Il portalettere che si appropria dei bollettini e dei pagamenti risponde di peculatoCorte (Cass. pen. n. 35512/2013)

Redazione 26/08/13
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Svolgimento del processo

1. **** impugna la sentenza della Corte d’appello di Napoli, che quale giudice di rinvio – disposto per la verifica della sussistenza della “prova di resistenza” a seguito della declaratoria di inutilizzabilità delle conversazioni intercettate – ha confermato la sentenza del giudice di primo grado limitatamente al delitto di peculato, commesso dal (omissis), perchè, quale portalettere in servizio all’ufficio postale di (omissis), avendo la disponibilità, per ragioni del proprio servizio, di pacchi contro assegni, si appropriava dei relativi bollettini di spedizione e dei rispettivi importi, spettanti ai legittimi creditori, per una somma complessiva di L. 3.545.700.

Ad avviso del giudice d’appello, la prova di tali reati è nella relazione ispettiva redatta dal dr. G. nel maggio 2000, nella quale sono specificate con chiarezza le modalità di appropriazione degli assegni e la segnalazione del direttore dell’ufficio relativa alle ripetute richieste di consegna dei circa quarantacinque plichi non ricevuti dai destinatari e egli incassi delle somme; in tale relazione il direttore sottolineava che, dopo molteplici inviti e ripetuti avvertimenti di provvedimenti disciplinari, il portalettere R. ammetteva di essersi appropriato delle somme e restituiva in data (omissis) le somme indebitamente trattenute.

A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, il giudice d’appello ha ribadito la qualità incaricato di pubblico servizio rivestita dal portalettere anche dopo la trasformazione dell’ente poste in società per azioni, come più volte confermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Ritenuto legittimo l’utilizzo della relazione ispettiva acquisita nel corso delle indagini, in ragione del rito abbreviato richiesto dall’imputato, il giudice d’appello, richiamati i parametri stabiliti dall’art. 133 c.p., rideterminava la pena, con la riduzione delle attenuanti generiche, ad anni due di reclusione, applicando per pari durata l’interdizione dai pubblici uffici.

2. La difesa del ricorrente deduce:

– violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione all’art. 314 c.p., poichè non ricorre la qualità di incaricato di pubblico servizio, anche se la giurisprudenza di legittimità abbia più volte affermato che il portalettere rivesta tale qualità. Per il ricorrente, l’art. 358 c.p. ha ridotto l’ambito di operatività dello statuto speciale della pubblica amministrazione, distinguendo le mansioni d’ordine da quelle materiali non correttamente considerata dalla giurisprudenza.

Indipendentemente da tali rilievi, la difesa pone in risalto che l’appropriazione, nel caso di specie, ha a oggetto danaro di privati sebbene nell’esercizio di una attività delegata.

Per la difesa, oggetto di appropriazione sarebbero stati i soli pagamenti in contrassegno che dovevano essere contestualmente girati ai creditori.

Manca in tal caso il dolo, al pari della condotta materiale di peculato non avendo l’imputato riscosso i bollettini di versamento contestualmente alla consegna dei plichi.

Potrebbe, pertanto, configurarsi il peculato d’uso, poichè le somme trattenute da R. sono state poi consegnate ai destinatari.

Su tale circostanza, specificamente dedotta, la sentenza impugnata non fornisce alcuna spiegazione.

– violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione al diniego dell’attenuante dell’art. 323 bis c.p. poichè il fatto e da ritenere di lieve entità, trattandosi di somme di poco più di L. 3.500.000, pari oggi a circa 1.700. In relazione a tale profilo la sentenza non si esprime nella parte relativa alla determinazione della pena.

– violazione degli artt. 314 e 157 c.p., poichè i fatti risalgono al (omissis) e, là dove penalmente rilevanti, sarebbero comunque prescritti, tenuto anche conto che si tratta di peculato d’uso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per manifestamente infondatezza e per genericità perchè diretto a riproporre le medesime questioni già correttamente valutate dalla Corte d’appello relative alla sussistenza dei fatti e alla loro qualificazione giuridica, già oggetto di corrette ed esaurienti risposte da parte del giudice d’appello.

Elemento imprescindibile è l’esercizio, anche di fatto, di una pubblica funzione o di un pubblico servizio, poichè tale oggettiva situazione vale a riconoscere, in ogni caso, la relativa qualifica al soggetto agente nell’ambito delle figure funzionali previste dagli artt. 357 o 358 c.p..

Il principio di diritto in questione va ricondotto al consolidato indirizzo espresso dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui la qualifica di pubblico ufficiale – ai sensi dell’art. 357 c.p., come novellato dalle L. n. 86 del 1990 e L. n. 181 del 1992 deve essere riconosciuta a quei soggetti che, pubblici dipendenti o “semplici privati”, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi, disgiuntamente e non cumulativamente considerati; (Sez. un., 27 marzo 1992, ******, rv.191171).

Principio che non può che essere riferito anche all’incaricato di pubblico servizio, come più volte ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità e affermato in relazione ai dipendenti di enti trasformati in società commerciali. A tale principio di diritto si è correttamente attenuta la sentenza impugnata che richiamato specificamente la giurisprudenza relativa al portalettere, da qualificare incaricato di pubblico servizio.

2. Quanto all’ulteriore profilo relativo all’appropriazione di danaro di privati, anche qui la questione posta è manifestamente infondata.

Nel delitto di peculato, nella fattispecie riformulata con la L. 26 aprile del 1990, l’appropriazione ha a oggetto “denaro o altra cosa mobile altrui” di cui l’agente pubblico “per ragione del suo ufficio o servizio” ha la “disponibilità” o il “possesso” e non soltanto la res o la pecunia pubblica.

3. Ulteriore aspetto, anch’esso manifestamente infondato, è quello della configurabilità del peculato d’uso. La ricostruzione dei fatti – come specificamente descritta – è di tale chiarezza da escludere ogni incertezza che ” R.R., avendo la disponibilità di pacchi contro assegni, si appropriava dei relativi bollettini di spedizione e dei rispettivi importi, spettanti ai legittimi creditori, per una somma complessiva di L. 3.545.700″.

La ragione – oltre che la logica giuridica sottesa alla specifica e residuale fattispecie di peculato d’uso, diretta a tutelare diversamente il bene prospetto da condotte concretizzatesi in un mero indebito e “momentaneo” uso della “cosa altrui” – non consente di giungere alla conclusione voluta dal ricorrente di avere fatto “uso momentaneo” di quanto fatto proprio in ragione del servizio esercitato.

Del resto, R.R. ha tenuto per se i “bollettini di spedizione e i rispettivi importi” di numerosi destinatari, all’incirca quarantacinque, restituendo il tutto dopo gli accertamenti effettuati dal direttore dell’ufficio postale nonchè provvedendo, solo dopo i reiterati inviti e preavvertimenti di azione disciplinare, a restituire il mal tolto.

4. Manifestamente infondata la richiesta di applicazione dell’attenuante speciale di cui all’art. 322 bis c.p., sulla quale – mediante la descrizione dei fatti volti a dare contezza della reiterazione delle condotte di “appropriazione” reiterata mente commesse da R.R. – il giudice d’appello si è chiaramente espresso sulla anzidetta circostanza attenuante speciale prevista per i fatti di particolare tenuità. Tale circostanza ricorre quando il reato, valutato nella sua globalità, presenti una gravità contenuta, dovendosi a tal fine considerare ogni caratteristica della condotta, dell’atteggiamento soggettivo dell’agente e dell’evento da questi determinato. Del resto, nei motivi d’appello non vi è alcun esplicito riferimento alla richiesta di applicazione dell’attenuante in parola e nel motivo di ricorso non si fa riferimento alla mancata risposta, bensì al mero diniego.

5. Manifestamente infondata la censura relativa all’estinzione del reato per prescrizione.

I tempo “necessario a prescrivere” il reato è quello previsto dall’art. 157 c.p.p., nel testo anteriore alla novella 2005 – poichè la condanna in primo grado è intervenuta il 7 Ottobre 2005, in epoca anteriore all’entrata in vigore delle nuove regole ex lege n. 251 del 2005.

E’ ormai diritto vivente, riaffermato anche dalle Sezioni unite, che Ai fini dell’operatività delle disposizioni transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pronuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pendenza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’applicazione retroattiva delle norme più favorevoli (Sez. un. 24 novembre 2011, dep. 24 aprile 2012, n. 15933).

Ciò comporta che il delitto di peculato si estingue per prescrizione in dieci anni ex art. 157 c.p. (ante novella), poichè per esso la legge stabilisce la pena massima di dieci anni di reclusione diminuita di un giorno per l’applicazione delle attenuanti generiche.

Il primo delitto di peculato è stato commesso nel (omissis) e tale è il dies a quo di decorrenza del “tempo di prescrizione” che, per effetto di intervenuti atti interruttivi, da dieci anni è aumentato a quindici anni ex art. 161 c.p., (ante novella); in tal modo, il “tempo di estinzione del reato per prescrizione”, senza tenere conto di eventuali sospensioni del processo, sarebbe decorso nel settembre 2013, epoca non solo successiva alla sentenza d’appello, ma anche alla presente decisione.

3. Il ricorso è, dunque, inammissibile e, a norma dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente va condannato, oltre che al pagamento delle spese processuali, a versare una somma, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni richieste dalla sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n.186.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e a quello di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 21 maggio 2013.

Redazione