Il Tribunale di Taranto ordina all’A.O. Spedali Civili di Brescia di procedere alla somministrazione al ricorrente di cellule staminali prodotte con la metodica elaborata da “Stamina Foundation” onlus (Trib. Taranto, 24/10/2013)

Redazione 24/10/13
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Osserva

Con ricorso ex art. 700 cpc depositato il 2 luglio 2013 (omissis) affetto da “SLA – SCLEROSI LATERALE AMIOTROFICA”) ha chiesto al TRIBUNALE DI TARANTO, in funzione di GIUDICE DEL LAVORO, di ordinare alla “AZIENDA OSPEDALIERA SPEDALI CIVILI DI BRESCIA”, in via cautelare ed urgente, di provvedere alla somministrazione di cellule staminali secondo le metodologie della “STAMINA FOUNDATION” ONLUS, previa disapplicazione – se del caso – di provvedimenti/ordinanze dell’AIFA eventualmente ostativi.
Disposta – con provvedimento del 6 agosto 2013 – l’integrazione del contraddittorio nei confronti della “ASL TA” e del “MINISTERO DELLA SALUTE”, all’udienza del 18 settembre 2013, verificata la regolarità delle notifiche e preso atto della costituzione dei convenuti (con esclusione della sola “STAMINA FOUNDATION” ONLUS), i quali si sono opposti all’accoglimento del ricorso, la causa è stata discussa oralmente e quindi questo giudice ha riservato la decisione.
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Sulla questione, in via preliminare, occorre ovviamente rilevare, avuto riguardo al petitum sostanziale formulato, la sussistenza della giurisdizione dell’A.G.O. (poiché in relazione al bene-salute è individuabile un “nucleo essenziale”, in ordine al quale si sostanzia un diritto soggettivo assoluto e primario, volto a garantire le condizioni di integrità psico-fisica delle persone bisognose di cura allorquando ricorrano condizioni di indispensabilità, di gravità e di urgenza non altrimenti sopperibili, a fronte delle quali è configurabile soltanto un potere accertativo della P.A. in punto di apprezzamento della sola ricorrenza di dette condizioni: cfr. CASS. SS.UU. 1° AGOSTO 2006 N. 17461 e CORTE COST. SENT. N. 354/2008, nonché CASS. SS.UU. 22 FEBBRAIO 2012 N. 2570) e quindi la competenza per materia del TRIBUNALE, in funzione di GIUDICE DEL LAVORO (trattandosi di controversia in materia di assistenza obbligatoria, ex art. 442 cpc) e la competenza territoriale di questo UFFICIO (ai sensi dell’art. 444 co. 1 cpc, avuto riguardo al luogo di residenza di parte ricorrente) (1).
Sempre in via preliminare, deve poi rimarcarsi – quanto alla corretta instaurazione del contraddittorio – che, secondo questo giudice, la domanda cautelare, sì come formulata, risulta coinvolgere, quali titolari dal lato passivo del rapporto giuridico dedotto, la AZIENDA OSPEDALIERA predetta (che dovrebbe provvedere alla somministrazione) la “STAMINA FOUNDATION” ONLUS (quale soggetto titolare della metodologia), nonché il “MINISTERO DELLA SALUTE” (in relazione alla collaborazione scientifica, tecnica e finanziaria da prestarsi), mentre non risulta necessaria la presenza in giudizio della ASL.
Ed allora, poiché le posizioni dei predetti ENTI presentano obiettiva reciproca interrelazione, nel senso che le prestazioni che ciascuno dovrebbe rendere risultano strutturalmente connesse anche sul piano del diritto sostanziale (cfr. CASS. SEZ. III, 6 LUGLIO 2006 N. 15358), è stato doveroso disporre la integrazione del contraddittorio (cfr. CASS. SEZ. III, 2 LUGLIO 2010 N. 15690), con onere a carico della parte ricorrente (cfr. CASS. SEZ. III, 13 MARZO 2012 N. 3967), ai sensi dell’art. 102 cpc, (ovvero comunque ai sensi dell’art. 107 cpc).
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Superate tali questioni preliminari, deve rilevarsi che parte ricorrente, precisato di essere affetto da SLA, patologia per la quale allo stato attuale la scienza medica non prevede alcuna terapia che ne contrasti in modo apprezzabile l’aggravamento, ha dedotto che la terapia eseguita con il metodo proposto dalla STAMINA FOUNDATION ONLUS risulta aver apportato miglioramenti in alcuni malati di SLA, come anche affermato dal dott. M.A. in data 22 maggio 2013. nella “prescrizione” effettuata in suo favore del trattamento con cellule staminali secondo il metodo anzidetto (e con espressa assunzione di responsabilità in ordine alla scelta terapeutica).
