Il licenziamento illegittimo può essere comprovato da documenti aziendali riservati (Cass. n. 12119/2012)

Redazione 16/07/12
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Svolgimento del processo

Con ricorso depositato davanti al giudice del lavoro di Verona (omissis) conveniva in giudizio la Banca (omissis) s.p.a. e, premesso di essere dipendente della banca convenuta dal 20.7.1977, impugnava il licenziamento comunicatogli senza preavviso per giusta causa dalla società, datrice di lavoro, il 14.4.2004.

Il ricorrente esponeva di essere addetto alla sede di Verona e di avere lavorato da ultimo dal febbraio 2002 sino all’aprile 2004 presso il Centro Corporate di Verona in qualità di funzionario addetto alla gestione ed al controllo dei finanziamenti alle imprese; di avere seguito in tale qualità il rapporto tra la convenuta e l’azienda “(omissis) s.r.l.”; di avere ricevuto dalla società convenuta la contestazione disciplinare con la quale gli si addebitava che il legale rappresentante di tale ditta aveva segnalato alla banca di avere ricevuto forti pressioni da esso (omissis) per indurre la società in questione a riconoscere una provvigione del 2% sull’ammontare del fido concesso e di avergli consegnato la metà del controvalore di un assegno del valore di dieci milioni circa, che era stato affidato allo stesso ricorrente per il cambio.

Il (omissis) contestava integralmente la rispondenza al vero delle circostanze denunciate dalla (omissis) s.r.l. e, pertanto, chiedeva all’adito Giudice di accertare la illegittimità del licenziamento e condannare la convenuta alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 L. 300/70, oltre al risarcimento per danni alla immagine morale e professionale per licenziamento ingiurioso, da liquidare in via equitativa.

Il ricorrente, inoltre, esponeva che in data 10.11.2004 la Banca (omissis) gli aveva comunicato, in via subordinata rispetto al primo licenziamento, un nuovo licenziamento per giusta causa, avendogli contestato di avere prodotto nel procedimento cautelare “ante causam” fotocopie di documenti riservati contenuti nel fascicolo della (omissis) s.r.l. custodito presso la sede della Banca.

Chiedeva, quindi, dichiararsi l’illegittimità e l’inefficacia del secondo recesso in quanto intervenuto dopo che il rapporto di lavoro era cessato a causa del primo licenziamento. Nel merito sosteneva l’infondatezza della contestazione disciplinare e comunque la non proporzione della sanzione espulsiva.

Si costituiva in giudizio la Banca convenuta, chiedendo il rigetto delle proposte domande.

All’esito della svolta istruttoria il Giudice di primo grado accoglieva il ricorso e dichiarava che il primo licenziamento intimato al ricorrente doveva essere annullato per carenza di prova sui fatti contestati al lavoratore, il secondo doveva essere dichiarato inefficace poiché a quella data non esisteva il rapporto di lavoro e conseguentemente il datore di lavoro non aveva il potere di licenziare il ricorrente, mentre riteneva che la domanda di risarcimento del danno per licenziamento ingiurioso dovesse essere rigettata perché il ricorrente non aveva dimostrato che il procedimento disciplinare fosse stato condotto con eccessiva pubblicità o con modalità tali da danneggiargli l’immagine morale o professionale.

Avverso tale decisione proponeva appello la Banca (omissis), con articolate argomentazioni.

Si costituiva il (omissis) chiedendo il rigetto dell’impugnazione e presentando appello incidentale relativamente al danno derivante dal primo licenziamento.

Nelle more del giudizio si costituiva la società (omissis) s.p.a. che aveva rilevato l’attività della Banca (omissis) s.p.a..

Con sentenza del 13/10/2009-6/4/2010 l’adita Corte d’appello di Venezia rigettava entrambi i ricorsi, confermando la sentenza di primo grado.

