Il praticante avvocato abilitato non può patrocinare davanti al giudice monocatico del lavoro (Cass. n. 10102/2013)

Redazione 29/04/13
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Svolgimento del processo

C.M., con ricorso depositato in data 15.2.2000, conveniva innanzi al Tribunale di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, la F.lli R. s.n.c., di cui era stato dipendente in qualità di autotrasportatore, chiedendone la condanna al pagamento di L. 83.312.675 per differenze retributive e TFR. Con sentenza n. 121/05 l’adito giudice, in parziale accoglimento della domanda, condannava la F.lli Ragni al pagamento della somma di Euro 11.000,000 oltre accessori di legge.
La Corte di appello di Perugia, con decisione del 3.11.2008, accogliendo il gravame proposto dalla menzionata società dichiarava la nullità del ricorso introduttivo del giudizio e di tutti gli atti conseguenti perché il difensore che lo aveva proposto e sottoscritto non era a ciò abilitato in quanto solo con delibera in data 28.4.2000 era stato iscritto all’Albo degli Avvocati.
Precisava la Corte che l’art. 7 della L. 16.12.1999 n. 479 elencava dettagliatamente e tassativamente le materie in cui i praticanti avvocati, una volta conseguita l’abilitazione al patrocinio, potevano esercitare la professione innanzi al Tribunale ed evidenziava che tra queste non erano incluse le controversie in materia di lavoro e previdenza che, a seguito della riforma c.d. del giudice unico, non erano state assegnate al Giudice di Pace ma erano di esclusiva competenza del Tribunale civile in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso il C. affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso la F.lli R. s.n.c. che ha anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e/o falsa applicazione della norma di cui all’art. 8 RDL 27 novembre 1933 n. 1578 convertito in legge 22 gennaio 1934 n. 36 in relazione all’art. 7 legge 16 dicembre 1999 n. 479 per aver ritenuto la Corte di merito il difetto di “ius postulandi” in capo ai praticanti avvocati abilitati nelle cause di lavoro sulla scorta di una restrittiva ed errata interpretazione dell’art. 7 cit.. In particolare, si assume: che l’inciso contenuto nel primo comma “dopo il conseguimento dell’abilitazione al patrocinio” debba ritenersi riferito solo a coloro che, all’entrata in vigore della legge, non erano abilitati al patrocinio e non anche ai praticanti avvocati abilitati; che le cause di lavoro erano cosa ben diversa dagli “affari civili” in riferimento ai quali erano state dettagliatamente indicate le materie in cui era ammesso il patrocinio innanzi al Tribunale da parte del praticante avvocato abilitato e che in nessuna parte del citato art. 7 le controversie di lavoro erano state espressamente sottratte al patrocinio dei praticanti avvocati.
Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la nullità della sentenza per omessa, apparente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio “…in relazione all’applicazione nel tempo dell’art. 8 RDL n. 1578/1933 sull’ordinamento della professione forense a seguito della entrata in vigore dell’art. 7 della legge n. 479 del 16 dicembre 1999 – applicabilità della teoria dei diritti quesiti o dei fatti compiuti secondo dottrina a giurisprudenza”.
Si assume che la L. n. 479/1999 in quanto emanata nell’ambito delle norme correttive e di coordinamento previste dal decreto legislativo n. 51/1998 istitutivo del Giudice Unico di primo grado non avrebbe potuto incidere sulla validità e la efficacia della norma di cui all’art.8 del RDL n. 1578/1933 come modificato dall’art. 246 del D.lgs. n. 51/1998 che avrebbe dovuto trovare applicazione “fino a quando non sarà attuata la complessiva riforma della professione forense”. E, quindi, il citato articolo 7 non avrebbe potuto privare i praticanti avvocati già abilitati a patrocinare le cause di lavoro innanzi alle Preture dello “ius postulandi” nelle medesime cause innanzi al Tribunale.
Con il terzo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione della norma di cui agli artt. 8 e 70 RDL n. 1578/1933, omessa, apparente o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo per il giudizio per non aver la Corte di merito considerato la natura costitutiva della iscrizione nel registro dei praticanti avvocati. Si assume che fino alla cancellazione dell’albo il praticante avvocato abilitato conserva lo “ius postulandi”, anche nella cause di lavoro innanzi al Tribunale in virtù dei disposto del citato art. 8.
Tutti i tre motivi si concludono con quesito di diritto.
I tre motivi da trattare congiuntamente sono infondati.