Tanto precisato, pur consapevole dell’esistenza di un rilevante contrasto giurisprudenziale in ambito nazionale sulla questione in esame, opina questo TRIBUNALE che l’istanza cautelare sia accoglibile, in linea con quanto ritenuto, in casi analoghi, da numerosi altri TRIBUNALI, anche successivamente all’emanazione della legge n. 57/13 (ex plurimis, cfr. TRIB. BARI, ORD. EX ART. 669-TERDECIES CPC 1° luglio 2013; TRIB. MATERA, ORD. EX ART. 700 CPC. 3 giugno 2013; TRIB. PIACENZA, ORD. EX ART. 700 CPC 4 luglio 2013), nonché da altri Giudici di questo stesso UFFICIO (Giud. SODO e *******), seppure in via interinale, dovendosi infatti contestualmente sollevare questione di legittimità costituzionale.
Occorre ovviamente rimarcare che – nell’affrontare il merito della domanda cautelare, naturalmente nei limiti della sommarietà che contraddistingue la presente sede – debba aversi riguardo alla normativa si come attualmente vigente e, quindi, al decreto-legge 25 marzo 2013 n. 24 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 72 del 26 marzo 2013 ed entrato in vigore il 27 marzo 2013, giusta quanto disposto dall’art. 3), così come convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2013, n. 57 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 121 del 25 maggio 2013 ed entrata in vigore il 26 maggio 2013, giusta quanto disposto dall’art. 1).
Tale disciplina sopravvenuta impone di affrontare la questione se sia ancora applicabile, alle cd. terapie per “uso compassionevole”, il DECRETO DEL MINISTERO DELLA SALUTE 5 dicembre 2006 (in G.U. n. 57 del 9 marzo 2007).
Secondo una prima tesi interpretativa, il decreto-legge 25 marzo 2013 n. 24, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2013, n. 57, risulterebbe compatibile rispetto al D.M. 5 dicembre 2006.
Il legislatore, cioè, avrebbe sostanzialmente riconosciuto la possibilità di proseguire i trattamenti in essere per coloro che, alla data di entrata in vigore del decreto legge, avessero già avviato la terapia o quantomeno ottenuto un provvedimento favorevole dell’autorità giudiziaria in presenza della debita prescrizione del medico che ne assume la responsabilità, avendo quindi solo ‘ampliato’ il perimetro della previgente normativa autorizzando i trattamenti a base di cellule staminali mesenchimali in relazione ai singoli pazienti che si trovano nelle condizioni di cui al citato art. 2, commi 2 e 3, a prescindere, dunque, dalla ricorrenza o meno dei numerosi presupposti necessari a mente dell’art. 1 comma 4. D.M. cit., per accedere alle cd. “cure compassionevoli”.
In altri termini, ove non ricorrano i presupposti per fruire, per così dire, della “corsia preferenziale” di cui all’art. 2 d.l. n. 24/2013, nulla impedirebbe di vagliare l’applicabilità del regime generale di cui al DM 5 dicembre 2006, la cui sua persistente operatività emergerebbe, tra le altre cose, dalle parole originariamente ricomprese nell’art. 2, commi 1 e 2, del d.l. (secondo cui le disposizioni del predetto D.M. avrebbero avuto applicazione solo sino all’adozione della nuova disciplina regolamentare dell’impiego di medicinali per terapie avanzate preparati su base non ripetitiva), poi soppresse in sede di conversione dalla L. n. 57/2013.
Tale soppressione avrebbe sortito l’effetto di conservare piena efficacia alla disciplina sulle cd. cure compassionevoli (che, come si ricava dal preambolo del D.M. 512/2006, risponde alla “necessità di consentire l’utilizzo di medicinali per terapia genica e cellulare somatica in caso di pericolo di vita del paziente o di grave danno alla salute o di grave patologia a rapida progressione in mancanza di valide alternative terapeutiche”), accanto alla sperimentazione clinica sull’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, introdotta ex novo dalla l. n. 57/2013 di conversione del ripetuto decreto legge.
Tale interpretazione risulterebbe avere anche una sua coerenza logico-giuridica, pienamente rispettosa del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 32 Cost., ove solo si considerino i lunghi tempi occorrenti per concludere le sperimentazioni cliniche (nel caso di specie la nuova legge ha previsto un termine di 18 mesi), le attuali incertezze sul range dei pazienti ammessi e, comunque, la sicura selettività dei criteri di accesso alla sperimentazione, circostanze tutte che non potranno comportare per gli “esclusi” – pena la violazione dei ridetti precetti costituzionali – la negazione dell’accesso alle cure compassionevoli ai sensi del D.M. 5 dicembre 2006, ove ne ricorrano i presupposti. Solo tale ricostruzione normativa, dunque, si presterebbe a consentire un’interpretazione dell’art. 2 del D.L. più aderente ai principi costituzionali in quanto non chiuderebbe del tutto la porta a casi altrettanto gravi e particolari, come quello in esame, trattandosi quindi di interpretazione “costituzionalmente orientata”.
Ne conseguirebbe che, nel particolare caso in esame, in cui la parte ricorrente non è stata avviata “per tempo” alla terapia di cui sopra, essa si trova nell’impossibilità di fruire del d.l. n. 24/2013, ma potrebbe avvalersi, sussistendone i presupposti, delle cure compassionevoli di cui al D.M. 5 dicembre 2006 (2).
