Il giudice tributario sospende la cartella esattoriale ma la confisca per equivalente non può essere revocata

Redazione 28/02/13
Scarica PDF Stampa

RITENUTO IN FATTO

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Oggetto di ricorso è l’ordinanza con la quale il Tribunale ha respinto la richiesta di riesame avanzata dalla ricorrente avverso il decreto dl sequestro preventivo disposto, per equivalente, a fini di confisca obbligatoria, avente ad oggetto due immobili di proprietà della ricorrente e quattro immobili della G. di T.
Il provvedimento cautelare reale era stato emesso nei confronti della ricorrente in quanto rappresentante legale della G. di T. s.a.s. per avere, in tale qualità, omesso di versare l’IVA dovuta per il periodo di imposta 2009, entro il termine del 27.12.10, per un importo complessivo di 479.651 €.
2. Motivi dei ricorso – Avverso tale decisione, la ricorrente ha proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo:
1) erronea applicazione degli artt. 322 ter c.p. e 321 c.p.p. nonchè 12 sexies L. 356/92 sotto il profilo della individuazione del profitto pur in presenza di sospensione del titolo esecutivo del credito erariale.
Si fa, infatti, notare che uno dei principali argomenti svolti dalla difesa dinanzi al Tribunale per il Riesame era stato proprio quello che, a seguito di ricorso dell’indagata dinanzi alla Commissione Tributaria, la cartella esattoriale era stata sospesa.
Del tutto illegittimamente il Tribunale per il Riesame ha negato valenza a questo dato che, invece, dimostra come non si sia realizzato l’elemento oggettivo della fattispecie criminosa ipotizzata perché, pur essendo obiettivo il mancato pagamento nei termini della somma dovuta, il fatto di avere azionato la cartella esattoriale impedisce di “cristallizzare” l’elemento oggettivo visto che l’indagata è ancora in termini per farlo.
Alla obiezione del Tribunale per il Riesame, secondo cui il provvedimento in questione sarebbe precario e revocabile, si ribatte che, se le ragioni poste alla base del ricorso di fronte alla Commissione Tributaria non fossero state valide, la sospensiva non sarebbe stata concessa e si censura il fatto che il provvedimento cautelare abbia inflitto alla ricorrente un danno maggiore.
Al Tribunale per il Riesame, si replica, inoltre, che, nella eventualità di una revoca del provvedimento sospensivo, ben potrebbe intervenire un pagamento sì da escludere così la realizzazione del profitto questo perché l’elemento oggettivo del reato si realizza con il mancato pagamento dell’IVA nel termine di legge ma il profitto del reato non si realizza altrettanto automaticamente ma ciò discende dall’effettivo mancato pagamento anche oltre il termine.
In altri termini, secondo la ricorrente, allo stato non si può dire realizzato il profitto perché potenzialmente l’indagata può ancora pagare.
L’ipotesi non può essere esclusa perché, sul piano soggettivo non risulta essere stata posta in essere alcuna condotta fraudolenta o distrattiva.
Si soggiunge che la confisca obbligatoria non potrebbe essere applicata in caso di pagamento perché si verificherebbe un indebito arricchimento dell’Erario.
In buona sostanza, si sostiene che il P.M. ed il G.i.p. hanno errato non conoscendo il provvedimento di sospensiva emesso dalla Commissione Tributaria, mentre il Tribunale per il Riesame ha errato, pur essendone stato informato, perché la ricorrente non ha provveduto al pagamento, non, “puramente e semplicemente”, ma, solo perché a ciò facoltizzata dalla sospensiva citata.
Del resto, una prognosi favorevole alla possibilità che l’indagata paghi la si può desumere dal fatto che ella, sia pure ratealmente, ha pagato le cartelle precedenti a quella di cui qui si discute e puntualizza — attraverso l’allegazione dell’istanza di riesame — che il Tribunale ha frainteso l’argomentazione difensiva che non tendeva a sostenere che il debito IVA per cui pende il procedimento sia in corso di pagamento ma solo che i precedenti debiti sono stati sempre pagati e si ribadisce che — ove non fossa intervenuta la sospensione da parte della Commissione Tributaria — l’indagata avrebbe pagato come sempre fatto.
Diversamente opinando, si arriverebbe a negare al debitore IVA il suo diritto di difesa costringendolo al cieco pagamento pur potendo far valere le proprie ragioni nella sede competente (ove poter ottenere — come qui avvenuto — un provvedimento di sospensione).
