Il primario che esclude dalla sola operatoria il giovane aiutante può essere colpevole di abuso d’ufficio (Cass. pen. n. 30798/2012)

Redazione 27/07/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con sentenza in data 19 gennaio 2009 il Tribunale di Ragusa dichiarava ******, primario della divisione di urologia dell’ospedale di (omissis), colpevole del reato di abuso di ufficio contestato al capo A, limitatamente all’abuso commesso nei confronti di C.G., nonchè del reato di truffa aggravata contestata al capo C, in esso assorbito il reato di truffa contestato al capo B, relativamente all’ipotesi di truffa aggravata ai danni dell’AUSL (omissis) di Ragusa e lo condannava, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante, alla pena di anni uno di reclusione in ordine al reato di abuso di ufficio e alle pena di mesi nove di reclusione ed Euro 500,00 di multa in ordine al reato di truffa, con la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata della pena principale, riconosciuto il beneficio della sospensione condizionale, nonchè al risarcimento del danno, da liquidarsi dinanzi al competente giudice civile, e alla rifusione delle spese in favore delle parti civili C.G. e AUSL (omissis) di Ragusa, cui veniva assegnata una provvisionale di Euro 10.000,00 ciascuna.

Con sentenza in data 4 luglio 2011 la Corte di appello di Catania ha riformato la predetta sentenza, assolvendo l’imputato dal reato di abuso di ufficio perchè il fatto non costituisce reato e rideterminando la pena per il residuo reato di truffa aggravata in mesi sei di reclusione ed Euro 400,00 di multa, revocando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e le statuizioni civili relative esclusivamente alla condanna al risarcimento del danno nei confronti di C.G. e confermando le restanti statuizioni.

La vicenda trae origine dalla denuncia presentata dal ********, medico in servizio presso l’ospedale di (omissis) con mansioni di aiuto, nei confronti del primario della divisione di urologia Dott. Ca. per la sua esclusione – secondo il denunciarne, ingiustificata – dalla sala operatoria negli anni 2000, 2001, 2002, salvo che per interventi urgenti.

La Corte territoriale ha ritenuto che il reato di abuso di ufficio contestato sussistesse dal punto di vista oggettivo, considerato l’atteggiamento dispotico del primario, ma non sotto il profilo dell’elemento psicologico essendo emerso, in particolare dalle dichiarazioni del direttore sanitario ********, che l’imputato aveva agito nella convinzione di poter rendere un migliore servizio ai pazienti perchè convinto dell’inidoneità del ******** a intervenire in sala operatoria e non con lo scopo di arrecare allo stesso un ingiusto danno.

Il reato di truffa riguarda invece la mancata comunicazione all’AUSL (omissis) delle visite mediche effettuate dal Dott. Ca. nei mesi di ottobre-novembre 2002 nei confronti di due pazienti in uno studio medico di (omissis), diverso da quello di (omissis) in cui il medico era autorizzato a svolgere attività professionale intra moenia c.d. allargata, senza rilasciare ai pazienti in questione ricevuta fiscale, inducendo così in errore l’azienda sanitaria sul rispetto del vincolo di esclusività cui il ********. era tenuto e, inoltre, l’effettuazione di altre visite mediche (dieci) nel mese di novembre 2002 in studi diversi da quello di (omissis) indicato e autorizzato per l’attività intra moenia. In tal modo l’imputato avrebbe conseguito l’ingiusto profitto costituito dai corrispettivi percepiti per le visite mediche in relazione alle quali non era stata rilasciata ricevuta fiscale (130,00 Euro per ogni visita medica, somme che avrebbero dovuto essere versate all’AUSL) e dalla corresponsione, nonostante la violazione del vincolo di esclusività, dell’indennità di esclusività e di posizione (fissa e variabile) pari a complessivi 1.762,88 Euro, con corrispondente danno per l’ente datore di lavoro.

11 giudice di appello ha ritenuto sussistente il denunciato reato di truffa, individuando il raggiro nell’omessa fatturazione e nell’omessa comunicazione all’AUSL (omissis) del mutamento dello studio.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Catania propongono ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, sia la parte civile C.G. che l’imputato.

