Il Comune può ordinare la demolizione anche a distanza di tempo dalla commissione dell’abuso (Cons. Stato n. 496/2013)

Redazione 28/01/13
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FATTO e DIRITTO

1.– I signori Nello D. B., ***********, ************, ***********, hanno realizzato su un terreno demaniale in località Punta ********, all’epoca frazione del comune di Venezia, rispettivamente: 1) un immobile ad uso magazzino; 2) un immobile ad uso abitazione e magazzino; 3) un immobile ad uso abitazione e magazzino; 4) un immobile ad uso negozio e studio. Secondo le parti i primi tre manufatti sarebbero stati realizzati nel 1976, l’ultimo nel 1959.

Nel 1981 la Capitaneria di porto di Venezia aveva concesso parti di tale superfice, comprese quelle in esame, al Comune di Venezia al fine di realizzare le opere previste dal piano particolareggiato, che qualificava l’area come «commerciale». La concessione ha perso efficacia nel 1987 senza attuazione delle attività programmate.

Gli interessati hanno presentato, in relazione agli immobili realizzati, una domanda di condono al Comune e alla Capitaneria di porto ai sensi della legge 28 dicembre 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie). L’amministrazione comunale ha rigettato la domanda in quanto, trattandosi di manufatti insistenti su area demaniale, la Capitaneria aveva negato l’uso del suolo e ordinato lo sgombero e il ripristino dello stato dei luoghi.

Tali atti sono stati impugnati. I ricorsi sono stati rigettati con sentenze del Tribunale amministrativo regionale del Veneto, Sezione I, 13 ottobre 1989, numeri 940, 941 e 942.

Il Consiglio comunale di Venezia, con deliberazione del 23 novembre 1990, n. 1041, ha ritenuto che le opere contrastassero con «rilevanti interessi urbanistici ed ambientali per forma, materiale ed ubicazione». L’amministrazione comunale, con ordinanze 30 gennaio 1991, numeri 23/89 (rivolta a ***********), 23/90 (rivolta a ************ e ***********) e 23/111 (rivolta a ***********), preso atto del rigetto delle domande di sanatoria e della deliberazione consiliare, ha ordinato la demolizione delle opere. L’ordinanza fa riferimento anche al fatto che le opere si pongono in contrasto con le previsioni del piano particolareggiato «che prevede parte a verde pubblico e parte a negozi, servizi turistici e viabilità pedonale».

Gli interessati, con autonomi ricorsi, hanno impugnato sia la deliberazione n. 1041 del 1990 sia le ordinanze di demolizione indicate al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto per i motivi riproposti in appello.

1.1.– Il Tribunale amministrativo, con sentenze 3 aprile 2007, numeri 1096, 1097, 1099 e 1100, ha rigettato i ricorsi.

2.– I ricorrenti in primo grado (per la sig.ra ***********, gli eredi ***** e *********; per il sig. ************, gli eredi ***** e *********, ************ e ***********) hanno proposto appello.

3.– I ricorsi, stante la connessione oggettiva, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4.– Gli appelli non sono fondati.

4.1.– Con un gruppo di motivi si deducono illegittimità che, per il contenuto, possono essere esaminati congiuntamente seguendo la stessa indicazione numerica prospettata negli atti di appello.

In particolare, con un primo motivo si assume la violazione dell’art. 95 della legge della Regione Veneto 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio), che disciplina le ipotesi di acquisizione o demolizione degli interventi edilizi eseguiti, senza titolo abilitativo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato. In particolare, si afferma che tali norme presupporrebbero «l’esistenza del contrasto dell’opera con le norme urbanistiche vigenti o adottate». Ne conseguirebbe che «la mancanza della concessione ad edificare non comporta, per ciò solo, l’automatica acquisizione o demolizione dell’opera, ma l’assenza del titolo giustificativo deve essere accompagnata anche dal contrasto con le vigenti prescrizioni urbanistiche». Nel caso di specie nell’ordinanza di demolizione si assume soltanto il «contrasto con le previsioni del piano particolareggiato», senza specificare «né quando sia stato adottato, né se esso risulti ancora in vigore o se, invece, sostituito da altro adottato». Ciò avrebbe rilevanza in quanto il piano adottato all’epoca del Comune di Venezia avrebbe superato il periodo di durata decennale.

Con il nono motivo si deduce anche la «genericità ed inidoneità» della delibera consiliare, richiamata nell’ordinanza di demolizione, in quanto la stessa si sarebbe limitata a ritenere le opere contrastanti «con rilevanti interessi urbanistici e/o ambientali per forma materiali e ubicazione».

