Il medico di famiglia risponde di omicidio colposo se sbaglia diagnosi sulla polmonite (Cass. pen. n. 12923/2013)

Redazione 20/03/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 20 settembre 2011 la Corte d’appello di Ancona, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Macerata, sezione distaccata di Civitanova Marche, appellata dall’imputato P.A., con cui lo stesso era stato condannato alla pena di mesi quattro di reclusione. Questi era stato tratto a giudizio per rispondere del delitto di omicidio colposo per aver, quale medico curante, cagionato la morte di C.A. per insufficienza respiratoria acuta con polmonite bilaterale, omettendo di effettuare visita medica in data 25 maggio 2004 e comunque nell’occasione prescrivendo terapia non idonea, omettendo in data 28 maggio 2004 di provvedere al ricovero del C. e colposamente in tale occasione non rilevando alcuna attenzione nell’auscultazione polmonare e dunque non effettuando tempestiva e corretta diagnosi.

2. Avverso tale decisione ha proposto ricorso il P. a mezzo del proprio difensore lamentando: 1. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) per manifesta illogicità e contraddittorietà della sentenza impugnata avuto riguardo all’accertamento del nesso di causalità; 2. il travisamento dei fatti e la errata valutazione delle dichiarazioni rese dai testimoni e consulenti medici legali indicati dalle parti e la mancanza o il difetto di motivazione circa il fatto di non aver valutato le risultanza processuali in ordine allo svolgimento del fatti ed alla evoluzione del quadro clinico del paziente; 3. l’intervenuto decorso del termine prescrizionale.

3. In data 6 settembre 2012 perveniva memoria della parte civile ex artt. 90 – 121 c.p.p. che insisteva nella declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è manifestamente infondato. La ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito non è in contestazione in questa sede: il diciottenne C.A. è deceduto per insufficienza respiratoria acuta in paziente con polmonite bilaterale ed interstiziopatia diffusa, shock settico, arresto circolatorio. Prima del ricovero ospedaliere il C. affetto da febbre alta e difficoltà respiratoria era stato più volte accompagnato dalla madre presso l’ambulatorio dell’imputato, medico di famiglia da qualche anno e che lo aveva già in cura per episodi ricorrenti di tonsillite, il quale aveva tuttavia minimizzato le condizioni del paziente, assicurando in particolare – dopo l’auscultazione – l’inesistenza di patologie a carico dei polmoni ed effettuando una prescrizione del tutto inadeguata.

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’ art. 606, comma 1, lett. e) per manifesta illogicità e contraddittorietà della sentenza impugnata avuto riguardo all’accertamento del nesso di causalità. Sul punto la Corte territoriale – contrariamente a quanto affermato in ricorso – non si è limitata ad affermare: “Ora non occorre essere particolarmente esperti in materia per rilevare che, nel duemila, la morte di ragazzi diciottenni, a causa di polmonite sia evenienza statisticamente irrilevante, atteso che trattasi di malattia che, se diagnosticata in tempo, guarisce nella quasi totalità”, bensì ha congruamente effettuato il giudizio controfattuale e preso ampiamente in considerazione (pagg. 12-13) le diverse conclusioni sul punto del consulente medico della difesa. Si rammenta che l’esistenza del nesso causale richiede una condicio sine qua non, un antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato, da valutare sulla base del criterio della elevata credibilità razionale o probabilità logica, conformemente all’insegnamento delle Sezioni unite di cui vengono tracciate le enunciazioni di maggiore rilievo. La Corte territoriale ha ritenuto, in buona sostanza che, se l’imputato avesse operato in maniera diversa, si sarebbero evitate le conclusioni infauste. Tale valutazione di merito appare nel suo complesso immune da censure. Sia pure in modo disorganico la sentenza enuncia principi di diritto e valutazioni di fatto che non mostrano vizi logico- giuridici. Essa è supportata dall’esigenza, imposta dai principi di diritto enunciati dalla giurisprudenza di legittimità (**************), che la prognosi in ordine all’effetto salvifico delle condotte omesse sia sostanzialmente certa alla stregua di un giudizio caratterizzato da elevata credibilità razionale. Tale valutazione in fatto giunge al termine di complesse indagini medico-legali di cui la pronunzia da diffusamente conto; e non può essere qui sindacata senza scendere in considerazioni di merito precluse a questa Corte di legittimità.

5. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta il travisamento dei fatti e l’errata valutazione delle dichiarazioni rese dai testi.

Osserva la Corte: Il vizio di travisamento del fatto non rientrerà i casi di ricorso per cassazione ed in tanto può essere valutabile e sindacabile in sede di legittimità, solo in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); l’accertamento di esso richiede, pertanto, la dimostrazione, da parte del ricorrente, della avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase d’impugnazione, degli elementi dal quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicchè la Corte possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi siano stati valutati. Il ricorrente chiede, invero, a questa Corte di valutare le prove acquisite al processo in modo diverso da quanto compiuto dal giudice di merito, con asserzioni e considerazioni che, quando contestano in generale il valore probatorio delle testimonianze e degli altri elementi utilizzati dalla corte di appello per pervenire al convincimento di responsabilità non tengono conto degli argomenti e delle indicazioni probatorie contenuti nell’ampia motivazione della sentenza impugnata e comunque si appalesano del tutto generici e manifestamente infondati.

6. L’inammissibilità del ricorso esime la Corte dall’esame del terzo motivo concernente la dedotta prescrizione che secondo l’assunto dello stesso ricorrente sarebbe comunque maturata in epoca successiva alla pronuncia impugnata.

7. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 (mille), a titolo di sanzione pecuniaria, in favore della cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero. Il ricorrente va inoltre condannato alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in complessivi Euro 3000,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese in favore delle parti civili che liquida in complessivi Euro 3000,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 settembre 2012.

Redazione