Il rifiuto della prestazione nella giornata destinata a riposo costituisce grave atto di insubordinazione (Cass. n. 16248/2012)

Redazione 25/09/12
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Svolgimento del processo

Il giudice del lavoro presso il tribunale di Bari, con sentenza del 19.11.2004, rigettava la domanda di C.F., dipendente dalla S.I.R.E.T. s.r.l. con mansioni di operaio qualificato, intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli con lettera de 6.5.1998 per aver opposto un netto rifiuto alla richiesta dell’azienda, comunicatagli il venerdì 17.4.1998, di prestare attività lavorativa nel giorno successivo, il sabato, già destinato al riposo, perchè l’elettricista di turno sarebbe stato assente dal lavoro.

Tale decisione veniva confermata dalla Corte di Appello territoriale sulla scorta dei seguenti argomenti: il fatto contestato al C. era stato provato dalle risultanze della prova orale; il CCNL di categoria prevedeva espressamente che il lavoratore non poteva rifiutarsi, salvo giustificato motivo, di compiere lavoro straordinario, notturno e festivo; l’addebito mosso al C. era da qualificare come un grave atto di insubordinazione non potendo considerarsi valido il motivo addotto dal lavoratore a giustificazione del suo rifiuto di prestare attività lavorativa il sabato successivo; la sanzione irrogata era proporzionata ai fatti contestati.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso il C. affidato a cinque motivi.

La S.I.R.E.T. s.r.l. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 2119 c.c., della L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 1 e 5 ed agli artt. 24 e 6 CCNL per i lavoratori addetti alla piccola e media industria metalmeccanica ed alla installazione di impianti. Si lamenta che nel corso del giudizio di merito nessuna prova era stata fornita dalla S.I.R.E.T. sulla legittimità dell’irrogato licenziamento. Viene, quindi, formulato il seguente quesito di diritto: “la violazione della L. n. 604 del 1966, art. 5 e della legislazione speciale e generale doveva procurare la dichiarazione di illegittimità del licenziamento senza preavviso con ordine di reintegrazione nel posto e nella retribuzione”.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro (in relazione agli artt. 1455, 2106, 2107, 2119, 2697 c.c., della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5 ed all’art. 116 c.p.c.). Dopo aver riportato il contenuto di alcuni commi dell’art. 6 del CCNL di categoria il ricorrente ha definito quesito la seguente affermazione:

“La società ha violato la normativa contrattuale nonchè la legislazione generale e speciale così come invocata per aver richiesto lo straordinario al di fuori della eccezionalità; per non averlo concordato in sede aziendale; per non aver provato l’insorta necessità eccezionale”.

Con il terzo motivo si denuncia la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso. In particolare, la impugnata sentenza avrebbe ignorato il fatto che la società non aveva fornito la prova della gravità dell’addebito e che, quindi, doveva essere dichiarata la illegittimità del licenziamento.

Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali (artt. 1455, 2106, 2107, 2119 c.c. e artt. 112 e 116 c.p.c.) nonchè per motivazione contraddittoria laddove la corte di merito, dopo aver riconosciuto che il lavoratore aveva provato documentalmente la visita medica urologica fissata per il sabato (omissis), aveva poi affermato di non poterne tenere conto.

Con il quinto motivo si denuncia la omessa ed insufficiente motivazione per non essere stato valutato nella impugnata sentenza l’esemplare curriculum professionale del lavoratore che non era stato mai destinatario di un provvedimento disciplinare e la omessa valutazione concreta e complessiva dei fatti sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo e del requisito della proporzionalità tra addebito e sanzione irrogata. Tutti i motivi sono inammissibili.

Il primo per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006 e prima del 4 luglio 2009, e quindi anche al ricorso in esame.

Ai sensi dell’art. 366 cit., nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto idoneo a far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamele compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. 7 aprile 2009 n. 8463).

Nel perseguire tale scopo il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis c.p.c., deve infatti compendiare la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie (Cass. 12 marzo 2012 n. 3864). E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge” (Cass. 17 luglio 2008 n. 19769), ovvero allorquando il quesito sia formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere alla Corte un inammissibile accertamento di fatto (Cass. sez. un. 28 settembre 2007 n. 20360).

E’ di tutta evidenza che il motivo in esame è del tutto privo dei sopra richiamati requisiti di ammissibilità. Ed infatti si limita a chiedere a questa Suprema Corte puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge.

Il secondo motivo denuncia la violazione di norme del CCNL di categoria senza neppure formulare censure specifiche alla impugnata sentenza ed è del tutto privo di quesito.

Il terzo ed il quinto motivo denunciano vizio di motivazione ma non evidenziano, nel ragionamento del giudice di merito quale risulta dalla sentenza, nè una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento nè che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della “ratio decidendi”, e cioè l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione adottata. In effetti i lamentati vizi consistono in un inammissibile difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge in cui un valore legale è assegnato alla prova (Cass. 29 settembre 2009 n. 20844; 6 marzo 2008 n. 6064; SU. 11 giugno 1998 n. 18885).

Peraltro, la sentenza impugnata ha adeguatamente motivato e in ordine alla prova fornita dalla società circa l’addebito mosso al C. (sul punto il con il terzo motivo il ricorrente genericamente afferma che detta prova non era stata data) e sulla proporzionalità tra l’addebito e la sanzione irrogata inquadrandolo quale grave atto di insubordinazione capace di per sè solo di giustificare il provvedimento espulsivo.

Infine, anche il quarto motivo – rubricato come violazione e falsa applicazione di norme e accordi collettivi – denuncia il vizio di motivazione contraddittoria senza tenere in alcun conto delle argomentazioni addotte dalla corte di appello circa le ragioni per le quali la certificazione dell’ambulatorio di urologia del Policlinico di Bari non poteva valere a giustificare il rifiuto di prestare l’attività lavorativa da parte del C., motivazione del tutto coerente e tutt’altro che contraddittoria.

Per quanto sin qui esposto il ricorso va, dunque, rigettato.

Il ricorrente, per il principio della soccombenza va condannato alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come da dispositivo.

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio in favore della società resistente, liquidate in Euro 40,00 per esporsi ed Euro 2.500,00 per onorari oltre accessori come per legge.

Redazione