Con il ricorso proposto nell’interesse della parte civile C., ai soli effetti civili, si deduce l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p., e la mancanza o manifesta illogicità della motivazione, anche per travisamento del fatto, evidenziandosi che il giudice di primo grado, quanto all’elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio, aveva enucleato tre distinti elementi probatori rilevanti a tal fine: 1) la particolare situazione di tensione venutasi a creare nel reparto tra l’imputato e la persona offesa; 2) l’atteggiamento contraddittorio del primario che aveva escluso dalla sala operatoria c.d. di elezione il ******** perchè a suo dire incapace, ma poi lo aveva inserito nei turni di reperibilità, che comportavano l’intervento del medico in sala operatoria per fronteggiare operazioni urgenti in assenza del primario; 3) il reintegro del ******** negli ordinari turni operatori dopo la presentazione della denuncia. Il giudice di appello avrebbe, con argomentazioni manifestamente illogiche, sminuito il valore di detti elementi e avrebbe, inoltre, travisato il contenuto dell’esame testimoniale del ********, direttore sanitario dell’ospedale, attribuendo al teste un’interpretazione della condotta del primario tendente a giustificare le modalità organizzative del reparto di urologia nella prospettiva di migliorare il servizio per i pazienti. Erroneamente, inoltre, il giudice di appello aveva ritenuto le conclusioni del giudice di primo grado in ordine alle condotte di abuso nei confronti di altri medici (che il Tribunale aveva ritenuto insussistenti o comunque penalmente irrilevanti) sovrapponibile all’abuso posto in essere nei confronti del Dott. C., nei cui confronti tuttavia la pronuncia assolutoria all’esito del giudizio di appello era fondata sulla mancanza di prova in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo.

Con il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato si deduce:

1) l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 640 c.p., anche in relazione al D.Lgs. n. 502 del 1992, in quanto non sarebbero ravvisabili nella condotta dell’imputato gli estremi del reato di truffa, tanto sotto il profilo dell’elemento materiale che di quello soggettivo; la condotta truffaldina era stata infatti individuata dal giudice di merito in due distinte condotte omissive che non potrebbero comunque integrare un raggiro, elemento caratterizzante del reato di truffa che postula un’attività positiva: la prima condotta omissiva (omessa fatturazione) aveva peraltro comportato il mancato versamento all’AUSL solo della percentuale lorda del 12,50% di quanto pagato dal paziente e comunque nessuna disposizione patrimoniale da parte dell’azienda sanitaria, mentre solo la seconda condotta omissiva (omessa comunicazione del mutamento dello studio) avrebbe potuto essere posta in relazione con l’illegittima corresponsione dell’indennità di esclusività e di posizione all’imputato, ma costituiva un mero illecito disciplinare per il quale il Dott. Ca. D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 15 quinquies, era stato già sanzionato con la sospensione dell’autorizzazione dell’attività professionale inframuraria nel suo studio privato di Vittoria per sei mesi;

2) la mancanza di motivazione in ordine alle doglianze difensive contenute nei motivi di appello, con riferimento alla mancata fatturazione delle visite mediche solo in due occasioni con conseguente mancato introito per l’azienda sanitaria di appena Euro 13,50 per visita, circostanza rilevante sotto il profilo della vantazione dell’elemento soggettivo, della mancanza di un atto di disposizione patrimoniale da parte dell’azienda sanitaria, della rilevanza solo disciplinare in ordine alle visite mediche effettuate in studi non autorizzati.

Il ricorso della parte civile C. è fondato.

Preliminarmente la Corte rileva che sussiste, contrariamente a quanto sostiene la difesa dell’imputato, l’interesse della parte civile C. ad impugnare, ai fini civili, la sentenza di assoluzione dell’imputato Ca. dal reato di abuso di ufficio con la formula “perchè il fatto non costituisce reato” (per mancanza dell’elemento psicologico), in quanto, come le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato nella sentenza n. 40049 del 29 maggio 2008, ric. Guerra, “non può negarsi l’interesse della parte civile ad impugnare la decisione con la quale l’imputato sia stato prosciolto con la formula perchè il fatto non costituisce reato anche quando questa manca di efficacia preclusiva. E ciò perchè l’interesse ad impugnare assume un contenuto di concretezza tutte le volte in cui dalla modifica del provvedimento impugnato possa derivare l’eliminazione di un qualsiasi effetto pregiudizievole per la parte che ne invoca il riesame, il che avviene anche quando la parte civile miri ad assicurarsi conseguenze extrapenali a lei favorevoli, che possono comunque influire nel giudizio per il risarcimento dei danni, ed in particolare a sostituire formule che possano limitare il soddisfacimento, nella sede competente, della pretesa riparatoria. La parte civile ha dunque interesse ad impugnare la sentenza di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, che non abbia effetto preclusivo, al fine di ottenere l’affermazione di responsabilità per il fatto illecito perchè chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della sua controparte si giova di tale accertamento e si trova in una posizione migliore di chi deve cominciare dall’inizio (cfr. Sez. III, 15 aprile 1999, n. 6581, *********, m, 213840; Sez. VI 6 febbraio 2003, n. 13621. Valle, m. 227194; Sez. V, 23 febbraio 2005, n. 15245, *******, m. 232157)”.

