Il lavoratore dipendente ha diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile ex art. 33 della L. 104/92 anche se la moglie non svolge alcuna attività lavorativa ed è in grado di assistere il figlio gravemente disabile (Cass. n. 16460/2012)

Redazione 27/09/12
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Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale di Roma, depositato il 20 dicembre 2005, N. C., premesso di essere stato dipendente della Banca (omissis) dal 1975 fino al 31/8/04, di essersi visto illegittimamente negare nel periodo dal febbraio 1996 al febbraio 2002 i tre giorni di permesso mensili spettatigli ex art. 33 c. 3 l. 104/92 per l’assistenza della figlia minore convivente con handicap grave, di avere conseguentemente subito danni di vario tipo che specificava, chiedeva l’accertamento del diritto ai tre giorni di permesso mensile per il periodo dal febbraio 1996 al febbraio 2002 e la condanna della società convenuta al pagamento di somme varie a titolo di risarcimento per danno esistenziale, biologico e morale, con rivalutazione e interessi.
Si costituiva in giudizio la società convenuta e contestava il diritto e le pretese del ricorrente, chiedendone il rigetto.
Con sentenza 2 novembre 2006 il Tribunale rigettava il ricorso. Avverso tale decisione proponeva appello il C. chiedendone la integrale riforma con l’accoglimento di tutte le domande proposte in primo grado. Si costituiva la Banca appellata chiedendo il rigetto dell’appello. Con sentenza del 10 luglio 2008-25 giugno 2009, l’adita Corte d’appello rigettava il gravame, compensando le spese.
A sostegno della decisione, osservava che una corretta interpretazione dell’art. 33, terzo comma, legge 5 febbraio 1992 n. 104, posto a fondamento del vantato diritto, portava ad escludere la fondatezza della pretesa nel caso in cui – come nella specie – la moglie del richiedente oltre a non svolgere attività lavorativa, fosse in grado di assistere il figlio gravemente disabile.
Solo in seguito all’entrata in vigore dell’art. 42, comma 6, del d.lgs. n. 151/2001, che riconosceva il diritto ai permessi mensili a favore del genitore di portatore di handicap anche qualora l’altro genitore non ne avesse diritto, la pretesa secondo la stessa Corte – era da ritenersi fondata.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre N. C. con tre motivi.
Resiste la Banca (omissis) con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso il C. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 33, comma 3 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 e dell’art. 42, comma 6, del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per avere l’impugnata sentenza erroneamente affermato che, nel periodo precedente all’entrata in vigore dell’art. 42, comma 6, della legge n. 53 del 2000 (recte d.lgs. n. 151 del 2001), il diritto del lavoratore a tre giorni mensili di permesso retribuito per assistere il figlio minore convivente con handicap grave spetterebbe solo se l’altro genitore convivente non lavoratore sia impossibilitato a provvedere a tale assistenza.
Più in dettaglio, il ricorrente lamenta che la sentenza abbia affermato che non avrebbe avuto diritto ai permessi in questione, relativi al periodo dal febbraio 1996 al febbraio 2002, perché la figlia convivente con handicap grave poteva essere assistita dalla madre che non lavorava; tale assunto – secondo il ricorrente – sarebbe privo del necessario supporto normativo. Il motivo è fondato.
La L. 5 febbraio 1992 n. 104 (legge – quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persona handicappate) prevede, all’art. 33, agevolazioni per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap (la cui condizione deve essere accertata mediante commissioni mediche previste dall’art. 4 della stessa L. 104 del 1992; cfr. ex plurimis, Cass. n. 8436/2003). In particolare, il comma 3, nel suo testo originario – pacificamente applicabile ratione temporis alla fattispecie – stabiliva che “Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità, nonché colui che assiste una persona con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile,… fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”.
È intervenuto, poi, nel 2001 il Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, denominato “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53″, il quale, al comma 6 dell’art. 42, specifica che i permessi mensili a favore del genitore di portatore di handicap ” spettano anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto”.
