Il giornalista che riporta dichiarazioni lesive tra persone famose non incorre nel reato di diffamazione (Cass. pen. n. 28502/2013)

Redazione 02/07/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza del Tribunale di Perugia del 16 aprile 2008 gli imputati erano condannati alla pena di giustizia per diffamazione a mezzo stampa in danno del presidente e dei membri del comitato provinciale della Croce Rossa Italiana in relazione agli articoli del (omissis) (intitolato “C. R. I., tre se ne vanno via”), (omissis) (intitolato “C. R. I., il vero problema è la presidenza”) e (omissis) (intitolato “La C. R. I. ha denunciato i tre ispettori”). In particolare F.F. era ritenuto responsabile per l’omesso controllo, a norma dell’art. 57 c.p., nella qualità di direttore responsabile de “(omissis)” per tutti e tre gli articoli; G.M. quale redattrice del primo articolo e P.E. quale relatore del terzo articolo.

La Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 13 aprile 2010, dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati, ma confermava l’impugnata sentenza relativamente alle statuizioni civili.

Ricorrono per cassazione gli imputati, con unico ricorso del proprio difensore ********************, affidato a due motivi.

Con il primo motivo sono articolate quattro censure:

a1) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B, in relazione agli artt. 129 e 530 c.p.p., perchè la sentenza, in ossequio alla giurisprudenza formatasi in ordine all’art. 578 c.p.p. (Sez. Un. 35490/2009, ric. **********) avrebbe dovuto applicare la formula assolutoria nel merito, anche per contraddittorietà o insufficienza della prova, che prevale sulla dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione;

a2) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. B, in relazione agli artt. 51, 595 e 596 bis c.p., poichè nel caso di specie ricorrevano i presupposti del legittimo esercizio del diritto di cronaca, quali la veridicità della notizia, l’interesse pubblico alla diffusione e la continenza delle espressioni utilizzate;

a3) violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E, in relazione alla carenza e/o manifesta illogicità della motivazione posta a fondamento del giudizio di responsabilità penale del ricorrente, poichè la motivazione da una parte rilevava che l’opinione riportata negli articoli proveniva da fonte autorevole e notoria (i tre ispettori dimessisi), ma dall’altra in maniera del tutto apodittica, escludeva la sussistenza della scriminante, poichè i tre dimissionari si trovavano in una posizione di parità rispetto alle parti civili e non di supremazia, sicchè i giornalisti avrebbero dovuto verifìcarne la verità. Viene richiamata la nota decisione di questa Corte a Sezioni Unite (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, *******, Rv. 219651), secondo la quale “In tema di diffamazione a mezzo stampa, la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se “alla lettera”, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite. Tuttavia, essa è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sè dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca, l’individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione sfugge al sindacato di legittimità”.

a4) violazione dell’art. 21 Cost., e art. 10 C.E.D.U., con riferimento al diritto della collettività a ricevere informazioni.

Con il secondo motivo è dedotta violazione dell’art. 606 c.p.p., lettera B, in relazione all’art. 43 c.p., comma 3, artt. 57 e 595 c.p., e violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. E, in relazione alla carenza e/o manifesta illogicità della motivazione posta a fondamento del giudizio di responsabilità penale del F., direttore del giornale, poichè la colpa, richiesta dall’art. 57 c.p., è presunta, essendone affermata la sussistenza dalla circostanza che all’omesso controllo è seguita la verificazione dei fatti diffamatori. Di fatto la responsabilità del direttore è fondata solo sulla qualifica apicale ricoperta.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è fondato, con conseguente assorbimento del secondo.

1.1 Non è qui in discussione l’offensività del tenore di articoli, quali quelli oggetto del processo, in cui si presenti un soggetto, diventato presidente di un Comitato provinciale della Croce Rossa Italiana, come responsabile di un “totale sfacelo”, perchè promotore di “una gestione basata su interessi personali”. La difesa dei ricorrenti e gli odierni motivi di ricorso si sono infatti dispiegati esclusivamente sulla operatività delle cause di giustificazione le quali, come anche una parte della dottrina riconosce, presuppongono l’accertamento di una o più condotte antigiuridiche quali sono risultate essere – senza doglianza al riguardo negli atti di gravame – quelle contestate agli imputati, a titolo di diffamazione e di omesso controllo.

Orbene, in tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca la giurisprudenza di questa Corte si esprime ormai in termini consolidati nell’individuare i requisiti caratterizzanti nei requisiti dell’interesse sociale, della continenza del linguaggio e della verità del fatto narrato e in tale ottica ha evocato il parametro della attualità della notizia: nel senso cioè che una delle ragioni fondanti della esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione è vista nell’interesse generale alla conoscenza del fatto ossia nella attitudine della notizia a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che ognuno possa fare liberamente le proprie scelte, nel campo della formazione culturale e scientifica. Con riferimento al tema dell’intervista giornalistica, richiamato dai ricorrenti in quanto in due degli articoli si faceva riferimento ad un comunicato stampa inviato dai tre ispettori dimissionari a più redazioni di giornale, si registra un importante arresto giurisprudenziale (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, *******, Rv. 219651), con il quale è stato abbandonato l’indirizzo giurisprudenziale piuttosto rigoroso, fino a quel momento prevalente, secondo il quale la pubblicazione di un intervista, dal contenuto diffamatorio, rilasciato da un terzo al giornalista, non solleva quest’ultimo dalla responsabilità per il delitto di diffamazione quando non siano stati rispettati i requisiti della verità, dell’interesse sociale della notizia e della continenza; si è infatti osservato che la casistica offre esempi eclatanti in cui uno dei tre requisiti suddetti, e cioè l’interesse sociale della notizia, può acquistare un’importanza tale da importare anche la prevalenza – nel controllo della sussistenza della scriminante del diritto di cronaca – sugli altri due.

