La ricorrente, che nulla lamenta di aver dedotto circa la possibilità di impiegare diversamente i lavoratori all’interno dell’impresa, di cui parimenti, in violazione del principio di autosufficienza, non è stata fornita alcuna specifica indicazione circa la consistenza ed articolazione, pretende semplicemente di invertire gli oneri probatori, addossandoli unicamente, ed erroneamente, ai lavoratori.

Parimenti infondato è l’argomento logico secondo cui non avrebbe avuto alcun senso argomentare circa la possibilità di adibire i lavoratori in mansioni equivalenti laddove gli stessi avrebbero potuto continuare a lavorare per l’ARIN, così come avevano richiesto.

La Corte territoriale, infatti, non ha accolto la relativa domanda, fondata sulla L. n. 1369 del 1960, art. 1, bensì ritenuto illegittimi i licenziamenti intimati dalla attuale ricorrente, risultando così irrilevante la circostanza della cessazione dell’appalto con l’ARIN, dovendosi di contro valutare se la società DPR Costruzioni s.p.a. avesse o meno la possibilità di impiegare i quattro lavoratori in altro modo o presso altri cantieri, così come correttamente ritenuto dalla Corte di merito.

La deduzione, infine, circa la legittimità di un preteso, ma indimostrato, licenziamento collettivo, risulta nuova, nè la ricorrente chiarisce in quale sede ed in quali termini la questione venne sottoposta al giudice di merito.

3. Il ricorso deve pertanto rigettarsi.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore del difensore dei controricorrenti, dichiaratosi antecipante.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, pari ad Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. **********.

Redazione