Il doping “estetico” non è reato (Cass. pen. n. 843/2013)

Redazione 09/01/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 4/4/2012, la Corte di appello di l’Aquila, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Pescara, in data 17/6/2008, rideterminava in mesi 5 di reclusione ed Euro 300,00 di multa la pena inflitta a B.F., M.S. e Ma.Vi. per i reati di ricettazione di farmaci dopanti, ritenuta l’ipotesi lieve.
2. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità degli imputati in ordine ai reati a loro ascritti, provvedendo solo a ridurre la pena.
3. Avverso tale sentenza propongono separati ricorsi tutti e tre gli imputati per mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.
4. B.F. deduce violazione di legge per errata interpretazione dell’art. 648 cod. pen. Al riguardo contesta la sussistenza, nel caso di specie, degli estremi della ricettazione, sia per l’assenza di un delitto presupposto, sia per l’assenza del fine di lucro nella condotta dell’agente.
5. M.S. solleva tre motivi di gravame con i quali deduce:
5.1 Erronea applicazione della legge penale.
Al riguardo eccepisce che vi è un rapporto di specialità fra l’art. 9 della L 376/2000 e l’art. 648 cod. pen.. Trattandosi di un concorso apparente di norme incriminatrici, l’unica legge applicabile sarebbe stata quella speciale, contestata all’imputato con il capo di imputazione sub A).
5.2 Vizio della motivazione in ordine alla consapevolezza, in testa all’agente, della provenienza illecita dei medicinali dopanti. Al riguardo si duole che la Corte abbia ricavato tale consapevolezza sulla base di mere congetture, considerando un “fatto notorio” ciò che costituiva una mera ipotesi.
5.3 Vizio della motivazione e violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo specifico. Al riguardo eccepisce che non può configurarsi il fine di profitto nell’ipotesi di acquisto di sostanze dopanti per un mero piacere narcisistico, essendo la situazione del consumatore di sostanze dopanti simile alla situazione del consumatore di sostanze stupefacenti, dovendosi escludere che l’intossicazione di sostanze dopanti possa costituire un qualche vantaggio genericamente economico.
6. M.V. solleva quattro motivi di ricorso con i quali deduce:
6.1 Violazione dell’art. 15 cod. pen. e dei principi di elaborazione giurisprudenziale ad esso connessi e correlati, quali i principi di assorbimento, consunzione e sussidiarietà, per aver ritenuto astrattamente ammissibile il concorso fra il reato di cui all’art. 648 cod. pen. e quello di cui all’art. 9, comma 1, L. 376/2000, omettendo di riconoscere il riassorbimento del reato di ricettazione in quello di assunzione di sostanze dopanti.
6.2 Carenza ed illogicità della motivazione in punto di esclusione del rapporto di specialità fra i due delitti contestati.
6.3 Carenza ed illogicità della motivazione in punto di vantazione dell’elemento soggettivo del reato.
6.4 Carenza di motivazione per l’omessa pronunzia in ordine alla richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena subordinatamente all’accoglimento della richiesta di sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono fondati per i motivi di seguito esposti.
2. Preliminarmente occorre richiamare l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte che hanno statuito che il reato di commercio di sostanze dopanti attraverso canali diversi da farmacie e dispensari autorizzati (art. 9, comma settimo, Legge 14 dicembre 2000 n. 376) può concorrere con il reato di ricettazione (art. 648 cod. pen.), in considerazione della diversità strutturale delle due fattispecie – essendo il reato previsto dalla legge speciale integrabile anche con condotte acquisitive non ricollegabili ad un delitto – e della non omogeneità del bene giuridico protetto, poiché la ricettazione è posta a tutela di un interesse di natura patrimoniale, mentre il reato di commercio abusivo di sostanze dopanti è finalizzato alla tutela della salute di coloro che partecipano alle manifestazioni sportive (Cass. Sez. U, Sentenza n. 3087 del 29/11/2005 Cc. (dep. 25/01/2006) Rv. 232558; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12744 del 11/03/2010 Ud.(dep.01/04/2010) Rv. 246672).
3. Tale arresto, tuttavia, non ha preso in considerazione il concorso fra la ricettazione ed il reato di cui al primo comma dell’art. 9 L. 376/2000 in quanto si riferisce esclusivamente al reato di commercio di sostanze dopanti di cui al comma settimo dell’art. 9.
Qualora si ponesse il problema, che nel caso di specie non rileva – dal momento che gli imputati sono stati assolti dal reato di cui al comma 1 dell’art. 9 – del concorso fra il reato di cui al comma 1 e la ricettazione, al contrario di quanto ritengono i ricorrenti, sarebbe il reato di uso di sostanze dopanti ad essere assorbito dal reato di ricettazione e non viceversa. Infatti la norma in parola prevede che:
“***** che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 5 milioni a lire 100 milioni chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze”.
L’inciso: “salvo che il fatto costituisca più grave reato” comporta l’assorbimento del reato speciale in quello di ricettazione, nel caso di concorso (apparente) di norme incriminatrici.