Per quanto riguarda il reato di abuso d’ufficio in relazione all’esclusione ingiustificata del ******** dall’attività operatoria c.d. di elezione, reato in ordine al quale l’imputato era stato dichiarato responsabile con la sentenza di primo grado, il giudice di appello, pur affermando che “la condotta dell’imputato è certamente connotata dall’illiceità essendosi collocata ben al di là del legittimo esercizio del potere organizzativo che gli competeva in virtù della sua qualità di primario”, ha sostenuto che l’accertata “gestione dispotica” del primario Dott. Ca. non è stata esercitata “con l’intenzione di provocare un ingiusto danno ma probabilmente nella convinzione di ottenere un migliore servizio per i pazienti” così escludendo che nei comportamenti posti in essere dall’imputato, nella gestione del reparto in generale (originariamente erano stati contestati varie ipotesi di abuso di ufficio, ai danni anche di altri medici) -ed anche nello specifico rapporto con il ******** – ricorresse il dolo intenzionale.

Le doglianze della parte civile appaiono fondate nella parte in cui si evidenzia come la Corte territoriale abbia omesso di prendere in considerazione, ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio ai danni del C., il particolare clima di tensione nei rapporti tra l’imputato e la persona offesa (cui lo stesso giudice di appello aveva fatto riferimento nel contesto della motivazione della sentenza impugnata), che costituiva il principale elemento cui il giudice di primo grado aveva attribuito valenza probatoria relativamente alla sussistenza del dolo intenzionale. Tale omissione appare tanto più rilevante perchè la sentenza impugnata ha riformato, quanto al reato di abuso di ufficio, quella di primo grado e il giudice di appello aveva quindi l’obbligo di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificarne la riforma (Cass. Sez. Un. 12 luglio 2005 n.33748, *******).

Anche le ulteriori doglianze della parte civile ricorrente sono fondate.

Quanto all’inserimento del C., escluso dall’attività operatoria ordinaria e programmata, nei turni di reperibilità per fronteggiare le urgenze in assenza dello stesso ********., la Corte di appello ha infatti ritenuto che non si trattasse di un elemento significativo ai fini della prova del dolo intenzionale dell’abuso di ufficio, stante “la minore importanza e frequenza degli interventi operatori”, senza curarsi di contrastare le ragionevoli argomentazioni del giudice di primo grado sulla contraddittorietà di destinare un sanitario ritenuto dall’imputato “imperito, negligente e svogliato” (e, a suo dire, per questo escluso dagli interventi di routine programmati) ad un’attività non sporadica (gli interventi di urgenza erano stati compiuti in numero superiore ai dodici allegati dal Ca., come si desume dalla motivazione della sentenza di primo grado) e che comunque imponeva di fronteggiare, senza la supervisione del primario, situazioni di urgenza e di emergenza delle quali non si sarebbe potuto negare ex ante la complessità.

Anche la valenza sintomatica dell’ulteriore elemento indicato dal giudice di primo grado ai fini della prova del dolo intenzionale, costituito dalla riammissione del ******** nei turni operatori programmati dopo la presentazione della denuncia penale nei confronti del primario, risulta essere stato illogicamente sottovalutato nella motivazione della sentenza impugnata, in cui si rileva semplicisticamente che si tratta di “comportamento successivo ai fatti”. La Corte rileva tuttavia che la prova dell’elemento psicologico del reato può desumersi da qualunque elemento di fatto o da qualunque indizio giuridicamente apprezzabile, compreso quindi anche il comportamento successivo dell’imputato o di altri, allorchè questo, da solo o nel complesso di tutte le risultanze processuali, giustifichi il convincimento espresso dai giudici del merito.

Inoltre, con particolare riferimento al reato di abuso di ufficio, questa Corte ha affermato che, ai fini della prova dell’abuso di ufficio nel suo aspetto soggettivo, è legittimo dare rilievo a singoli comportamenti antecedenti, contestuali o anche successivi all’atto o alla condotta che designa l’abuso (Cass. sez. VI 27 settembre 1996 n. 10008, *******).

Fondati sono, infine, anche i rilievi difensivi circa l’attribuzione al Dott. R., direttore sanitario dell’ospedale di (omissis) esaminato quale teste nel giudizio di primo grado, dell’affermazione che con riferimento ai vari episodi di “gestione dispotica del reparto” nei confronti di altri medici il Dott. Ca. avesse agito non per “provocare un ingiusto danno ma probabilmente nella convinzione di ottenere un migliore servizio per i pazienti” e alla sovrapponibilità di tale valutazione all’abuso d’ufficio ritenuto in sentenza, avente ad oggetto specificamente l’esclusione del ******** dalla sala operatoria. In particolare va rilevato che, come correttamente osservato nel ricorso della parte civile C., l’imputato era stato assolto dagli altri episodi di abuso d’ufficio originariamente contestati (consistenti nell’aver impedito agli altri medici del reparto la partecipazione a corsi di aggiornamento professionale, nei rimproveri pubblici, nei toni ingiuriosi, nelle aggressioni fisiche nei confronti degli altri medici, nell’aver osteggiato l’istituzione di un ambulatorio di urologia e di un servizio di andrologia, nell’esclusione dall’attività operatoria dei dottori T. e c.) per motivi diversi dalla carenza dell’elemento soggettivo. Inoltre il ********, con specifico riferimento alle ragioni dell’esclusione dalla sala operatoria del ********, aveva dichiarato di non saperle indicare (f. 115 verbale allegato al ricorso della parte civile) pur affermando di aver sollecitato il Dott. Ca. a inserire il ******** nei turni operatori ordinali “a prescindere dai problemi personali che ci potevano essere”.

La pronuncia assolutoria del giudice di appello in ordine al reato di abuso di ufficio con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”, per mancanza di sufficienti elementi probatori sull’elemento soggettivo, non risulta pertanto adeguatamente giustificata.

La sentenza impugnata va pertanto annullata con riferimento al reato di cui all’art. 323 c.p., con rinvio ex art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello che provvedere anche in ordine alle spese del presente grado.

Quanto al ricorso dell’imputato Ca., la Corte osserva quanto segue.

Il reato di truffa è prescritto per intervenuta prescrizione, essendo il momento consumativo individuato nel l’ottobre-novembre 2002. Tenuto conto dei fatti interruttivi e dei periodi di sospensione che complessivamente ammontano a un anno, sette mesi e diciassette giorni (in primo grado: mesi quattro e giorni tredici dall’11 luglio 2006 al 24 novembre 2006 per astensione dalle udienze del difensore, mesi uno e giorni ventuno dal 23 febbraio 2007 al 13 aprile 2007 per rinvio chiesto dal difensore, giorni sessanta dal 22 febbraio 2008 al 6 giugno 2008 per impedimento del difensore, giorni sessanta dal 6 giugno 2008 al 19 settembre 2008 per impedimento del difensore, giorni ventisette dal 23 dicembre 2008 al 19 gennaio 2009 per rinvio chiesto dal difensore; in appello mesi cinque, giorni cinque dal 18 ottobre 2010 al 23 marzo 2011 per rinvio chiesto dal difensore, mesi tre e giorni undici dal 23 marzo 2011 al 4 luglio 2011 per rinvio chiesto dal difensore) il termine massimo di prescrizione, a partire dal 30 novembre 2002 è scaduto il 16 gennaio 2012. Limitatamente al reato di truffa va, pertanto, disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

Le censure contenute nel ricorso dell’imputato vanno comunque esaminate, attesa la pronuncia di condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile AUSL (omissis) di Ragusa. In tema di declaratoria di estinzione del reato, infatti, l’art. 578 c.p.p., prevede che il giudice d’appello o la Corte di Cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o prescrizione il reato per il quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono tenuti a decidere sull’impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernano gli interessi civili e al fine di tale decisione i motivi di impugnazione proposti dall’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi trovare conferma della condanna al risarcimento del danno (anche solo generica) dalla mancanza di prova della innocenza dell’imputato, secondo quanto previsto dall’art. 129 c.p.p., comma 2, (Cass. sez. VI 25 novembre 2009 n.3284, Mosca; sez. VI 8 giugno 2004 n. 31464, ********).