Va, in primo luogo, rilevato che la legge 16 dicembre 1999 n. 479 – c.d. legge Carotti – fonte di pari grado del D.Lgs. n. 51/1998, istitutivo del Giudice Unico di primo grado, ben poteva introdurre modifiche al disposto dell’art. 8 RDL n. 1578/1933 così come modificato dall’art. 246 D.Lgs n. 51/1998 cit..
Inoltre, osserva il Collegio che la Corte di merito, nell’applicare il disposto dell’art. 7 L. n. 479/1999 cit. non ha violato l’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale – e cioè il principio secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire – in quanto il ricorso introduttivo del giudizio, ritenuto nullo perché sottoscritto da difensore non abilitato al patrocinio innanzi al Tribunale, era stato depositato in data 15.2.2000 nella vigenza del citato art. 7.
Riguardo al rilievo del ricorrente secondo cui l’inciso “I praticanti avvocati, dopo il conseguimento dell’abilitazione al patrocinio..” contenuto nel detto art. 7 si rivolgerebbe solo a chi non ha ancora conseguito detta abilitazione, si osserva che non è fondato essendo in contrasto con il tenore letterale della norma che ha inteso riferirsi ai praticanti avvocati in genere, senza distinguere tra quelli già abilitati e coloro che detta abilitazione non avevano ancora conseguito.
Quanto alle cause nelle quali il citato art. 7 co. 1 lett. a) ha previsto, per il praticante avvocato abilitato, la possibilità di esercitare l’attività professionale con riferimento agli “affari civili” il Collegio ritiene che tra quelle indicate al n. 1) “cause, anche se relative a beni immobili, di valore non superiore a lire cinquanta milioni” – diversamente da quanto affermato dalla Corte di merito – debbono ricomprendersi anche quelle in materia di lavoro e previdenza ed assistenza che, prima della istituzione del giudice unico di primo grado, rientravano nella competenza pretorile. Ed infatti, laddove il Legislatore ha inteso far riferimento alla materia della causa lo ha espressamente detto come ai punti 2) e 3) della lettera a) del citato art. 7 co. 1. Peraltro, la distinzione delle cause di lavoro e in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria nell’ambito degli affari civili potrebbe derivare dalla diversità del rito ma il criterio del rito è estraneo all’art. 7 co. 1 lettera a).
Purtuttavia, la decisione della Corte di merito va confermata in quanto il difensore del C. era carente dello “ius postulandi” in relazione alla causa introdotta con ricorso depositato il 15.2.2000 il cui valore eccedeva i cinquanta milioni di lire essendo stata chiesta la condanna della convenuta F.lli Ragni s.n.c. al pagamento della somma di lire 83.312.675. L’impugnata sentenza il cui dispositivo risulta, comunque, conforme a diritto va confermata anche con motivazione corretta in applicazione dell’art. 384 u.c. c.p.c..
Vale precisare, con riferimento al terzo motivo, che nel caso in esame non viene in rilievo la natura costitutiva della iscrizione nel registro di praticanti avvocati – che ben può permanere anche senza l’abilitazione al patrocinio (Cass. n. 17761 del 30 giugno 2008) – in quanto l’art. 7 cit. disciplina diversamente l’abilitazione al patrocinio dei praticanti avvocati.
Infine, il ricorso sollecita questa Corte a sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 7 per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. evidenziandone la rilevanza e la manifesta infondatezza in quanto detta norma: a) crea una disparità di trattamento tra cittadini che in tempi diversi rispetto alla successione della legge intervenuta si rivolgano allo stesso praticante avvocato abilitato; b) viola il diritto di difesa in danno del cittadino che, per fatti indipendenti dalla sua volontà, subisce lo spoglio della facoltà difensiva del proprio difensore.
Trattasi di questione manifestamente infondata in quanto si finisce con il censurare il criterio cronologico nella individuazione della legge applicabile tra fonti di pari rango e tra loro non in rapporto di specialità. E, comunque, la Corte Costituzionale, con specifico riferimento alla dedotta disparità di trattamento, ha più volte affermato che il criterio di discrimine nella applicazione di diverse discipline normative basato su dati cronologici non può dirsi, a meno che non sia affetto da manifesta arbitrarietà intrinseca, fonte di ingiustificata disparità di trattamento, poiché lo stesso naturale fluire del tempo è valido elemento diversificatore delle situazioni giuridiche (fra le ultime si vedano le sentenze n. 273 del 2011 e n. 197 del 2010 nonché le ordinanze n. 31 del 2011 e n. 61 del 2010).
Per quanto esposto il ricorso va rigettato.
Le spese dei presente giudizio, per il principio della soccombenza, cedono a carico del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed in Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.

Redazione