4. Pertanto devono essere respinte, siccome infondate, le censure sollevate dai ricorrenti che eccepiscono l’assorbimento del reato di ricettazione in quello di utilizzo di sostanze dopanti.
5. È fondata, invece, l’eccezione, comune ai tre ricorrenti, in ordine alla non integrazione della fattispecie legale del delitto di ricettazione per difetto dell’elemento soggettivo del dolo specifico in testa all’agente, vale a dire di aver compiuto l’azione “al fine di procurare a sé o ad altri un profitto”.
6. Al riguardo la Corte territoriale nel respingere l’analoga eccezione sollevata con i motivi d’appello ha osservato:
“Quanto poi al fine di profitto con tale condotta perseguito va condivisa la puntuale valutazione del Gup circa la natura di tale elemento. Infatti è assolutamente costante la giurisprudenza nel differenziare nell’ambito dei reati contro il patrimonio l’elemento del danno, che deve essere patrimoniale ed economicamente apprezzabile da quello del profitto che può essere anche non patrimoniale, potendo consistere in qualsiasi utilità o vantaggio, persino di ordine morale. Rileva quindi quale evidente profitto perseguito anche la finalità di miglioramento delle proprie prestazioni o aspetto fisico e quindi anche la soddisfazione di un piacere narcisistico di cui parlano gli appellanti”.
7. Alla luce dei presupposti di fatto, tali conclusioni non possono essere condivise in quanto, attraverso una elaborazione illogica del concetto di profitto, pervengono ad una svalutazione del dolo specifico, con ciò integrando una violazione di legge.
8. Quanto ai presupposti di fatto, occorre precisare che nel caso di specie è stato escluso che gli imputati avessero fatto uso delle sostanze anabolizzanti, che si erano procurate attraverso un circuito illegale, al fine di alterare delle prestazioni agonistiche. Si deve pertanto, escludere che nella fattispecie sussistesse un fine di profitto sportivo, collegato alla partecipazione a manifestazioni agonistiche, competizioni od altro. L’unico fine perseguito dagli agenti consisteva nella volontà di modificare il proprio aspetto fisico, anche a costo di assumere sostanze tossiche, palesemente dannose per la salute ed il loro benessere psico-fisico.
9. In tema di elemento psicologico del reato di ricettazione, secondo un orientamento risalente, ma del tutto pacifico, di questa Corte, la nozione di profitto prevista dall’art. 648 cod. pen. comprende non solo il lucro, ma qualsiasi utilità, anche non patrimoniale, che l’agente si proponga di conseguire. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9997 del 09/06/1981 Ud. (dep. 07/11/1981) Rv. 150867; conf. mass. nn. 142633 e 113288, Cass. 25 marzo 1954, ********).
Non può essere revocato in dubbio, pertanto, che anche una utilità esclusivamente morale possa integrare il fine di profitto.
10. Tuttavia è altrettanto evidente che se la latitudine del concetto di profitto può essere estesa a qualsiasi utilità, la nozione di utilità, a sua volta non può essere estesa all’infinito. Diversamente ragionando si perverrebbe ad una interpretazione abrogante del dolo specifico richiesto dalla norma, con la conseguenza che la condotta di acquisto o ricezione di cosa proveniente da delitto sarebbe punibile solo sulla base del dolo generico, vale a dire la semplice conoscenza dell’origine illecita della cosa.
11. Ritiene il Collegio che la nozione di utilità non possa essere forzata fino al punto da includervi anche la mera utilità negativa, vale a dire ogni circostanza che, senza ledere diritti od interessi altrui, si risolva in una mera lesione della sfera soggettiva dell’agente.
Di conseguenza deve escludersi che il fine di compiere una azione in danno di sé stessi, sia pure perseguendo un’ utilità meramente immaginaria o fantastica (come nel caso di specie), possa integrare il fine di profitto, vale a dire il dolo specifico previsto dalla norma di cui all’art. 648 per la punibilità delle condotte ivi descritte.
Diversamente ragionando si arriverebbe al paradosso di considerare dettata dal fine di profitto l’azione di chi si procuri, attraverso un circuito illecito, dei barbiturici allo scopo di suicidarsi. Secondo le norme più elementari della logica, invece, non può essere revocato in dubbio che il suicidio, o altri atti lesivi della propria integrità psico-fisica non possano essere ricondotti alla nozione di utilità, a meno che le lesioni alla propria integrità non siano strumentali ad altri fini (per es. il conseguimento di un miglior risultato sul piano agonistico), che nel caso di specie non sussistono.
12. Per le ragioni su esposte può essere formulato il seguente principio di diritto:
“il dolo specifico del fine di profitto, previsto dall’art. 648 cod. pen. per integrare la condotta di reato, non può consistere in una mera utilità negativa, che si verifica ogni volta che l’agente agisca allo scopo di commettere un’azione esclusivamente in danno di sé stesso, sia pure perseguendo un’utilità meramente immaginaria o fantastica”.
13. Di conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata, senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato.

 

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

Redazione