Giudizio di legittimità, vizio della motivazione qualificabile come contraddittorietà ex legge n. 46 del 2006, art. 8, travisamento della prova (Cass. pen. n. 39983/2013)

Redazione 26/09/13
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Ritenuto in fatto

1. S.E. veniva rinviata a giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 110, 575 e 577, 1 comma nn. 2, 3 e 4 (in relazione all’art. 61, nn. 1 e 4 cod. pen.) e 2 comma cod. pen., perché, in concorso con M.G. , imputato giudicato in separato giudizio, con premeditazione e servendosi anche di sostanze venefiche, cagionava, per motivi abietti e futili la morte del coniuge, L.C.G., agendo con crudeltà nei confronti della vittima, ed in particolare:
a) iniettando – il M. – alla vittima massicce dosi di valium (in tre soluzioni) e praticandogli altresì una iniezione di una mistura di insetticida diluito con acqua;
b) cingendo la testa della vittima con un sacchetto di plastica, stringendogli attorno al collo una cintura di accappatoio, ed infine comprimendo con forza dei cuscini sul volto della vittima, il tutto al fine di soffocarlo;
c) infine, il M. percuotendo la vittima ripetutamente al capo con una statuetta in legno e ceramica, che gli era stata data dalla S. proprio al fine di colpire **** , così fracassandogli la scatola cranica e cagionando perciò le lesioni mortali.
Con le aggravanti, altresì, di cui all’art. 61 n. 5 e 11 cod. pen., per avere il M. e la S. profittato della minorata difesa della vittima, in precarie condizioni di salute, e per avere la S. commesso il fatto con abuso delle relazioni domestiche e di coabitazione con la vittima.
Reato commesso in … nella notte fra il (omissis) .
2. La Corte di assise di Palermo, con sentenza deliberata il 21 luglio 2010, dichiarava l’imputata colpevole del reato ascrittole e la condannava alla pena dell’ergastolo nonché al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
3. La Corte di assise di appello di Palermo, con sentenza deliberata il 4 novembre 2011 e depositata il 19 gennaio 2012, ha riformato quella di primo grado, limitatamente all’entità della pena, sia quella principale, ridotta ad anni ventiquattro di reclusione, previa esclusione dell’aggravante della premeditazione ed applicazione delle attenuanti generiche, ritenute equivalenti a tutte le residue circostanze aggravanti; sia quelle accessorie (avendo ridotto la durata dell’interdizione legale e sostituito alla decadenza dalla potestà genitoriale quella della sospensione dell’esercizio della stessa durante l’espiazione della pena); ha confermato nel resto, l’impugnata sentenza e quindi anche relativamente alla condanna al risarcimento del danno.
3.1 I fatti all’origine del presente giudizio, sono stati così riassunti dalla Corte territoriale:
Alle h.3,50, chiamati in una villetta di via … da personale del 118 già sul posto, i Carabinieri trovavano il L.C. supino sul pavimento della camera da letto in una pozza di sangue in posizione prona con multiple lesioni al volto ed al cranio. Vicino al capo rinvenivano una statuetta in ceramica rotta ed a 28 cm. un grosso coltello da cucina. La stanza in subbuglio con cuscini e lenzuola per terra faceva pensare ad una avvenuta colluttazione, specie ove si consideri che v’erano schizzi di sangue dappertutto (anche nel corridoio, nel bagno e in cucina).
In casa si trovavano con la S. , M.G. , **** e V.I. .
A mezzo della rituale autopsia si notavano sulla vittima lesioni da corpo contundente e di tipo asfittico (soffocazione o strangolamento), nonché una ecchimosi nastriforme al collo (provocati verosimilmente da cintura di accappatoio) tale da provocare rottura delle cornee dell’osso ioide, ma non la morte, e segni di agopuntura sul gluteo sinistro. L’analisi delle urine rilevava principi di benzodiazepine e pesticida. Si concludeva perciò che la morte era avvenuta tra le h.0,00 e le h.2,00 per arresto cardio-circolatorio seguente alle lesioni da corpo contundente. Sulla statuetta infranta v’erano tracce ematiche (il RIS le attribuiva poi alla vittima, salvo una riconducibile al M. ), mentre palesemente incongrua appariva la presenza del coltello, pure imbrattato di sangue.