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Tuttavia, secondo una diversa e, probabilmente, maggiormente condivisibile opzione ermeneutica la disciplina di cui al decreto-legge 25 marzo 2013 n. 24, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2013, n. 57. risulta incompatibile rispetto al D.M. 5 dicembre 2006 (cfr. maxime TRIB. BOLOGNA, ORD. EX 669-TERDECIES, del 10 luglio 2013, RG n. 1862/13, di seguito ampiamente richiamata anche testualmente).
In estrema sintesi, il legislatore ha statuito guanto segue:
a) ha consentito l’avvio di un percorso di sperimentazione clinica, della durata di 18 mesi, concernente l’impiego di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, da condurre secondo delle indicazioni specifiche contenute nel comma 2-bis dell’art. 2, aggiunto dalla legge di conversione, stanziando anche le necessarie risorse economiche;
b) ha consentito, altresì, alle strutture pubbliche in cui erano stati avviati, prima dell’entrata in vigore del decreto legge, trattamenti su singoli pazienti con medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali, di completare i trattamenti stessi, sotto la responsabilità del medico prescrittore e nell’ambito delle risorse finanziarie disponibili (art. 2, comma 2);
c) ha chiarito che si considerano avviati, ai sensi del comma 2 dell’art. 2, anche i trattamenti in relazione ai quali sia stato praticato, presso strutture pubbliche, il prelievo dal paziente o da donatore di cellule destinate di cellule destinate all’uso terapeutico e quelli che siano già stati ordinati dall’AUTORITÀ GIUDIZIARIA (comma 3).
Il D.M. 5 dicembre 2006 non potrebbe ritenersi ancora utilmente invocabile in forza del principio di specialità, per l’assorbente ragione che, avendo il legislatore emanato una regolamentazione specifica per l’impiego dei medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali avviando, contestualmente, una sperimentazione clinica, la questione interpretativa della normativa vigente va impostata procedendo dal presupposto della coesistenza di due diverse fonti; la prima, quella di cui al D.M. del 2006, di natura regolamentare, applicabile per consentire di avviare i pazienti, in pericolo di vita o di danno grave alla salute ed in mancanza di valide alternative terapeutiche, a cure con medicinali per terapia cellulare somatica; la seconda, avente forza di legge, volta a disciplinare nello specifico l’uso dei medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali.
Pertanto, va esclusa, dopo l’approvazione della disciplina contenuta nel d.l. n. 24 del 2013 conv. in legge n. 57/13, l’applicazione, nel caso di specie del DM 5 dicembre 2006 per due distinte ragioni e cioè, per la sopravvenuta regolamentazione dell’intera materia delle terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali con una normativa avente rango di legge ordinaria; e per la contestuale attivazione di una sperimentazione clinica; ciò che, di per se solo, è idoneo a sottrarre il metodo STAMINA dall’ambito di operatività della decretazione ministeriale del 2006, invocabile proprio nel caso di assenza di sperimentazione.
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Prestando adesione all’orientamento testé sunteggiato, opina nondimeno questo Tribunale doversi rimarcare che l’ammissione o l’esclusione del paziente rispetto al trattamento secondo il cd. Protocollo Stamina vengono fondate, dalla normativa recentemente introdotta, su criteri del tutto avulsi dalle condizioni di salute dei pazienti, concernendo essi o un mero dato cronologico (essendo noto che la spontanea ammissione da parte degli SPEDALI CIVILI DI BRESCIA al trattamento ******* risale ad epoca precedente l’ordinanza AIFA n. 1/2012 del 15 maggio 2012) o l’esito di iniziative giudiziarie già definite quanto meno in via cautelare.
Ed invero, nella “nota illustrativa” si afferma che la prosecuzione trattamento STAMINA nei casi in cui sia già stato avviato risponde alla necessità di far fronte ad “uno stato di grave angoscia negli interessati, che sperano di ottenere dalla terapia con cellule STAMINA quei benefici in termini di salute che, per le gravissime malattie di cui si discute, non possono essere offerti dall’impiego di medicinali già autorizzati o almeno sperimentati”: quindi, operando un vero e proprio mutamento dell’oggetto del diritto soggettivo attribuito ai pazienti affetti da grave patologia a rapida progressione, ma privi di valida alternativa terapeutica, l’art. 2 D.L. 24/2013 – se ritenuto radicalmente “abrogativo” del riconoscimento ex art. 1 D.M. 5 dicembre 2006 – sembrerebbe tutelare il “diritto alla speranza” di ottenere dalla terapia con cellule STAMINA quei benefici in termini di salute che, per le gravissime malattie da cui sono affetti, non possono essere offerti dall’impiego di medicinali già autorizzati o almeno sperimentati.