Il primo motivo di ricorso, avente ad oggetto l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 640 c.p., anche in relazione al D.Lgs. n. 502 del 1992, è infondato.

Il raggiro che ha determinato la corresponsione all’imputato di attività non dovute è stato individuato dal giudice di appello nell’”omessa fatturazione” e nell’”omessa comunicazione all’AUSL del mutamento dello studio”. Data l’estrema sinteticità della motivazione della sentenza impugnata sul punto si impone una lettura unitaria della sentenza di appello e di quella di primo grado, di segno conforme quanto al reato di truffa, da cui si evince che: a) dall’anno 2000 il Dott. Ca., che aveva optato per l’esercizio della libera professione intramuraria assumendo il vincolo di esclusività del rapporto di lavoro, era autorizzato a svolgere attività professionale intra moenia c.d. allargata – al di fuori della struttura pubblica di appartenenza, in uno studio prescelto dal sanitario – a partire dal 29 maggio 2002 esclusivamente nello studio sito in (omissis) nei giorni di lunedì e giovedì dalle ore 16,00 alle ore 20,00; b) in due occasioni, nell’ottobre e nel novembre 2002, era stato accertato che il Dott. Ca. aveva effettuato visite in uno studio medico non più autorizzato (a (omissis)), percependo la somma di 130,00 Euro dai pazienti ai quali non era stata rilasciata ricevuta fiscale e omettendo di comunicare l’effettuazione delle visite nel rendiconto mensile diretto all’azienda sanitaria; c) in altri dieci casi, nel novembre 2002, le visite erano state effettuate presso gli studi di Agrigento ed Trapani non autorizzati, senza indicare nella fattura e nel modello riepilogativo mensile la sede ove era stata effettuata la visita medica e la reale data della prestazione, e il Dott. Ca. aveva comunque percepito l’indennità di esclusiva e di posizione (fissa e variabile) pari a 1.762,88 Euro mensili.

Da quanto accertato poteva desumersi che l’imputato nei mesi di ottobre – novembre 2002 (la contestazione al capo B riguardante i due pazienti visitati nello studio di (omissis), senza rilascio di ricevuta fiscale, era stata correttamente assorbita, con la sentenza di primo grado, in quella al capo C in cui ricomparivano i nomi dei due pazienti in questione) aveva violato il vincolo di esclusività inerente il suo rapporto di lavoro con l’AUSL e aveva indebitamente percepito la c.d. indennità di esclusiva e di posizione (fissa e variabile) pari a 1.762,88 Euro mensili.

Se è discutibile la qualificazione giuridica della condotta consistita nel mancato versamento all’AUSL dei corrispettivi delle prestazioni mediche per le quali erano stati omessi il rilascio della ricevuta fiscale e il versamento all’azienda sanitaria della parte dei corrispettivi di spettanza dell’azienda (per la qualificazione giuridica come peculato cfr. Cass. sez. VI 17 settembre 2009 n.39695, Russo; sez. VI 6 ottobre 2004 n. 2969, ******), non può non rilevarsi che il mancato rilascio della ricevuta fiscale nei due casi in questione era accompagnato dalla mancata comunicazione delle visite nel rendiconto mensile che il sanitario era tenuto a trasmettere all’AUSL in virtù dell’autorizzazione a svolgere attività intra moenia c.d. allargata, che comportava il divieto di effettuare attività sanitaria a titolo non gratuito in studi diversi da quello specificamente autorizzato e correlativamente la fruizione di non indifferenti vantaggi economici (indennità di esclusività, indennità di posizione fissa e variabile in misura intera con rateo di tredicesima, retribuzione di risultato) e di carriera (titoli preferenziali per il conferimento di incarichi di direzione). Il mancato rilascio della ricevuta fiscale era pertanto diretto nei due casi in esame, unitamente alla mancata comunicazione delle visite in questione nel rendiconto mensile, ad occultare l’attività professionale esercitata in studi professionali non autorizzati in violazione del vincolo di esclusività, con conseguente induzione in errore dell’AUSL sul rispetto del vincolo e sulla spettanza dei benefici economici connessi.