Nella immediatezza la S. diceva di avere colpito il marito con la statuetta (solitamente poggiata sul comodino), allorché costui l’aveva minacciato con il coltello mentre erano a letto da soli.
Dall’esame dei tabulati telefonici dell’utenza in uso alla S. si rilevava che la stessa aveva chiamato il M. alle h.23,06 ed il V. , prima, alle h. 23,37 e poi ancora alle h. 1,53.
Dalla istruttoria dibattimentale emergeva che V. era il formale presidente della Coop. Sicilia di servizi di pulizia per enti pubblici, impresa gestita di fatto dalla S. , avente sede in un locale fornito dal L.C. , imprenditore cimiteriale. M. era dipendente della cooperativa.
Quella sera i coniugi V. ed il loro figlio avevano cenato a casa della vittima, la quale, però, come già altre volte era accaduto, non era stato con loro a tavola per un malessere derivante da cirrosi epatica; patologia di cui soffriva da due anni e a detta dal ******** , medico di famiglia, non costituente pericolo per la vita, salvo complicanze (peraltro già manifestatesi) quali encefalopatia o emorragie gastriche per rottura di varici esofagee di esito non prevedibile. Nel corso della serata era stato concordato che il figlio dei L.C. , A. , sarebbe andato a dormire a casa del V. , come in altre occasioni era avvenuto, dato che i ragazzi erano amici. Erano tutti andati via intorno alle h.23.
Il V. spiegava che la S. lo aveva chiamato una prima volta, mentre lui era ancora per strada, chiedendogli se aveva già raggiunto la sua abitazione e la seconda volta, quando era già a casa, dicendogli che il marito stava male. Lui allora aveva avvisato il C. (cugino della vittima) ed insieme erano giunti nella villetta di via … alle h. 2,45. Aveva loro aperto il cancello il M. e la S. (ancora con gli abiti sporchi di sangue) aveva subito detto di avere ucciso il marito per difendersi dalla minaccia, da quello portata con un coltello mentre erano a letto. Con il telefono del C. avevano quindi chiamato un’ambulanza, il cui personale aveva poi informato i Carabinieri. Il M. , nella immediatezza, sosteneva la tesi della S. , dicendo di essere stato chiamato anche lui per un attacco di encefalopatia del marito. Quando però i Carabinieri rilevavano una ferita al dito mignolo della mano, costui inizialmente l’attribuiva in modo inverosimile al morso, datogli da un cane qualche giorno prima, poi diceva di essere stato convocato dalla S. alle h. 23,30 “per parlargli”; di essere arrivato alle h. 23,45 e di essere stato minacciato con un coltello dal L.C. , che l’aveva sorpreso mentre in cucina dava un bacio “sulla fronte” della donna, con la quale aveva una relazione da sedici mesi; lui lo aveva tenuto lontano con una sedia ed erano finiti in camera da letto, dove la S. aveva colpito il marito con la statuetta, fino ad ucciderlo. Indagato per il reato di omicidio il M. (interr. 15.4.04 ai CC) modificava tale versione. Ed infatti precisava di essere stato chiamato dalla S. alle h. 23,10; di avere appreso da costei di contrasti con il marito che continuava a chiederle rapporti sessuali, per lei dolorosi a causa di un “mioma” all’apparato genitale; di avere perciò deciso di uccidere L.C. per liberare da quel peso insopportabile la donna, che più volte aveva detto di sperare che il marito morisse al più presto; di avere praticato allo stesso tre iniezioni di Valium (preso dalla cucina) alla distanza di cinque minuti l’una dall’altra e, dopo mezz’ora, una di insetticida diluito in acqua (datogli dalla S.); di avere quindi tentato di soffocare la vittima con un sacchetto di plastica e con due cuscini sul viso mentre la donna teneva ferme le gambe del marito e, poiché questo si dimenava tanto da strappare il sacchetto, di essersi fatto passare la statuetta con cui (uscita la S. dalla stanza) aveva colpito il L.C. alla nuca ed alla tempia fino a rompere la scatola cranica; di avere stretto la carotide della vittima con le mani e con una cintura al collo, pressandolo sulle spalle fino a constatarne la morte; di avere preso dalla cucina il coltello per fare pensare ad una colluttazione (uno schizzo di sangue era finito sui suoi jeans). Sostanziale conferma il M. offriva nel corso dell’interrogatorio, reso al GIP il 19.4.04, allorché precisava di essere stato inviato nel 2001 come P.I.P. dal Comune alla cooperativa della S. , con la quale aveva intrapreso una relazione sentimentale dal dicembre 2002 intrattenendo sporadici rapporti sessuali; di essersi perciò separato dalla moglie nell’ottobre 2003; di avere preso a frequentare la famiglia del L.C. , accorgendosi che questi trattava male la consorte, ma intrattenendo ottimi rapporti con lo stesso (prestandogli assistenza in occasione dei ricoveri presso gli ospedali e donandogli il sangue) fino al 12 aprile, quando aveva saputo della decisione di estrometterlo dalla cooperativa. Quanto alla sera del delitto, il M. ribadiva la già riferita dinamica ed aggiungeva di avere concordato con la S. la tesi della tragica colluttazione, seguita alla scoperta delle loro effusioni in cucina.