Ma in tal caso, risulta (cfr. TRIB. TRENTO – SEZ. LAV., GIUD. *****. ORDINANZA 29 MARZO 2013 N. 564. R.G. N. 222/13 che in questa sede viene ampiamente richiamata, anche testualmente, attesa la sua esaustività motivazionale) non manifestamente infondato ritenere del tutto irragionevole limitare il diritto a tale speranza a coloro che hanno già iniziato a ricevere il trattamento STAMINA (ma sono sufficienti anche i soli atti preparatori quale il prelievo dal paziente o da donatore) per averlo richiesto prima dell’ordinanza AIFA n. 1/2012 del 15 maggio 2012 o che successivamente hanno ottenuto favorevoli decisioni dell’AUTORITÀ GIUDIZIARIA e negare, invece, lo stesso diritto alla medesima speranza a coloro che, parimenti affetti dalla stessa malattia o comunque da gravissime malattie non curabili con medicinali già autorizzati o almeno sperimentati, per mera casualità si sono rivolti agli SPEDALI CIVILI di BRESCIA dopo l’emissione della suddetta ordinanza AIFA o si sono visti rigettare dal giudice la domanda cautelare di accesso al trattamento secondo il PROTOCOLLO STAMINA.
Nella già richiamata “nota illustrativa” si afferma che la possibilità di praticare “trattamenti su singoli pazienti con medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali mesenchimali preparati anche presso laboratori non conformi ai principi delle norme europee di buona fabbricazione dei medicinali e in difformità dalle disposizioni del DECRETO del MINISTRO DELLA SALUTE 5 DICEMBRE 2006”, riconosciuta alle strutture pubbliche dall’art. 2 co. 2 e 3 D.L. 24/2013, “tiene conto di un principio etico, largamente seguito in sanità, secondo cui un trattamento sanitario avviato che non abbia provocato gravi effetti collaterali non deve essere interrotto”.
Tuttavia, a ben vedere, tale principio etico appare pertinente solamente ad una delle ipotesi in cui viene consentito dal legislatore l’accesso alla terapia cellulare brevettata da STAMINA FOUNDATION ONLUS, ossia a quella nella quale il paziente abbia già iniziato a ricevere presso strutture pubbliche il trattamento.
Di contro nessun trattamento sanitario già avviato (tanto meno con l’attestazione della mancanza di gravi effetti collaterali) appare configurabile nei confronti di quei pazienti per i quali sia stato effettuato soltanto il prelievo da donatore di cellule destinate all’uso terapeutico o sia intervenuto un ordine dell’autorità giudiziaria non ancora eseguito: rispetto a questi pazienti la possibilità di accedere alla terapia secondo il cd. PROTOCOLLO STAMINA, loro riconosciuta dal legislatore, non ha alcuna attinenza con gli effetti prodotti in concreto da quella terapia per la semplice ragione che essi non hanno ancora iniziato a riceverla.
Quindi le loro condizioni di salute, per questo aspetto, sono perfettamente sovrapponibili a quelle di coloro che il legislatore escluderebbe dall’accesso alla terapia secondo il PROTOCOLLO CD. STAMINA in quanto il loro donatore non ha ancora subito il prelievo di cellule o essi non hanno (ancora) conseguito in via giudiziaria un provvedimento cautelare positivo. Gli uni e gli altri, in quanto affetti da gravissime malattie non curabili con medicinali già autorizzati o almeno sperimentati, sono accomunati dalla speranza di ottenere dalla terapia con cellule STAMINA quei benefici in termini di salute che i medicinali già autorizzati o almeno sperimentati non possono loro offrire: tuttavia, per volontà del legislatore, solo per i primi e non anche per i secondi la speranza costituirebbe idoneo fondamento normativo ai fini dell’accesso alla terapia, il che rappresenta una disparità di trattamento che risulta non manifestamente infondato ritenere irragionevole in quanto lesiva del principio di eguaglianza formale ex art. 3, co. 1, Cost.
Può quindi ritenersi, come già evidenziato, che la determinazione del legislatore di consentire ai pazienti, che hanno già iniziato il trattamento secondo il cd. PROTOCOLLO STAMINA (anche solo attraverso l’effettuazione del prelievo dal donatore) o sono destinatari di una decisione favorevole dell’autorità giudiziaria di proseguirlo fino al completamento, possa costituire, seguendo il principio enunciato da CORTE COST. N. 185/1998, un “fatto legislativa” (che ha una sua oggettività, tale da differenziarlo da un qualsiasi mero “fatto sociale” spontaneo) da cui scaturiscono – nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, come quelle che sembrano porsi nella patologia da cui è affetta parte ricorrente – aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute.
Conseguentemente non pare manifestamente infondato ritenere irragionevole e, quindi, lesivo del principio di eguaglianza ex art. 3 co. 1 Cost. subordinare il concreto godimento di tale diritto fondamentale alla sussistenza di ragioni che nulla hanno a che fare con le condizioni di salute del paziente.
Certamente, in tale prospettiva, occorre anche affrontare la questione se il fumus boni juris di una pretesa cautelare possa trovare fondamento nella sola non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità della norma che de jure condito imporrebbe il rigetto di quella pretesa.