Ciò può versificarsi – hanno osservato le Sezioni Unite – quando un personaggio, che occupa una posizione di alto rilievo nell’ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sè diffamatorie, nei confronti di altro personaggio, la cui posizione sia altrettanto rilevante negli ambiti sopra indicati. In tal caso è la dichiarazione rilasciata dal personaggio intervistato che crea di per sè la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate. Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perchè soddisfa quell’interesse della collettività all’informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall’art. 21 Cost.. Ciò perchè la notizia è costituita dal fatto in sè della dichiarazioni del personaggio altamente qualificato, risultando l’interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza del linguaggio adottato: pretendere che il giornalista intervistatore controlli la verità storica del contenuto dell’intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa; pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare l’intervista perchè contenente espressioni offensive ai danni di altro personaggio noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l’opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l’altro attribuirsi al giornalista il compito di purgare il contenuto dell’intervista dalle espressioni offensive, sia perchè gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perchè la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un personaggio noto all’indirizzo di altro personaggio noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato.

In casi del genere, allora, il problema che si pone attiene alla qualificazione da dare al personaggio che rilascia l’intervista, al fine di accertare se effettivamente trattasi di personaggio noto e affidabile, le cui dichiarazioni siano comunque meritevoli di essere pubblicate, poichè in caso di posizione di rilievo dell’intervistato vi è l’interesse della collettività ad essere informata del suo pensiero sull’argomento che forma oggetto dell’intervista medesima, e si potrà dunque ritenere operante la scriminante. Detta valutazione è ovviamente demandata al giudice del merito, il quale dovrà tener conto, in primo luogo, dell’effettivo grado di rilevanza pubblica dell’evento dichiarazione, considerando poi – al fine di verifica re se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l’evento piuttosto che a divenire strumento della diffamazione – in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l’occasione di tali dichiarazioni, infine dovrà accertare, attraverso una puntuale interpretazione dell’articolo, se il giornalista abbia assunto una posizione imparziale, limitandosi a riportare alla lettera le dichiarazioni del soggetto intervistato, sempre però che il fatto “in sè” dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell’intervista presenti profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo; diversamente, in mancanza di tutte queste condizioni, il giornalista diventa un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria e trova applicazione la normativa sul concorso delle persone nel reato di cui all’art. 110 c.p..

Orbene, applicando questi principi alla fattispecie concreta, emerge l’erronea applicazione dell’art. 51 c.p., e la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza della scriminante. Da una parte, infatti, la sentenza riconosce che il contenuto dei primi due articoli fosse sostanzialmente corrispondente al testo del comunicato stampa e che “il contenuto delle pubblicazioni risulta riportare una serie di giudizi formulati ai danni delle parti civili da persone che operavano nella C.R.I., e quindi senz’altro note ed autorevoli in tale contesto lavorativo”; dall’altra, però, esclude che possano applicarsi i principi della decisione delle Sezioni Unite Galiero, “perchè gli articoli riportavano le opinioni espresse dai tre dimissionari, che si trovavano su un piano paritario rispetto a quello su cui si muovevano le parti civili”.

La motivazione riprende analoga affermazione della decisione di primo grado, che parimenti esclude la scriminante, “dovendosi invece ravvisare una posizione almeno paritaria tra dichiaranti e soggetti lesi dalle dichiarazioni, tale per cui sarebbe stato onere del giornalista svolgere un’attenta verifica sia sul fatto sia sul linguaggio usato”.

In tal modo la decisione ha introdotto un ulteriore elemento (la posizione sovraordinata dell’intervistato) del tutto illogico, poichè invece proprio la paritaria posizione delle parti interessate rileva ai fini dell’interesse pubblico all’informazione. In altri termini, anche la notorietà della persona offesa, al pari di quella del dichiarante, è posta a fondamento del diritto-dovere di informare l’opinione pubblica sul contenuto delle dichiarazioni offensive.

Poichè la decisione della Corte di appello di Perugia, in punto di fatto, riconosce la sussistenza dei presupposti della scriminante, individuati nell’importanza per la comunità locale delle dichiarazioni riportate negli articoli di stampa e nella corrispondenza del testo degli articoli di stampa con il comunicato emesso dai tre ispettori dimissionari, è possibile per questa Corte, a norma dell’art. 620 c.p.p., lett. L, procedere ad annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, perchè i fatti addebitati non costituiscono reato.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè i fatti addebitati non costituiscono reato.

Così deciso in Roma, il 11 aprile 2013.

Redazione