Con il terzo e settimo motivo si assume che mancherebbe anche il parere dell’ente statale, non potendosi ritenere sufficiente, come erroneamente affermato dal primo giudice, che la Capitaneria di porto di Venezia si sia già in precedenza pronunciata ordinando lo sgombero e il ripristino dell’area. Inoltre, gli atti impugnati sarebbero illegittimi, secondo gli appellanti, in quanto la delibera di valutazione del contrasto delle opere con le previsioni urbanistiche spetterebbe, ai sensi dell’art. 32 della legge 8 giugno 1990, n. 142, alla Giunta comunale e non al Consiglio.

Con l’ottavo motivo, connesso a quest’ultima doglianza, si afferma che «l’eccepita incompetenza del Consiglio comunale ad emettere l’ordinanza di demolizione […] non può non concernere anche l’adozione (riservata alla Giunta) della delibera consiliare prodromica all’ordine di demolizione».

Con il quinto e decimo motivo si deduce la violazione del detto art. 95, in quanto l’ordine di demolizione e la delibera consiliare avrebbero dovuto essere preceduti dal parere della commissione edilizia, che sarebbe necessario in quanto verrebbero in rilievo valutazioni discrezionali dell’amministrazione.

I motivi non sono fondati.

L’art. 95 l.r. Veneto n. 61 del 1985 prevede, al primo comma, che: «Le opere conseguenti a interventi eseguiti da terzi su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di Enti pubblici in assenza o in totale difformità o con variazioni essenziali dalla concessione o dalla relativa istanza, ove essa sia stata tacitamente assentita, e in contrasto con la disciplina urbanistica vigente e adottata, sono acquisite gratuitamente dallo Stato o dall’Ente pubblico interessato al rispettivo demanio o patrimonio, quando il Consiglio comunale non abbia dichiarato l’opera abusiva in contrasto con rilevanti interessi urbanistici e/o ambientali, e sia intervenuto il parere favorevole dell’Ente interessato». Al secondo comma dispone che: «Nel caso in cui il Consiglio comunale dichiari l’opera in contrasto con rilevanti interessi urbanistici e/o ambientali o non vi sia il parere favorevole dell’Ente interessato anche quando si tratta di opere in parziale difformità, il Sindaco ne ordina la demolizione da effettuarsi a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro un termine stabilito e prorogabile ai sensi del quinto comma dell’art. 92».

La disposizione in esame in sostanza afferma, contrariamente quanto sembrano assumere gli appellanti e lo stesso primo giudice, che, in presenza di opere abusive realizzate su suolo demaniale, esiste una duplice possibilità: 1) acquisizione del bene al patrimonio dello Stato e dell’ente pubblico interessato se a) l’ente manifesti il primo interesse all’acquisizione e b) il Consiglio comunale «non abbia dichiarato l’opera abusiva in contrasto con rilevanti interessi urbanistici e/o ambientali»; 2) demolizione delle opere a spese dell’autore dell’abuso qualora manchi una sola delle due condizioni per l’acquisizione.

Si tratta, dunque, di una norma attributiva di un potere da esercitarsi nell’interesse della amministrazione pubblica. Si vuole così aprire la possibilità di un’utilizzazione pubblica delle opere abusive, se ricorrono i presupposti indicati.

Nella fattispecie in esame, il Consiglio comunale, con la delibera n. 104 del 1990, ha chiaramente affermato che l’opera «contrasta con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali per forma, materiale ed ubicazione». In presenza di una tale deliberazione, non potendosi procedere all’acquisizione del bene, il Sindaco era obbligato a ordinare la demolizione. Ne consegue che, contrariamente a quanto affermato dagli appellanti, la valutazione del non contrasto con l’assetto urbanistico non è necessaria per procedure alla demolizione, ma soltanto per stabilire se, in luogo di essa, si possano acquisire al patrimonio pubblico le opere.

In altri termini, in presenza di immobili abusivi quali quelli in esame, gli interessati non possono invocare questa norma per qualificare come illegittimo lo stesso ordine di demolizione. La necessità della valutazione urbanistica, piuttosto, è funzionale alla sola scelta della sanzione da applicare in concreto, ma non riguarda anche l’accertamento di illiceità del manufatto che forma il nucleo principale di quell’ordine.