Orbene, in ordine ai rapporti tra tutela cautelare e pregiudiziale costituzionale, secondo parte della dottrina, seguita da una ormai risalente sentenza della SUPREMA CORTE (12 dicembre 1991, n. 13415) in un ordinamento caratterizzato, come quello italiano, da un sistema di controllo di costituzionalità delle leggi di tipo accentrato (ossia attribuito ad un apposito organo costituzionale) – e non già diffuso (ossia demandato ai singoli giudici comuni) – l’accoglimento della domanda cautelare in pendenza del giudizio di costituzionalità avente per oggetto la norma che ne imporrebbe il rigetto determinerebbe un’invasione nell’ambito delle attribuzioni proprie della CORTE COSTITUZIONALE in quanto comporta la disapplicazione di una norma di legge che solo con la sentenza di illegittimità pronunciata dalla Consulta cessa di avere efficacia (art. 136 co. 1 Cost.).
In consapevole dissenso con questa pronuncia si è espressa più di recente la giurisprudenza amministrativa attraverso il suo organo più autorevole (CDS A.P. ORD. 20 dicembre 1999, n. 2; conf. 23 MAGGIO 2001, n. 458), il quale ha ritenuto che nella presente fase cautelare, al fine di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi, ove ne ricorrano i presupposti, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non può escludersi quando gli interessi in gioco lo richiedano, una forma limitata di controllo diffuso che consente la concessione del provvedimento di sospensione, rinviando alla fase di merito al quale il provvedimento cautelare è strumentalmente collegato, il controllo della Corte costituzionale, con effetti erga omnes … In tale contesto la concessione della misura cautelare… non comporta la disapplicazione di una norma vigente, ma tende a conciliare la tutela immediata e reale, ancorché interinale, degli interessi in gioco con il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi…”.
Pur nell’evidente difficoltà di optare tra due orientamenti parimenti autorevoli ed entrambi compiutamente motivati, appare preferibile quello espresso dal supremo GIUDICE AMMINISTRATIVO non solo e non tanto perché più recente, ma soprattutto perché conduce, nel caso di specie, ad una tutela effettiva del diritto alla salute della parte ricorrente, potendosi in sostanza realizzare una interpretazione “costituzionalmente orientata”.
Com’è noto, l’art. 32 co. 1, Cost. laddove “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, costituisce una norma immediatamente precettiva (CASS. LAV. 14 GIUGNO 1999 N. 5890 e 18 DICEMBRE 2003 N. 19425) e non solo di carattere programmatico con destinatarie le sole autorità pubbliche; il diritto soggettivo alla tutela della propria salute non coincide con il solo diritto alla integrità fisica, ma concerne più in generale lo stato di benessere fisico e psichico (CORTE COST. 2 GIUGNO 1994, N. 218; CASS. 1° AGOSTO 2006, N. 17461); si tratta di un diritto di rilievo primario sia per la sua inerenza alla persona umana, sia per la sua valenza di diritto sociale (CORTE COST. 31 GENNAIO 1991 N. 37); infatti scaturisce non solo dal precetto ex art. 32 Cost. (che espressamente se ne occupa), ma anche dal criterio di solidarietà ex art. 2 Cost., che qualifica in senso definitorio il nostro ordinamento (CASS. LAV. 18 GIUGNO 2012 N. 9969); costituisce un diritto “forte”, che impone una “difesa a tutta oltranza contro ogni iniziativa ostile” (in tali precisi termini: CASS., S.U. 6 OTTOBRE 1979 N. 5172); appartiene a quella categoria di “posizioni soggettive a nucleo rigido, che è costituita da “diritti che – in ragione della loro dimensione costituzionale e della loro stretta inerenza a valori primari della persona – non possono essere definitivamente sacrificati o compromessi, sicché allorquando si prospettino motivi di urgenza suscettibili di esporli a pregiudizi gravi ed irreversibili, alla pubblica amministrazione manca qualsiasi potere discrezionale di incidere su detti diritti non essendo ad essa riservato se non il potere di accertare la carenza di quelle condizioni e di quei presupposti richiesti perché la pretesa avanzata dal cittadino assuma, per il concreto contesto nel quale viene fatta valere, quello spessore contenutistico suscettibile di assicurarle una tutela rafforzata” (CASS. S.U. 1° AGOSTO 2006, N. 17461); la CONSULTA, pur affermando la necessità del giusto bilanciamento degli interessi (non esclusi quelli di una graduale organizzazione e della compatibilità finanziaria), ha sempre e comunque fatto salvo “quel nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (ex multis, di recente, CORTE COST. 25 FEBBRAIO 2011, N. 61; CORTE COST. 22 OTTOBRE 2010, N. 299); in proposito si è di recente statuito (CASS. 9969/2012 cit.) che: “il costante riferimento alla necessaria tutela della dignità della persona impone, allora, una lettura delle regole che sovrintendono alla erogazione dei servizi destinati a realizzare il pieno diritto alla salute che tenga conto – quando si tratti, come nella specie, di fruire di un progetto terapeutico non somministrato dal SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE – del complesso oggetto della tutela che, conseguentemente, non può risolversi nel solo approntare il presidio terapeutico destinato al regresso della malattia, ma anche e soprattutto nell’offrire quant’altro sia utile a ripristinare nel soggetto colpito le condizioni per una decorosa convivenza con la condizione patologica o la disabilità. A questa conclusione si perviene, infatti, qualora, come doveroso, il diritto alla salute si legga unitamente a quello alla dignità umana. Da tali considerazioni deve ricavarsi il principio che il diritto alla salute ha nel nostro ordinamento una dimensione sicuramente più ampia di quanto non possa derivare dal mero diritto alla cura od alla assistenza, intesa nel senso tradizionale di accorgimenti terapeutici idonei a debellare la malattia od ad arrestarne l’evoluzione. Al contrario, il necessario riferimento alla tutela della dignità umana, consente di ritenere che le condizioni di salute oggetto della previsione costituzionale coincidano non solo con l’approntamento di mezzi destinati alla guarigione del soggetto colpito ma anche con quant’altro possa farsi per alleviare il pregiudizio non solo fisico ma, se si vuole, esistenziale dell’assistito, quantomeno in ragione di tutto ciò che manifesti concreta utilità ad alleviare la limitazione funzionale ancorché senza apprezzabili risultati in ordine al possibile regresso della malattia”.
