Gratuito patrocinio: la suocera convivente è rilevante ai fini dei limiti di reddito (Cass. pen. n. 44121/2012)

Redazione 13/11/12
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I.D. propone ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza, in epigrafe indicata, con cui il Tribunale di Brindisi ha rigettato l’opposizione avverso il provvedimento di revoca di ammissione al patrocinio a spese dello Stato emesso il 28.04.2004 dal Tribunale dello stesso capoluogo – sezione distaccata di Fasano -.

Si premette che a seguito di due diverse istanze, relative rispettivamente ai procedimenti nn- R.G. N. R. 209/99, R.G. Trib. 300/02 e R.G.R.N. 5598/99, R.G. Trib. 321/03, il ricorrente era stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

Successivamente i due procedimenti penali venivano riuniti ed, in riferimento all’attività svolta, il difensore di fiducia, avv. ***************, chiedeva la liquidazione degli onorari.

Con decreto depositato in data 3.05.2004 il G.O.T. revocava ex officio i decreti di ammissione dell’ I. al patrocinio a spese dello Stato e rigettava l’istanza di liquidazione delle competenze.

Proposta rituale opposizione ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 99 veniva emessa l’ordinanza impugnata.

Con un primo motivo si denuncia violazione di legge nella specie del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 97, 99 e 112 in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 3 e 5.

Si eccepisce che la revoca del provvedimento di ammissione al patrocinio a spese dello stato può essere pronunciata solo per le ipotesi previste dall’art. 112 del citato D.P.R., così come, per altro affermato dalla S.C. a SS.UU. con sentenza n. 36168 del 10.09.2004.

Con il secondo motivo si denuncia altra violazione di legge ed in particolare del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 72 e 92 in relazione all’art. 360 c.p.c., commi 3 e 5. Si argomenta che erroneamente il G.O.T., con il provvedimento di revoca, ha ritenuto di dover cumulare il reddito dell’istante con quello di R.V., madre della sua convivente, la quale, sebbene coabiti con la figlia ed il suo compagno, non può ritenersi “familiare” ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 2 e art. 92.

I motivi esposti sono infondati sicchè il ricorso va rigettato.

Destituita di fondamento è la censura posta a base del primo motivo atteso che essa è in evidente contrasto con la stessa formulazione della norma ritenuta violata atteso che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 112, comma 1, lett. d), consente al giudice di revocare, anche d’ufficio, il decreto di ammissione al gratuito patrocinio nel caso in cui “risulta provata la mancanza originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito di cui agli artt. 76 e 92” dello stesso D.P.R. (per altro la massima giurisprudenziale di questa Corte a SS.UU. di cui alla sentenza n. 36168 del 19.09.2004, riportata in ricorso, è quanto mai chiara nell’affermare che il giudice può revocare l’ammissione al gratuito patrocinio solo per i casi previsti dal citato art. 112).

Nel caso di specie il decreto di ammissione è stato revocato proprio per la mancanza di una delle condizioni per accedere al beneficio in parola, vale a dire un reddito imponibile superiore al tetto previsto dall’art. 76 sulla base di quanto emerso dalle indagini effettuate presso i competenti uffici finanziari dovendosi cumulare al reddito dell’istante anche quello percepito dalla madre della compagna convivente dell’istante, anch’essa convivente.

Quanto al secondo motivo, ovviamente strettamente collegato al primo, la questione se è legittimo computare, ai fini della determinazione del reddito complessivo dell’istante ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2000, art. 76, anche quello di una persona con lui convivente che non sia legato allo stesso da vincoli di parentela, non può che avere una risposta affermativa sulla base della elaborazione giurisprudenziale di questa Corte in materia.

Per vero questa Corte si è pronunciata (V. per tutte Sez. 4, Sentenza n. 109 del 26/10/2005 Cc. Rv. 232787) più volte affermativamente con riferimento al reddito del convivente “more uxorio” dell’istante, ma il principio di diritto ricavabile da tali pronunce va esteso anche al caso sottoposto al caso di specie.

La norma di cui al D.P.R. n. 115 del 2000, art. 76 stabilisce che “…se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia…”, quest’ultimo termine è stato poi utilizzato dal legislatore nel successivo art. 92, ai fini dell’elevazione dei limiti del reddito per l’ammissione.

Dunque, il termine usato dalla legge è quello di “familiare” o di “componente della famiglia”.

Il problema che si pone, sollevato dal ricorrente, è quello di verificare se il legislatore, con l’adozione di tali accezioni, abbia voluto far riferimento ai soli familiari, componenti del nucleo familiare, uniti all’istante da vincoli di parentela o affinità o se, invece, anche a quei componenti che, convivendo e contribuendo ognuno di essi, sia dal punto di vista economico che collaborativo, alla vita in comune, costituiscono il nucleo familiare.

Nell’ambito di una interpretazione sistematica della legge sottoposta al nostro esame è da considerare che il legislatore ogniqualvolta ha voluto dare rilevanza, vuoi per aggravare o per favorire la posizione dell’imputato, ai rapporti derivanti da un legame per cosi dire naturale o di acquisizione, ha sempre utilizzato, oltre ai termini inequivocabili di ascendente, discendente, coniuge, fratelli e sorelle (V ad es. art. 649 cod. pen.), caratterizzanti un vicolo familiare derivanti da rapporti di consanguineità, anche le parole “congiunti”, “prossimi congiunti” anch’esse, comunque, riferibili ad un legame di natura giuridica, tant’è che, quando ha esteso i diritti a questi (prossimi congiunti) spettanti ad altre persone, pur conviventi, ma non legati all’imputato da vincoli di sangue o giuridici, ha previsto una specifica eccezione (V ad es. art. 199 c.p.p., comma 3, lett. a)), laddove si riconosce al e/o alla convivente “more uxorio” dell’imputato e/o imputata, la facoltà di non rendere interrogatorio nel procedimento a carico di quest’ultimo.

Di conseguenza l’uso del termine “familiare” nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 76 nella materia di cui trattasi ha una sua specifica pregnanza avendo il legislatore, al fine di riconoscere il beneficio di cui trattasi a colui che non può far fronte al costo economico della difesa in un procedimento penale, voluto tener conto della capacità economico-finanziaria di tutti coloro che, per legami giuridici o di fatto, comunque, concorrono a formare il reddito familiare. Di tal che sarebbe non conforme ai principi costituzionali di solidarietà, equa distribuzione e di partecipazione di ogni cittadino alla spesa comune attraverso il prelievo fiscale, il fatto che dovrebbe gravare sui contribuenti il costo della difesa di un cittadino che può fruire dell’apporto economico dei vari componenti il “nucleo familiare”, ancorchè il suo reddito personale gli consenta di accedere al beneficio. Dunque, appare orientata costituzionalmente l’interpretazione che va data al termine “familiare”, riferibile non solo a coloro che sono legati all’istante da vincoli di consanguineità o, comunque, giuridici, ma anche a coloro che convivono con lui e contribuiscono al “menage” familiare.

Dovendo confrontarsi con le mutate concezioni che via via si sono affermate nella società moderna, la giurisprudenza, ha dato atto che il legislatore, in materia di rapporti interpersonali, ha considerato la famiglia “di fatto” quale realtà sociale che, pur essendo al di fuori dello schema legale cui si riferisce, esprime comunque caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia “stricto sensu” intesa.

In definitiva questa Corte ritiene condivisibile la motivazione sul punto dell’impugnata ordinanza.

Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione