I versamenti sul conto corrente dell’imprenditore non sono prova di evasione fiscale (Cass. pen. n. 37071/2012)

Redazione 26/09/12
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Svolgimento del processo

La Corte di appello di Cagliari, con sentenza del 12.3.2012, ha confermato la sentenza 22.12.2010 del Tribunale di Oristano, che aveva affermato la responsabilità penale di Z.L. in ordine ai reati di cui:

– al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 (per avere – al fine di evadere le imposte sui redditi e l’imposta sul valore aggiunto – indicato, nelle dichiarazioni relative agli anni 2003, 2004, 2005 e 2006, elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi, con imposte evase superiori, per ciascun anno di contribuzione, alla soglia di Euro 103.291,36 e con ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione superiore al 10% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione) e, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., lo aveva condannato alla pena principale di anni uno, mesi due di reclusione ed alle pene accessorie di legge, concedendo il beneficio della sospensione condizionale subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante il pagamento delle sole imposte evase entro il termine di 120 giorni dalla formazione del giudicato.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso lo Z., il quale – sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione – ha eccepito la insussistenza dei reati, in sussistenza dei reati, in quanto la prova degli stessi sarebbe stata desunta soltanto dalle risultanze bancarie in virtù di una presunzione tributaria che non potrebbe trovare ingresso in sede penale.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perchè generico e manifestamente infondato.

I giudici del merito correttamente hanno ricondotto i fatti contestati alla previsione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4 (dichiarazione infedele), essendo stata acquisita la prova che elementi attivi per un ammontare di gran lunga inferiore a quello effettivo sono stati indicati, con il dolo specifico di evasione d’imposta, in dichiarazioni prodotte ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (con superamento congiunto delle soglie di punibilità già poste dallo stesso art. 4 anteriormente alle modifiche aggravatrici ad esso apportate dalla L. 14 settembre 2011, n. 148).

La giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso che, in tema di reati tributari, non può farsi ricorso alla presunzione tributaria secondo cui tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 1), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto (vedi Cass., Sez. 3, 6.2.2009, n. 5490).

Rileva, però, il Collegio che l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori.

Ciò si è verificato nella fattispecie in esame, ove gli elementi indiziari tratti dalle movimentazioni sui due conti correnti intestati a “ditta Zedda Livio” hanno trovato oggettivo riscontro:

– nella mancata annotazione in contabilità di numerose fatture attive e passive;

– nel mancato rilascio di fatture a numerosi clienti (che avevano beneficiato di finanziamenti dalla s.p.a. “Compass” proprio per la fornitura di impianti da parte dell’imputato);

– nell’utilizzazione di due magazzini per lo stoccaggio delle merci non dichiarati dall’imputato ai fini dello svolgimento dell’attività imprenditoriale.

A fronte di tali accertamenti, lo Z. si è limitato, anche in sede di ricorso ad una contestazione assolutamente generica, prospettando soltanto che “i movimenti bancari non possono essere tutti o in parte riferibili all’attività di impresa, potendosi attribuire alle necessità familiari”.

Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria della stessa consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere delle spese del procedimento nonchè quello del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille/00 in favore della Cassa delle ammende.

Redazione