Questi ultimi insegnamenti appaiono particolarmente pertinenti al caso in esame dove lo stesso legislatore d’urgenza, nella “nota illustrativa” più volte ricordata, esprime la volontà di porre rimedio allo “stato di grave angoscia negli interessati che sperano di ottenere dalla terapia con cellule STAMINA quei benefici in termini di salute che, per le gravissime malattie di cui si discute, non possono essere offerti dall’impiego di medicinali già autorizzati o almeno sperimentati” ed attesta che nei pazienti, che lo hanno già ricevuto, il trattamento secondo il cd. protocollo STAMINA “non ha dato gravi effetti collaterali”.
Per un caso, in qualche misura analogo, di interpretazione , “costituzionalmente orientata”, al fine di pervenire ad una tutela effettiva del diritto alla salute ex art. 32 co. 1 Cost., può essere utile richiamare CASS. SEZ. III, 6 AGOSTO 2010 N. 18378. secondo cui: “il diritto all’assistenza socio-sanitaria del disabile è un diritto assoluto ed inviolabile che, pur non potendo godere di un regime di riconoscimento automatico, non può subire limitazioni od impedimenti dovuti ai procedimenti amministrativi relativi al suo formale riconoscimento, una volta che sia accertata, in concreto, l’esistenza e la gravità dell’handicap, posto che, in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata, ai sensi degli art. 2 e 32 Cost. della normativa di settore e sulla base dell’esame delle fonti costituzionali europee (la Carta di Nizza, applicabile “ratione temporis”, attualmente trasfusa nel Trattato di Lisbona, definitivamente entrato in vigore il 2 dicembre 2009), può desumersi che nell’Unione europea è garantito un alto livello di protezione della salute umana e che la solidarietà sociale è un principio interpretativo immanente, a livello europeo, della normativa interna”.
Peraltro, in ordine alla legittimità di “ulteriore accesso” all’impiego terapeutico di medicinali per terapie avanzate a base di cellule staminali, può altresì richiamarsi l’ordinanza interlocutoria emessa 18 marzo 2013 del TAR BRESCIA, in ordine alla plausibile compatibilità dei trattamenti in corso con gli ulteriori accertamenti disposti in quella sede. Sotto quest’ultimo aspetto, infatti, va rilevato che, a fronte del provvedimento amministrativo emesso in data 15 maggio 2012 dall’AGENZIA ITALIANA DEL FARMACO, basato sulla considerazione che il trattamento eseguito non rispondesse ai requisiti richiesti per la sperimentazione clinica (provvedimento che ha avuto quale effetto la risoluzione dell’accordo di collaborazione tra la STAMINA FOUNDATION ONLUS e gli SPEDALI CIVILI DI BRESCIA), il TAR di fatto sembra consentire medio tempore “la prosecuzione” “dell’attività infusiva in discorso” superando il provvedimento dell’AIFA che aveva bloccato le cure nella struttura ospedaliera bresciana e, d’altra parte, la stessa normativa sopravvenuta ha sostanzialmente riconosciuto la possibilità di proseguire i trattamenti in essere (così di fatto “disapplicando” il precedente provvedimento amministrativo).
Opina peraltro questo TRIBUNALE di richiamare alcune pronunzie della CORTE COSTITUZIONALE che hanno ritenuto ammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in sede cautelare “qualora il giudice non abbia provveduto sulla domanda … ovvero quando abbia concesso la relativa misura, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in tale sede” (sic ordinanza 150/2012; cfr. anche ordinanza 307/2011 ordinanza 211/2011, sentenza 151/2009).
Pertanto, in sede cautelare, se il giudice rimettente non abbia esaurito la propria potestas iudicandi, ad esempio in quanto ha concesso la misura cautelare – sul presupposto della non manifesta infondatezza della questione sollevata – ma ad tempus, ossia sino all’esito della decisione della stessa da parte della CORTE, la questione di legittimità costituzionale, in relazione a questi profili, appare proponibile.
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Ed allora, in definitiva, alla stregua di tutte le sopra esposte considerazioni, precisato che – quanto al periculum in mora – la natura e la gravità della patologia che affligge la parte ricorrente risultano sufficientemente asseverate alla stregua della documentazione sanitaria prodotta nel fascicolo di parte, da intendersi in questa sede richiamata (essendo parimenti evidenti le condizioni che impongono l’estrema urgenza di provvedere, considerata la finalità del beneficio richiesto), l’istanza cautelare deve essere accolta, sebbene ad tempus (ossia sino all’esito della decisione da parte della CORTE COSTITUZIONALE della questione di costituzionalità che in questa sede contestualmente si solleva).