2) violazione dell’art. 125 c.p.p. per omessa motivazione. Si sostiene, infatti, che il provvedimento impugnato non ha replicato ad alcuni argomenti svolti dalla difesa nel ricorso. In particolare, ci si riferisce all’insussistenza dell’elemento soggettivo dimostrata attraverso il fatto che l’indagata non ha potuto pagare per la situazione di difficoltà in cui versava e che è dimostrata dalla documentazione sulla sofferenza dei conti correnti societari.
La ricorrente conclude invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Motivi della decisione – Il ricorso è infondato.
3.1. (quanto ai primo motivo). Con argomenti pregevoli ma suggestivi, l’intero gravame si risolve in un abile tentativo di ottenere da questa S.C. una anticipazione di giudizio sulla fondatezza delle deduzioni difensive con le quali la ricorrente si è rivolta alla Commissione Tributaria ottenendo da essa una sospensiva cui si cerca di annettere una sorta dl efficacia liberatoria al presenti fini cautelari.
In altri termini, con ragionamento ardito, si sostiene che la ricorrente non ha pagato semplicemente perchè a ciò facoltizzata dal provvedimento di sospensione e che, se non l’avesse ottenuto, certamente ella avrebbe onorato il debito con l’Erario. Conclusione inevitabile dovrebbe essere la superfluità del provvedimento cautelare qui impugnato.
In realtà, così sintetizzato, il neo che si annida nell’argomentazione difensiva della ricorrente è fin troppo evidente.
Ed infatti, non è certo questa la sede per vagliare la giustezza degli argomenti con i quali la T. si è rivolta alla Commissione Tributaria. Oggetto del presente vaglio sono la congruità, completezza e logicltà del provvedimento con cui il Tribunale ha respinto la richiesta di riesame del sequestro. Sotto tutti questi aspetti, l’ordinanza qui impugnata è ineccepibile.
Investito della medesima questione, il giudice di merito ha bene osservato che quello della Commissione Tributaria è un provvedimento “precario”. Ma ciò, non solo, per la fase processuale nel cui ambito esso è stato adottato («si tratta di statuizione cautelare, tipicamente anticipatoria e di carattere provvisorio, adottata sulla base di una cognizione sommaria degli atri di causa») ma anche — e (qui si soggiunge) soprattutto – perché anche dalla motivazione con cui è stata data la sospensiva «si chiarisce che, tutt’al più, è incertus il quantum della somma dovuta, ma non l’an».
Del tutto corretta, perciò, è l’ulteriore considerazione del Tribunale secondo cui “ciò significa che temporaneamente è sospesa la esecutività della cartella esattoriale, non anche che è stata invalidata”.
Ovviamente, rimanendo del tutto inalterata la doverosità del debito, è appunto con riferimento al suo adempimento, ed alla necessità di garanzie che ciò avvenga, che subentra la perdurante legittimità del provvedimento cautelare in esame.
Né di certo la “garanzia” può venire dalle mere attestazioni e rassicurazioni difensive in base alle quali, se la sospensiva non fosse stata concessa ella avrebbe pagato. Pur dando atto dell’equivoco in cui sembra essere incorso il Tribunale nel non comprendere il senso dell’affermazione della ricorrente – secondo cui ella è solvibile perché ha sempre onorato i precedenti debiti con l’Erario — è un fatto quella della difesa che si tratta, pur sempre, di mera lettura alternativa della posizione debitoria della ricorrente (in altri termini, lo stesso fatto dell’inadempimento viene prospettato solo come un evento occasionale e contingente ma non espressivo di una perdurante volontà di non pagare).
D’altro canto, però, come bene ha evidenziato il Tribunale, la misura cautelare di cui si discute trova una sua precisa ragion d’essere e legittimazione nella obiettiva inadempienza della ricorrente e nella irrilevanza della giustificazione da essa fornita a riguardo (difficoltà finanziarie per problemi di gestione della società o per vicissitudini processuali dell’allora presidente del c.d.a T.) “perché una corretta linea operativa imponeva un accantonamento di quegli importi per soddisfare le pretese dello Stato”. Soggiunge il Tribunale che si è, quindi, al cospetto di una «impropria commistione tra tutte le entrate della società, con confusione in un unico fondo di denari incassati a proprio titolo e per conto dello Stato.