A sostegno della decisione osservava che il materiale probatorio acquisito non consentiva di ritenere dimostrati i fatti posti a base della contestazione relativa al primo licenziamento, mentre analogamente in ordine al secondo – e prescindendo dalla sua eventuale inefficacia per essere stato intimato allorché il rapporto era stato ormai definitivamente interrotto – non appariva assolutamente provata la sottrazione di documentazione, oggetto di contestazione.

Riteneva, inoltre, indimostrato il danno alla immagine ed alla professionalità del (omissis) conseguente al licenziamento e quindi l’infondatezza della relativa pretesa risarcitoria.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre (omissis) S.p.A. con un unico, articolato motivo.

Resiste (omissis) con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con l’unico complesso motivo la ricorrente Banca, denunciando omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamenta, con riferimento alla questione della legittimità del primo licenziamento intimato al (omissis) nell’aprile del 2004, che la Corte d’Appello abbia ritenuto inattendibile la testimonianza del teste (omissis), il quale aveva confermato tutti i comportamenti contestati al dipendente e posti a base del provvedimento espulsivo (richiesta del 2% sui fidi concessi).

Sostiene che tale inattendibilità è stata desunta da circostanze – che sarebbero state, invece, smentite in sede istruttoria – e principalmente dalla ritenuta contraddizione tra il contenuto del documento contenente la prima denuncia sporta dai fratelli (omissis), titolari della (omissis) S.r.l., e quanto riferito da (omissis) in sede giudiziale, con riferimento al periodo nel quale il comportamento ricattatorio sarebbe stato tenuto. Secondo la Corte, infatti, l'(omissis), usando l’espressione “gestore”, si sarebbe riferito al periodo in cui (omissis) era al Centro Corporate di Verona, mentre nella dichiarazione scritta faceva riferimento anche al periodo precedente.

Per contro – secondo la ricorrente – da quanto risultante pacificamente in giudizio, perché dedotto nel ricorso in primo grado e mai contestato e da quanto riferito dagli altri testimoni escussi, il (omissis) aveva mansioni di ”gestore” tanto nel periodo in cui si trovava presso il centro corporate di Verona quanto nel periodo precedente, in cui lavorava presso la filiale di Corso Porta Nuova.

Ne deriverebbe che il teste (omissis) non sarebbe incorso nella contraddizione che la Corte gli aveva imputato e che, pertanto, avrebbe riferito circostanze che andavano valutate nel merito.

A ciò si aggiungerebbe una insufficiente e contraddittoria motivazione nella valutazione delle testimonianze e, più in generale, del materiale probatorio acquisito, che avrebbe condotto alla contestata pronuncia. Il motivo non può trovare accoglimento.

Devesi, in proposito, rammentare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c.) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni – svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento – con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.

In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (dall’art. 360 n. 5 c.p.c.) – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Nel giudizio di cassazione, quindi, anche sotto il profilo della mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione il riesame nel merito è inammissibile (Cass. 9 maggio 1991 n. 5196).

Costituisce, del resto, insegnamento consolidato di questa Corte che il giudice del merito non è tenuto ad analizzare singolarmente le deposizioni dei testimoni, essendo sufficiente che la decisione sia fondata sugli elementi che egli reputi pertinenti ed attendibili. La valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 17 luglio 2001 n. 9662, 3 marzo 2000 n. 2404).

Nel caso in esame, la Corte d’appello, investita da analoghe censure relative alla decisione di primo grado, dopo avere proceduto alla ricostruzione dei fatti operata dal primo Giudice, ha esaminato il materiale probatorio acquisito, tenendo conto delle valutazioni operate nell’atto di appello proposto dalla società, ed ha concluso, con valutazione insindacabile in questa sede di legittimità, con la costatazione della “mancanza di prove dei fatti alla base della contestazione”. Ritiene, pertanto, il Collegio che, attraverso la denuncia di vizi della motivazione, la ricorrente ha finito col proporre una diversa interpretazione di fatti di causa, inammissibile in questa sede di legittimità.