Peraltro, al fine di escludere ogni rischio di eventuale danno per il paziente, appare opportuno disporre che l’AZIENDA OSPEDALIERA predetta – ove non ritenga di operare direttamente nell’ambito delle proprie strutture – richieda le cellule staminali (prodotte, come richiesto da parte ricorrente ed espressamente prescritto dal medico responsabile dr. A., secondo la metodica elaborata da “STAMINA FOUNDATION” QNLUS alla cell-factory che essa stessa riterrà di individuare (secondo i criteri della maggiore efficacia per la cura da somministrare, nonché della sicurezza nel trattamento, ad esempio sotto il profilo della tracciabilità del prodotto e della esclusione di contaminazione).
Ove mai dovesse rilevare il contenuto riservato della metodica e del know-how di STAMINA FOUNDATION, appare quindi necessario autorizzare l’utilizzo del PROTOCOLLO in questione, mediante l’eventuale impiego di personale già formato e specializzato, e in particolare dei professionisti che appartengono a tale ente, dovendosi altresì rimarcare l’obbligo, per i soggetti coinvolti, di mantenere il più stretto riserbo sulle operazioni e sulle conoscenze acquisite, salva ogni responsabilità in caso di violazione.
Pertanto, alla “STAMINA FOUNDATION” ONLUS deve essere ordinato di fornire alla cell-factory il proprio know-how e, se necessario, il personale competente a trattare le cellule, mentre al “MINISTERO DELLA SALUTE” va ordinato di prestare tutta la necessaria collaborazione scientifica, tecnica e finanziaria.
Contestualmente, ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge 25 marzo 2013 n. 24, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2013 n. 57, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della COSTITUZIONE (oltre che, ovviamente, rilevante nel caso di specie, dovendosi ribadire che – applicandosi tale normativa, in luogo della disciplina di cui al D.M. 5 dicembre 2006 – parte ricorrente non risulta in possesso dei requisiti previsti ex lege), il giudizio deve essere sospeso, con immediata trasmissione degli atti alla CORTE COSTITUZIONALE, giusta l’art. 134 Cost. e l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87.
***
Quanto alle spese, si provvederà ovviamente all’esito del giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale, così provvede:
visti gli artt. 669 sextes e 700 c.p.c., ordina alla “AZIENDA OSPEDALIERA SPEDALI CIVILI DI BRESCIA” di somministrare – sino all’esito della decisione da parte della CORTE COSTITUZIONALE della questione di costituzionalità che in questa sede contestualmente si propone – la cura richiesta (omissis) sotto la responsabilità del medico prescrittore dott. M.A. (giusta prescrizione del 22 maggio 2013) autorizzando e disponendo che l’AZIENDA OSPEDALIERA predetta – ove non ritenga di operare direttamente nell’ambito delle proprie strutture – richieda alla cell-factory che riterrà di individuare (secondo i criteri della maggiore efficacia per la cura da somministrare, nonché della sicurezza nel trattamento), le cellule staminali prodotte secondo la metodica elaborata da “STAMINA FOUNDATION” ONLUS, la quale dovrà fornire alla cell-factory il proprio know-how e, se necessario, il personale competente a trattare le cellule, con obbligo per il “MINISTERO DELLA SALUTE” di prestare ogni necessaria collaborazione scientifica, tecnica e finanziaria;
2. visto l’art. 134 Cost. e l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del decreto-legge 25 marzo 2013 n. 24, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2013, n. 57, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della COSTITUZIONE;
3. dispone l’immediata trasmissione degli atti alla CORTE COSTITUZIONALE e sospende il giudizio;
4. manda alla Cancelleria perché la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, nonché comunicata ai PRESIDENTI della CAMERA DEI DEPUTATI e del SENATO DELLA REPUBBLICA.

Giudice ****************

Note

(1) Cfr. CASS. LAV., sentenze nn. 2776 del 6 febbraio 2008, 15386 del 10 luglio 2007, 12365 del 28 maggio 2007, 15485 del 7 luglio 2006, 4686 del 3 marzo 2006, 27919 del 19 dicembre 2005, 6598 del 29 marzo 2005 e 7912 del 26 aprile 2004.
(2) Ed in tale ipotesi, invero, nella fattispecie in esame in questa sede risulterebbero verosimilmente sussistenti tutti i necessari presupposti.