A prescindere, quindi, dalla rilevanza che tale constatazione di fatto ha anche sotto il profilo soggettivo (di cui si tratterà a proposito del motivo che segue), è già questo un dato di fatto che testimonia la gravità del fumus indiziario e, data anche l’importanza del debito di cui trattasi, giustifica la misura cautelare a garanzia di un profitto che è sempre esistito e continua a persistere anche nel fatto stesso di non avere ancora, l’indagata, pagato.
La sopravvalutazione — da parte della difesa – del provvedimento di sospensiva della commissione tributaria l’ha indotta a formulare la considerazione secondo cui dovrebbe ritenersi che ciò che impedisce alla ricorrente di onorare il proprio debito con lo Stato sia il provvedimento della Commissione Tributaria tanto è vero che, nella eventualità di una sua revoca, ben potrebbe intervenire un pagamento da parte dell’indagata. Uno sviluppo iperbolico di tale discorso dovrebbe condurre — secondo la difesa — all’affermazione che il profitto esisterebbe solo nella misura in cui il mancato pagamento dipenda dall’interessato. Laddove, invece, esso sia per così dire “impedito” dalla esistenza di una decisione come quella della Commissione, il profitto verrebbe meno.
Il Collegio non condivide questo singolare sofisma che si risolverebbe solo in un comodo escamotage e, per di più, finirebbe per piegare le esigenze di cautela penali di cui qui si discute alle vicende ed alla logica di un sub procedimento amministrativo che ha percorsi e regole del tutto diversi.
Il profitto è costituito dal risparmio economico che consegue alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, e questa S.C. (sez. III, 2.12.11, Galiffo, Rv. 251893; v. anche sez. III,7.7.10, ********, Rv. 248618) ha già avuto occasione di precisare, proprio in tema di reati tributari e di confisca per equivalente, che l’ammontare dell’imposta evasa costituisce «un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, come tale, riconducibile alla nozione di “profitto” dei reato in questione».
Non è certamente concepibile ipotizzare una nozione di profitto “ondivaga” che si dissolve a seconda delle determinazioni della Commissione Tributaria eventualmente adita dall’interessato.
Il discorso deve, quindi essere ricondotto nei giusti binari ricordando che la ratio della misura cautelare in esame è appunto quella di garantire contro la sottrazione del cittadino al debito dovuto allo Stato in vista della confisca dl beni di ammontare equivalente al debito non onorato.
Fin troppo ovvio che, ove, all’esito del giudizio di merito, il reato venisse meno o comunque, come si assume dalla ricorrente, la stessa pagasse, anche la ragion d’essere del provvedimento cautelare verrebbe meno.
Si tratta, però, all’evidenza, di ipotesi tutta da verificare nello sviluppo del procedimento (e/o eventuale processo). Nelle more, rebus sic stantibus, la misura è del tutto valida e le argomentazioni difensive sono, allo stato, premature e strisciantemente tendenti a richiedere una anticipazione del giudizio di merito tutta basata sulla “ipotesi” che l’indagata paghi.
3.2. (quanto al secondo motivo). Le considerazioni appena svolte hanno in parte già anticipato la replica da darsi all'(altrettanto) infondata doglianza qui svolta.
Ed infatti, non è esatto sostenere che i giudici non abbiano affrontato il tema relativo alla asserita insussistenza dell’elemento soggettivo, in realtà, esso è stato preso in considerazione ma più semplicemente disatteso perché ritenuto non decisivo. Come si accennava, la ricorrente ha riferito di difficoltà finanziarie che sarebbero state alla base della propria evasione tributaria. La replica del Tribunale è stata, in parte, già sopra richiamata.
Si può qui ricordare anche che i giudici hanno osservato come proprio l”‘impropria commistione” — di cui si è già detto – abbia permesso alla prevenuta «di sviare cifre già vincolate a soddisfacimento di un debito tributario, per rivolgerle ad altre destinazioni di natura privatistica». Del tutto logica la considerazione conclusiva dl giudici di merito in base alla quale già in questa condotta (ancor prima della mancata ricostituzione della provvista entro il 27.12.10 dopo l’indebito utilizzo) si possono ravvisare gli estremi dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma violata, ossia la consapevolezza e la volontà di omettere il versamento dell’IVA».
Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17 gennaio 2013

Redazione