Essendo questa la corretta interpretazione della norma, questa Sezione ritiene, analizzando le censure nell’ordine esposto, quanto segue:

a) in relazione al primo motivo, non è necessario che l’ordinanza di demolizione contenga in sé un riferimento a valutazioni urbanistiche; il contestato riferimento alle previsioni del piano particolareggiato, contenuto nell’ordinanza, è ultroneo: con la conseguenza che l’asserita genericità non potrebbe comunque determinare l’invalidità dell’atto impugnato;

b) in relazione al nono motivo, è sufficiente – anche in ragione del fine perseguito, che consiste in un particolare interesse pubblico come quello rammentato – la motivazione che in concreto è stata adottata nella delibera consiliare perché si proceda non già all’acquisizione ma senz’altro alla demolizione dell’opera;

c) in relazione al terzo e settimo motivo, non è necessario il parere statale, in quanto è sufficiente la deliberazione di contrasto del Consiglio comunale perché si proceda alla demolizione;

d) in relazione al terzo, settimo e ottavo motivo, sono infondate le censure di incompetenza; l’art. 95 è chiaro nell’attribuire al Consiglio comunale il potere di valutare l’incidenza delle opere abusive sull’assetto urbanistico e al Sindaco la funzione di ordinare la demolizione; questo riparto di competenze è stato rispettato;

e) in relazione al quinto e decimo motivo, è sufficiente rilevare che l’art. 95 non contempla il parere della commissione edilizia né ai fini della delibera consiliare né ai fini dell’ordine di demolizione.

4.2.– Con ulteriore motivo si deduce il difetto di motivazione dell’ordinanza, in quanto la stessa, essendo stata irrogata a «notevole distanza di tempo dalla commissione dell’abuso», avrebbe dovuto valutare l’affidamento ingenerato nel privato.

Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza è costante nel ritenere che l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l’interessato non può dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11 maggio 2011, n. 2781). In particolare, si è affermato che nel caso di abusi edilizi vi è «un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza». In questi caso il «fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse» (Cons. Stato, IV, 4 maggio 2012, n. 2592).

4.3.– Con il quinto motivo si assume che «gli immobili acquisiti dal Comune di Venezia sono stati eretti in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 10 del 1977, la quale per prima ha sancito il principio dell’alternatività tra acquisizione e demolizione. L’amministrazione comunale, pertanto, avrebbe dovuto applicare le norme vigenti al momento del compimento dell’abuso, non quelle ad esso successive».

Il motivo è generico.

Non vengono indicate, a parte ogni altra considerazione, le norme che l’amministrazione avrebbe dovuto applicare e quale diversa incidenza questo avrebbe determinato sulla legittimità degli atti impugnati.

4.4.– Con il sesto motivo si deduce la violazione dell’art. 76 della legge regionale del Veneto 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio) e dell’art. 40 della legge n. 47 del 1985, le quali prevedono che, se vengono in rilevo, come nel caso di specie, opere pertinenziali non sarebbe necessaria la concessione edilizia e conseguentemente non sarebbe possibile ordinarne la demolizione. Si contesta, inoltre, l’erroneità della sentenza che ha dichiarato generica la relativa doglianza.

Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza è costante nel ritenere che la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici. In particolare, ha rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza ed immobile principale quanto che: 1) la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d’uso nel rapporto funzionale con l’edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Cons. Stato, VI, 11 maggio 2011, n. 2781); 2) vengano in rilievo «manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l’assetto del territorio» (Cons. Stato, VI, 13 gennaio 2010, n. 41).

Nel caso di specie, come risulta dalla descrizione delle opere e a prescindere dalla genericità del richiamo ad una loro “parziale” natura pertinenziale, vengono in rilievo manufatti che, avendo una autonoma destinazione con incidenza rilevante sull’assetto del territorio, non possono essere qualificati quali pertinenze.

4.5.– Nell’ultima parte dell’appello proposto dal sig. Nello D. B., al punto n. 11 si deduce che il primo giudice avrebbe commesso un errore materiale nell’affermare che, in data 16 settembre 2006, l’appellante avrebbe depositato documenti richiesti dal Comune in ordine ad una seconda domanda di condono presentata ai sensi della legge 23 dicembre 1994, n. 724.

Il motivo è generico e non chiaro, perché non è dedotto quali conseguenze negative ciò avrebbe determinato nella sfera giuridica dell’appellante. Sicché è privo di reale contenuto idoneo a suffragare la domanda giudiziale.

5.– La natura della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando, riuniti i ricorsi:

a) rigetta gli appelli proposti con i ricorsi indicati in epigrafe;

b) dichiarata integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 novembre 2012

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