L’art. 1 comma 4 del DM 5 dicembre 2006 consente l’impiego di medicinali per terapia genica e per terapia cellulare somatica su singoli pazienti, in mancanza di valida alternativa terapeutica, nei casi di urgenza che pongono il paziente in pericolo di vita o di grave danno alla salute, nonché nei casi di grave patologia a rapida progressione, sotto la responsabilità del medico prescrittore e, per quanto concerne la qualità del medicinale, sotto la responsabilità del direttore del laboratorio di produzione di tali medicinali, purché: a) siano disponibili dati scientifici, che ne giustifichino l’uso, pubblicati su accreditate riviste internazionali; b) sia stato acquisito il consenso informato del paziente; c) sia stato acquisito il parere favorevole del Comitato etico; d) siano utilizzati, non a fini di lucro, prodotti preparati in laboratori in possesso dei requisiti di cui all’art. 2 anche nei casi di preparazioni standard e comunque nel rispetto dei requisiti di qualità farmaceutica approvati dalle Autorità competenti, qualora il medicinale sia stato precedentemente utilizzato per sperimentazioni cliniche in Italia; e) il trattamento sia eseguito in Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico o in struttura pubblica o ad essa equiparata.
Nella fattispecie in esame, la sussistenza della mancanza di valida alternativa terapeutica, dell’urgenzo e dell’estrema pravità della patologia, a rapida progressione (e a prognosi infausta), nonché all’assunzione di responsabilità da parte del medico prescrittore (dott. A.), risulta ampiamente documentata in atti.
Parimenti, non v’è dubbio circa l’esistenza di un consenso informato la stessa proposizione del ricorso di primo grado ed il suo contenuto manifestano, infatti, un consenso incondizionato della parte ricorrente al trattamento richiesto, pur di coltivare la speranza di conseguire un qualche miglioramento, pacificamente riscontrato in taluni casi analoghi.
Deve poi ritenersi che la mancanza del requisito formale del pronunciamento del Comitato etico non sia ostativa, almeno in questa sede cautelare caratterizzata da una necessaria cognizione sommaria e da un giudizio di verosimiglianza, risultando, da una serie di pronunciamenti giudiziari in subiecta materia, che il predetto comitato ha già emesso valutazioni favorevoli a fronte di situazioni di salute assai meno gravi rispetto a quella in esame: del resto, la risposta fornita alla parte ricorrente in data 11 luglio 2013 (cfr. nota prot. n. 0035280/AM/MS) da parte della AZIENDA OSPEDALIERA si fonda solo sulla constatata necessità di assegnare priorità ai trattamenti “già avviati” ai sensi del DL n. 24/13.
Peraltro, una formalistica interpretazione circa la necessità di un previo pronunciamento del comitato etico, anche ove i tempi, come nella specie, siano particolarmente stringenti, non potrebbe che portare alla disapplicazione del D.M. in parte qua, infatti, una corretta interpretazione della normativa in esame, posta a tutela di diritti di rango costituzionale, impone di ritenere che il diritto alle cure non richieda necessariamente il parere in questione burocraticamente inteso, bensì il requisito sostanziale sotteso alla ratio di tale parere, vale a dire “l’esistenza di un rapporto favorevole tra benefici ipotizzabili e rischi prevedibili del trattamento proposto, nelle particolari condizioni del paziente”. Per cui, ove tale requisito sostanziale, anche in assenza di un formale atto del Comitato etico, risulti aliunde documentato, il diritto alle cure non può essere negato (e, nella specie, s’è detto dei miglioramenti riscontrati in taluni casi analoghi, cui fa da contrattare l’assenza, allo stato, di ripercussioni negative degne di nota).
Inoltre, quanto alla valenza scientifica della terapia richiesta, oltre alle pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali, lo stesso fatto che risulta avviata una specifica sperimentazione ex lege induce a ritenere che trattasi di metodologia sulla quale sussistano dati scientifici (cfr. requisito sub lett. a), peraltro da applicarsi in laboratori accreditati per il SSN (cfr. requisito sub lett. e). Può ritenersi, cioè, che la determinazione del legislatore di consentire ai pazienti che hanno già iniziato il trattamento secondo il cd. PROTOCOLLO STAMINA (anche solo attraverso l’effettuazione del prelievo dal donatore) o sono destinatari di una decisione favorevole dell’autorità giudiziaria, di proseguirlo fino al completamento, possa costituire, seguendo il principio enunciato da CORTE COST. N. 185/1998 un “fatto legislativo” (che ha una sua oggettività, tale da differenziarlo da un qualsiasi mero “fatto sociale” spontaneo) da cui scaturiscono – nei casi di esigenze terapeutiche estreme, impellenti e senza risposte alternative, come quelle che sembrano porsi nella patologia da cui è affetta parte ricorrente – aspettative comprese nel contenuto minimo del diritto alla salute.
Quanto al requisito sub lett. d), al fine di escludere ogni rischio di eventuale danno per il paziente, pare sufficiente disporre che l’AZIENDA OSPEDALIERA predetta – ove non ritenga di operare direttamente nell’ambito delle proprie strutture – richieda le cellule staminali (prodotte, come richiesto da parte ricorrente ed espressamente prescritto dal medico responsabile dr. A., secondo la metodica elaborata da “STAMINA FOUNDATION” ONLUS) alla cell-factory che essa stessa riterrà di individuare (secondo i criteri della maggiore efficacia per la cura da somministrare, nonché della sicurezza nel trattamento, ad esempio sotto il profilo della tracciabilità del prodotto e della esclusione di contaminazione).

Redazione