Analoghe considerazioni valgono in relazione al secondo licenziamento del 10/11/2004, rispetto al quale la Corte territoriale, dopo avere esposto i fatti all’origine della contestazione disciplinare posta a base del provvedimento (il (omissis) in data 17/3/2004 si sarebbe introdotto presso i locali dove era il suo ufficio in Verona ed avrebbe prelevato documentazione riservata prodotta nel procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. iniziato dal lavoratore) e, dopo avere dato atto che il primo Giudice aveva ritenuto inefficace detto licenziamento perché intimato, quando il rapporto era ormai risolto per effetto del primo licenziamento, senza prendere posizione sui contrasti giurisprudenziali in materia è entrato nel merito della vicenda, escludendo la sussistenza dei presupposti di legittimità del provvedimento, confermandone l’inefficacia – come ritenuto in primo grado – la cui formula poteva “considerarsi comunque valida”.

E non vi è dubbio, sul piano degli effetti, che manca ogni interesse della società ad ottenere una pronuncia di annullamento del licenziamento (per mancanza di giusta causa/giustificato motivo) piuttosto che di inefficacia.

L’interesse si presenta, invece, con riguardo alla motivazione circa l’affermata carenza di giusta causa/giustificato motivo, ma la Corte d’appello ha compiutamente esaminato tale profilo della controversia ed ha ritenuto che il fatto che il (omissis) fosse entrato in azienda nel periodo in cui risultava cautelativamente sospeso non poteva ritenersi comportamento idoneo a sorreggere da solo il provvedimento sul rilievo che “la mera introduzione nei locali, asseritamente per prelevare documenti personali” era “stata ritenuta dalla banca non rilevante in sé e considerata come episodio di mera cortesia usata nei suoi confronti”.

Ed infatti, la stessa Banca ricorrente sia in primo grado che in appello – come emerge anche dalla ricostruzione in fatto contenuta nel ricorso per cassazione – aveva riconosciuto che “Stante il tenore della giustificazione la datrice di lavoro aveva deciso, in un primo momento, di considerare l’episodio” dell’ingresso del (omissis) in azienda “una mera cortesia usata dalla Banca nei suoi confronti”.

Priva di consistenza è anche l’ulteriore censura mossa alla sentenza impugnata per aver ritenuto non provata la circostanza posta a base del licenziamento e cioè che il (omissis) avrebbe illegittimamente sottratto documentazione aziendale, poi prodotta nel procedimento cautelare.

Deduce che tale circostanza sarebbe pacifica tra le parti, senza, tuttavia, in violazione del disposto di cui all’art. 369 n. 4 c.p.c. e del principio di autosufficienza, produrre gli atti e le difese dai quali emergerebbe la fondatezza dell’assunto, come anche di riportarne il contenuto. D’altra parte, che la circostanza non fosse pacifica risulta dalla stessa impugnata sentenza laddove specifica, per un verso, che “la contestata sottrazione di documentazione riservata” non aveva trovato alcun riscontro nella deposizione del teste escusso sul punto …” e, per altro verso, che “parte appellata osserva che la documentazione prodotta in sede di procedimento di urgenza era stata raccolta dal” (omissis) “durante il periodo in cui era al lavoro per confortare la sua linea di rigore nei confronti di situazioni ritenute incerte e rischiose, quindi escludendo sottrazioni durante il periodo di sospensione dal servizio”.

Va in proposito rammentato che secondo la giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla utilizzazione da parte del lavoratore di documenti aziendali di carattere riservato, occorre distinguere tra produzione in giudizio dei documenti detti al fine di esercitare come nella specie- il diritto di difesa, di per sé da considerarsi lecita (per la prevalenza di detto diritto ed anche in virtù di quanto previsto dall’art. 12 della legge n. 675 del 1996) e impossessamento degli stessi documenti, le cui modalità vanno in concreto verificate (Cass. n. 22923/2004).

Per quanto precede il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di questo giudizio, liquidate in € 70,00 oltre 6 4.000,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA.

Redazione