Sul piano sistematico – come le Sezioni unite di questa Corte hanno precisato con la sentenza n 16102 del 2009, e come ribadito da Cass. n. 4623/2010 – la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla L. n. 104 del 1992, art. 33, e i limiti del relativo esercizio all’interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale, che – collocando le agevolazioni in esame all’interno di un’ampia sfera di applicazione della legge, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacente, la tutela dei soggetti svantaggiati, destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sulla integrazione scolastica – ha tuttavia precisato la discrezionalità del Legislatore nell’individuare le diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del disabile mediante la interrelazione e la integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale (cfr. Corte cost. n. 406 del 1992; id., n. 325 del 1996).
In questa ottica, le misure previste dall’art. 33, devono intendersi come razionalmente inserite in un ampio complesso normativo – riconducibile ai principi sanciti dall’art. 3 Cost., comma 2, e dall’art. 32 Cost., – che deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non si identificano esclusivamente con l’assistenza familiare e, dall’altro, devono coesistere e bilanciarsi con altri valori costituzionali.
Si è opportunamente osservato che tali agevolazioni sono dirette essenzialmente ad evitare che il bambino handicappato resti privo di assistenza, di modo che possa risultare compromessa la sua tutela psico-fisica e la sua integrazione nella famiglia e nella collettività, così confermandosi che, in generale, il destinatario della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo familiare in sé, ovvero il lavoratore onerato dell’assistenza, bensì la persona portatrice di handicap (cfr. Corte cost. n. 19 del 2009). Una configurazione siffatta, d’altronde, è in linea con la definizione contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, là dove la finalità comune dei diversi ordinamenti viene identificata nella piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri, nonché con la nuova classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha definito la disabilità come difficoltà all’espletamento delle “attività personali” e alla “partecipazione sociale” (cfr. Cass., sez. un., n. 16102 del 2009, cit.).
L’efficacia di questa tutela si realizza anche mediante una regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, là dove il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del soggetto svantaggiato a ricevere assistenza.
Ciò chiarito, ritiene il Collegio che, inquadrata la disposizione di riferimento in tale contesto normativo, una interpretazione rispettosa dei principi costituzionali, porti necessariamente ad optare per il riconoscimento del diritto del C. ad usufruire del beneficio richiesto, anche a volere considerare la propria moglie e madre dell’handicappata idonea ad assistere la figliola, così dovendosi risolvere l’incertezza ermeneutica derivante dell’equivoco tenore della norma, la cui formulazione non consente di ravvisare alcuna limitazione relativa alla condizione di chi non fruisce del beneficio perché non lavora, essendo prospettata solo un’alternativa, che resta anche nel testo vigente.
Giova in proposito osservare che, in materia ed in relazione alla medesima normativa di riferimento, questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi, riconoscendo il diritto ai permessi ex art. 33 legge n. 104/92 anche al genitore lavoratore coniugato con un non lavoratore in grado di assistere il figlio (Cass. 16 maggio 2003 n. 7701).
Infatti, con la suddetta pronuncia si è rilevato che una adeguata tutela del figlio handicappato esige che alla assistenza continua da parte del genitore non lavoratore si aggiunga l’assistenza del genitore lavoratore per i tre giorni di permessi mensili previsti dalla legge.
Ciò non solo perché l’handicappato ha bisogno dell’affetto anche da parte del padre lavoratore, ma anche perché sussiste tipicamente una ovvia esigenza di avvicendamento e affiancamento, almeno per quei tre giorni mensili, del genitore non lavoratore.
Il caso deciso da detta pronuncia riguardava il diritto ai permessi in questione per il padre lavoratore di un figlio handicappato “benché la moglie non fosse lavoratrice” e, come il presente, concerneva una fattispecie anteriore al d.lgs. n. 151 del 2001.
Per quanto precede l’esaminato motivo va accolto con assorbimento degli altri. Ne consegue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per il riesame alla luce dell’esposto principio di diritto, alla stessa Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Redazione