Il rischio di licenziamento non autorizza il demansionamento del lavoratore (Cass. n. 21356/2013)

Redazione 18/09/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza emessa dal Tribunale di Trapani n. 289/2007 la Banca Nuova spa veniva condannata al pagamento in favore di L.C. A. della somma di Euro 25.500,00 oltre accessori a titolo di risarcimento del danno per il demansionamento subito dal detto L. C. dal 2000 sino al momento del licenziamento. La Corte di appello di Palermo con sentenza del 1.4.2010 confermava la sentenza impugnata rigettando l’appello della Banca. La Corte territoriale osservava che era certo il demansionamento alla luce della contrattazione collettiva applicabile e del livello di inquadramento dell’appellato posto che il L.C. era analista programmatore (e svolgeva le mansioni di analista programmatore su grandi sistemi presso il CED della Banca come riferito dai testi) mentre dal Marzo 2001 era stato addetto ad attività di mera aggregazione di dati estrapolati da archivi informatici. Tali ultime mansioni erano prive di autonomia e responsabilità, prima godute dal L.C.. Le ragioni di ordine organizzative addotte dalla società costituivano una difesa nuova e comunque apparivano irrilevanti per giustificare un preteso ius variandi che aveva comportato un rilevante sacrificio della professionalità acquisita dal lavoratore. Appariva anche irrilevante la circostanza della mancata reazione del L.C. posto che il rifiuto di svolgere una prestazione dequalificante costituisce per il lavoratore una facoltà ma non un obbligo. Il danno – per la Corte di appello – era stato correttamente determinato in via equitativa in relazione alla professionalità acquisita, alla durata del demansionamento ed all’entità dello stesso. Era stata anche considerata la durata della malattia sofferta e non era risultato provato che il trasferimento proposto valesse a ripristinare la professionalità violata.

Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Banca Nuova spa con 4 motivi; si è costituito il L.C. con controricorso, notificato tuttavia tardivamente. La Banca Nuova ha depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente si da atto che il resistente personalmente ha presentato istanza per ottenere la memoria presentata da controparte ex art. 378 c.p.c., per la quale ha lamentato di non essere stato ammesso ad esaminare.

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. La Corte di appello ha errato nel considerare le ragioni organizzative addotte dalla società per giustificare il mutamento di mansioni del L.C. come una difesa nuova, mentre tali difese erano già state prospettate sin dal primo grado; nello stesso ricorso introduttivo vi era un richiamo alle vicende organizzative della Banca.

Il ricorso è infondato in quanto sul punto la Corte di appello ha adottato una duplice motivazione; da un lato si è osservato che la Banca aveva sviluppato difese ” nuove” sui mutamenti organizzativi a monte del demansionamento, dall’altro lato si è rilevato che, anche se tali ragioni organizzative si fossero rivelate fondate comunque non avrebbero potuto giustificare un mutamento di mansioni che comportava un così rilevante sacrificio della professionalità acquisita dal dipendente come quella accertata in sentenza. Ora quest’ultima ratio decidendi non viene in alcun modo impugnata nel motivo ed è sufficiente per l’accertamento dell’illegittimità del mutamento di mansioni posto che certamente lo ius variandi di cui gode il datore di lavoro (espressione anche della tutela costituzionale della libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost.) può essere esercitato solo nel rispetto l’art. 2103 c.c., mentre è invece emerso che il L.C. ha svolto dalla fine del 2000 mansioni prive di quegli elementi di autonomia e responsabilità precedentemente goduti nell’attività esercitare presso il CED della Banca. Peraltro il motivo non consente, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso in cassazione, neppure di verificare se effettivamente siano state sviluppate in appello difese “nuove”, posto che non si ricostruisce come la questione “ristrutturazione” organizzativa sia stata sviluppata in appello confrontando i motivi di impugnazione con le difese di primo grado.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in relazione all’art. 41 della Costituzione, nonchè l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia.

Il CED era stato soppresso; il L.C. era stato immediatamente trasferito ad una nuova struttura immediatamente operativa ed era stato comunque proposto un trasferimento. La pretesa dequalificazione era comunque finalizzata ad evitare il licenziamento del dipendente; la ristrutturazione rientrava comunque nel libero esercizio dell’attività imprenditoriale garantito dall’art. 41 della Costituzione.

