Il medico che sbaglia ad operare è colpevole di omicidio colposo (Cass. pen. n. 27958/2012)

Redazione 12/07/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale di Roma ha affermato la penale responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine al reato di cui all’art. 589 c.p. e lo ha condannato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili. La pronunzia è stata parzialmente riformata dalla Corte d’appello di Roma che ha diminuito la pena ed ha rideterminato le statuizioni afferenti al risarcimento del danno.

Secondo quanto ritenuto dai giudici di merito, l’imputato, per imperizia, nel corso di esecuzione di intervento chirurgico ortopedico alla colonna vertebrale, determinava lesioni all’arteria ed alla vena iliaca, cagionando emorragia letale alla paziente F.R..

Ricorre per cassazione l’imputato deducendo diversi motivi.

Si lamenta che i giudici di merito hanno erroneamente ed ingiustificatamente trascurato e disatteso le vantazioni compiute dagli esperti nel processo. In particolare si censura l’apprezzamento in ordine al profilo causale. E’ ben vero che l’imputato, nel corso dell’atto chirurgico, determinò lesioni vascolari che determinarono una cospicua perdita di sangue, ma l’evento non si sarebbe rivelato letale se, nel corso del successivo intervento di chirurgia vascolare, fosse stato correttamente compiuto il richiesto atto salva vita, invece di dar luogo ad ulteriori lesioni che permisero uno stillicidio continuo di sangue che portò al decesso la paziente.

Anche i periti sono pervenuti alla conclusione che la morte fu determinata dalle lesioni prodotte dal chirurgo vascolare; e che la paziente si sarebbe potuta salvare se non fossero subentrate tali ulteriori lesioni. Il primo atto chirurgico posto in essere dal P. ha quindi rappresentato una mera irrilevante occasione;

mentre il successivo atto chirurgico vascolare ha costituito accidente atipico, assolutamente anomalo ed eccezionale, tale da interrompere il nesso causale. Senza ragione il giudice di merito ha ritenuto di non dar credito alle valutazioni espresse al riguardo dai periti.

Si deduce, altresì, che parimenti senza ragione è stata respinta la richiesta di riapertura del dibattimento per dar corso all’esame di alcuni testi che avrebbero potuto riferire in ordine alle caratteristiche del sanguinamento intraoperatorio.

Il ricorso è manifestamente infondato.

La sentenza impugnata fa proprie le valutazioni in fatto compiute dal primo giudice; e quindi ribadisce la decisività delle lesioni vascolari inferte dall’imputato, nel corso dell’atto di chirurgia ortopedica; che determinarono una copiosa emorragia con raccolta ematica di circa quattro litri nel retro peritorio. Si ribadiscono altresì le valutazioni, non censurate nella presente sede, in ordine all’errore tecnico compiuto dall’imputato stesso nel corso dell’intervento chirurgico in questione, che determinò le lesioni arteriose e venose che a loro volta cagionarono la massiva emorragia.

Tale condotta umana, secondo la Corte di merito, si trova a monte della catena causale e presenta un ruolo eziologico indiscusso. E’ ben vero, si aggiunge, che successivamente al primo intervento la paziente fu sottoposta a due interventi di chirurgia vascolare per tentare di suturare le lesioni inferte in precedenza; e che il primo di tali atti suturò la lesione primordiale ma ne determinò altra di minore importanza. Ma si aggiunge che tale secondo insulto chirurgico, da solo, non sarebbe valso a cagionare l’evento. Si conclude che la prima lesione costituì la causa prima del complesso processo patologico e determinò una pericolosa emergenza che innescò la necessità di ulteriori atti chirurgici. Non vi è quindi dubbio nè in ordine al nesso causare nè per ciò che attiene alla colpa.

Tale argomentato apprezzamento è con tutta evidenza immune da vizi logico-giuridici. Correttamente, considerata la concezione condizionalistica della causalità accolta dall’ordinamento penale, si è considerato che la catena causale è stata innescata dall’erronea recisione di vasi che ha generato l’emorragia. E dunque, sul tema causale non vi è possibilità di discussione alcuna. Il post factum, concernente i successivi interventi per tentare di superare la situazione critica ed emergenziale in atto, non svolge alcun ruolo interruttivo alla stregua dello schema normativo della causalità giuridica. Invero, questa Suprema Corte ha avuto occasione di enunciare in innumerevoli occasioni che l’errore terapeutico incorso nel corso dell’attività volta ad arginare gli effetti di precedenti condotte lesive non è interruttivo del nesso causale. Un tale effetto potrebbe configurarsi solo quando le condotte terapeutiche successive inneschino un rischio radicalmente nuovo o conducano il rischio determinato dalla precedente condotta illecita ad esiti radicalmente esorbitanti. Nel caso di specie tale peculiare situazione non si riscontra per nulla: la Corte territoriale spiega nitidamente che gli interventi di chirurgia vascolare costituirono una sequela del primo errore e furono determinati dalla necessità di tentare di arginare una situazione di grave emergenza. Essi non solo non hanno recato un rischio radicalmente nuovo ma non sarebbero stati in grado, da soli, di produrre effetti letali ove non si fosse già verificata la prima grave emorragia. In una situazione di tale genere è di tutta evidenza che non è possibile parlare di interruzione del nesso causale.

Infine, per ciò che attiene alla richiesta di riapertura dell’istruttoria dibattimentale, la pronunzia considera che l’eziologia dell’evento non mostra dubbi, sicchè sarebbe inutile disporre nuove acquisizioni probatorie, per di più a moltissimi anni dal fatto. Tale apprezzamento appare del tutto lineare e conforme alla complessiva ricostruzione degli accadimenti; sicchè non si riesce a scorgervi alcun vizio logico o giuridico.

Il gravame è quindi inammissibile. Segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro 1.000 a titolo di sanzione pecuniaria, non emergendo ragioni di esonero.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della cassa delle ammende.

Redazione