E’ peraltro principio consolidato della giurisprudenza di legittimità che in materia di truffa contrattuale anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di un raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato (Cass. sez. II 14 ottobre 2009 n. 41717, *********; sez. II 29 ottobre 2008 n. 47623, *********; sez. II 4 ottobre 2006 n. 35185, *****; sez. II 11 ottobre 2005 n. 39905, *********) e che il reato in esame è configurabile non soltanto nella fase di conclusione del contratto, ma anche in quella dell’esecuzione allorquando una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca in errore l’altra parte con artifizi e raggiri, omettendo intenzionalmente la comunicazione di circostanze rilevanti che si ha il dovere di far conoscere, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno (Cass. sez. VI 3 aprile 1998 n. 5579, ******; sez. II 10 novembre 1989 n. 3685, ********).

L’atto di disposizione patrimoniale costituito dalla corresponsione dell’indennità di esclusiva e di posizione da parte della AUSL (omissis) di Ragusa è stato pertanto correttamente ritenuto dai giudici di merito come l’effetto del comportamento truffaldino dell’imputato costituito, nei casi contestati di prestazioni effettuate al di fuori dello studio medico e degli orari indicati nell’autorizzazione (come risultava dalle dichiarazioni dei pazienti esaminati quali testi e dalle ammissioni dello stesso imputato), dall’aver fatto apparire rispettato il vincolo di esclusività con i raggiri costituiti dal tenere occultata l’attività prestata in studi professionali non autorizzati e al di fuori dell’orario consentito evitando di lasciare tracce dell’attività svolta in violazione dei rigorosi limiti dell’autorizzazione (in taluni casi non erano state emesse fatture e le visite non erano state inserite nei rendiconti mensili, in altri casi le fatture erano state emesse ma con riferimento a giorni diversi).

La tesi difensiva che la condotta dell’imputato integri una mera violazione disciplinare e non abbia “violato i principi cardine dei tipo di rapporto esclusivo trasformandolo in una sorta di attività libero professionale extramuraria” è opinabile, ma lascia comunque impregiudicata la non spettanza, in caso di violazione del dovere di esclusività, degli incentivi economici previsti all’epoca per i sanitari che avessero optato per l’esercizio della libera professione intramuraria (la L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 72, comma 7, prevedeva, in caso di violazione degli obblighi connessi all’esclusività delle prestazioni, la risoluzione del rapporto di lavoro e la restituzione dei proventi ricevuti, salvo che il fatto costituisse reato), incentivi economici evidentemente compresi nella pretesa risarcitoria della parte civile.

Il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte di appello, sia pur con una motivazione estremamente concisa, ha individuato i raggiri messi in atto dall’imputato, ha esaminato e valutato la versione difensiva dell’occasionalità delle visite e della mera dimenticanza dell’omesso rilascio delle fatture disattendola motivatamente (le visite eseguite in studi non autorizzati erano ben dieci in un mese) ed ha escluso che la limitata entità del danno patrimoniale potesse far escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo da parte dell’imputato, persona che per il ruolo di primario non poteva ignorare la disciplina di settore. Non vi è pertanto difetto assoluto di motivazione e comunque il giudice di legittimità, ai fini del vaglio di congruità e completezza della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento – ove si tratti di una sentenza pronunciata in grado di appello – sia alla sentenza di primo grado che alla sentenza di secondo grado, che si integrano vicendevolmente, dando origine ad enunciati ed esiti assertivi organici ed inseparabili. Tale dato, immanente nella dinamica del processo decisionale del giudice di merito, è tanto più significativo allorchè, come nel presente caso, la sentenza di appello abbia confermato quanto al reato di truffa le statuizioni del giudice di primo grado (cfr., ex plurimis: Cass. sez. IV 24 ottobre 2005 n. 1149, *********). Del resto il dovere di motivazione della sentenza deve ritenersi adempiuto dal giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. sez. VI 4 maggio 2011 n. 20092, Schowick).

La sentenza impugnata con riferimento al reato di cui all’art. 640 c.p., estinto per intervenuta prescrizione, va pertanto annullata senza rinvio, ferme restando le relative statuizioni civili.

L’imputato ricorrente va condannato alla rifusione delle spese in favore della parte civile Azienda sanitaria provinciale di Ragusa, nella misura liquidata in dispositivo.

 

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata con riferimento al reato di cui all’art. 323 c.p., con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà anche in ordine alle spese del presente grado. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al reato di cui all’art. 640 c.p., perchè estinto per intervenuta prescrizione, ferme restando le relative statuizioni civili, e condanna il ricorrente imputato Ca. alla rifusione in favore della parte civile Azienda sanitaria provinciale di Ragusa delle spese del grado che liquida in Euro 3.500,00 oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A..

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