Il motivo appare infondato per quanto già esposto. Certamente rientrava nei poteri dell’imprenditore quello di operare la ristrutturazione indicata con la soppressione del CED della Banca; tuttavia dovevano essere affidate al lavoratore ex art. 2103 c.c., (come ormai chiarito da tempo dalla giurisprudenza di questa Corte) mansioni compatibili con il livello di inquadramento e con la professionalità acquisita. La sentenza impugnata ha accertato che tale compatibilità non sussiste in quanto le nuove mansioni appaiono totalmente prive di autonomia e di responsabilità, elementi che connotavano, in piena evidenza, quelle svolte in precedenza. La Corte di appello ha già osservato che non può ritenersi che il demansionamento sia legittimato dalla volontà di impedire il licenziamento in quanto mansioni dequalificanti devono essere comunque accettate (e prima ancora proposte, il che non sembra neppure essere stato dedotto) dal lavoratore (cfr. cass. N. 28774/2008; Cass. N. 29832/2008; Cass. N. 6572/2006). Ancora la Corte di appello ha osservato che le dedotte finalità del trasferimento (ripristinare la professionalità del L.C.) non sono state provate; nello stesso ricorso non si allega nulla in proposito.

Pertanto la sentenza appare correttamente e congruamente motivata avendo esaminato tutti gli aspetti dell’avvenuto demansionamento e non appare condivisibile ancorare il disposto mutamento di mansioni all’esercizio dei poteri imprenditoriali coperti dall’art. 41 della Costituzione perchè tali poteri (tra cui rientra anche lo ius variandi) devono, come detto, rispettare la norma di cui all’art. 2103 c.c., palesemente violata nella fattispecie.

Con il terzo motivo si allega l’omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. Il L.C. non aveva reagito per circa 4 anni, neppure richiedendo un colloquio con i responsabili delle risorse umane. Le nuove mansioni erano state di fatto accettate.

Il motivo appare infondato avendo sul punto la Corte di appello già congruamente e logicamente motivato. La reazione del lavoratore ad un demansionamento (eventualmente nei casi più gravi con il rifiuto della prestazione), costituisce una facoltà, certamente non un obbligo posto che è onere del datore di lavoro non violare le norme, come quelle di cui all’art. 2013 c.c., poste a tutela della dignità e della professionalità del dipendente e che il lavoratore può essere trattenuto dall’esercizio dei suoi diritti dal pericolo di pregiudicare la propria situazione occupazionale. Peraltro la stessa circostanza della proposta di un trasferimento sembra dimostrare che il datore di lavoro era ben consapevole che le nuove mansioni fossero inadeguate e che si dovesse trovare una soluzione diversa per L. C..

Con l’ultimo motivo si allega la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Non era stato dimostrato il danno, che la Corte di appello ha accertato in base ad elementi neppure dedotti dal ricorrente.

Il motivo appare infondato in quanto come correttamente osservato dalla Corte di appello il danno da demansionamento può essere accertato in via equitativa in relazione ad elementi obiettivi emergenti dalla fattispecie in esame anche ex art. 115 c.p.c. (cfr. Cass. N. 4063/2010; Cass. N. 28274/2008; Cass. N. 29832/2008);

principio cui si è attenuta la Corte territoriale (e prima ancora alla luce della sentenza impugnata il Giudice di prime cure) che ha valutato la durata del mansionamento, la sua entità, il tipo di mansioni esercitate, elementi tutti emergenti obiettivamente dal coso esaminato. L’entità del risarcimento (la cui determinazione spetta al Giudice del merito) peraltro non viene in sè contestata al motivo, nè si offrono argomenti di sorta per ritenerla sproporzionata.

Si deve quindi rigettare il ricorso. Nulla sulle spese in quanto il controricorso è tardivo e non è stata svolta attività difensionale all’odierna udienza.

P.Q.M.

La Corte; rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Così deciso in Roma, il 18 giugno 2013.

Redazione