Mutava la sua versione il M. avanti al PM il 28.11.06, sostenendo che al suo arrivo a casa L.C. , chiamato dalla S. perché “il marito stava male”, costei gli aveva raccontato di avere lei stessa (trovata con le mani ancora sporche di sangue) commesso l’omicidio per resistere alle richieste sessuali con le modalità prima specificate (punture di Valium e di insetticida, sacchetto sul viso, colpi in testa con la statuetta). Affermava di essersi prima detto responsabile del delitto per sollevare da ogni conseguenza la donna della quale era perdutamente innamorato, anzi “infatuato” perché non corrisposto. Confermava nell’occasione i suoi ottimi rapporti con il L.C. e negava la possibilità di un suo licenziamento, visto che egli era stato già “messo in regola” dal Comune quale PIP.
Di fronte alle plurime contestazioni, giustificava infine le discrepanze narrative con una infermità di natura psichiatrica, per le quali era in cura.
Sulla versione resa in sede di convalida, arricchita da ulteriori dettagli [relazione sentimentale dal dicembre 2002 con solo sei rapporti sessuali – continui rapporti anche per “rilevarla” dalle sale-gioco su incarico del marito o per assistenza nel corso di ricoveri del L.C. – aiuti anche economici alla cooperativa in momenti di difficoltà economiche – proposito dell’imputata di uccidere il marito con il veleno nelle pietanze – sua decisione omicida la sera del delitto, determinata dall’intento della imputata di farlo con un coltello – iniezioni fatte, non da lui che aveva “paura di aghi e iniezioni ma da costei (dicendo al marito trattarsi di disintossicante) – collaborazione della donna nel trattenere la gambe della vittima e nel passargli la statuetta usata per i colpi in testa – accordo sulla tesi della difesa dalla minaccia con il coltello, loro portata mentre si baciavano – ammissione della S. al V. ed al C. di avere commesso il fatto perché “non ne potevo più; lo dovevo fare” – idea di tutti i presenti di chiamare il ******** per trovare insieme la maniera di fare apparire accidentale l’evento e tentativo infruttuoso da lui stesso operato in tal senso (particolare confermato del G. che ha riferito che qualcuno effettivamente aveva citofonato nel corso della notte)] tornava il M. il 9.7.07, allorché chiedeva di essere ancora sentito dal PM, e nel corso delle udienze dibattimentali 3.7.08, 10.7.08, 22.7.08, 17.9.08, 23.9.09, quando asseriva di avere talora cambiato il tenore delle sue dichiarazioni per salvaguardare la S. , di cui era intensamente innamorato ed alla quale aveva fatto anche costosi regali ed illustrava tutte le annotazioni contenute nella agenda [acquisita agli atti], ove trovavasi registrato tutto quanto faceva per l’espletamento degli incarichi conferitigli dalla S. , menzionata nel diario con “B.M.”, vezzeggiativo di “(omissis) “.
La S. , invece, negava decisamente la propria responsabilità, insistendo al dibattimento (ud. 21.12.09) nella tesi già esposta (a sua richiesta) al PM il 30.3.05. Conveniva che il M. , con il quale aveva una frequentazioni quotidiana per ragioni di lavoro, aveva “perso la testa” per lei, ma escludeva di avere intrattenuto con lo stesso una relazione sentimentale. Tutto ciò comunque non aveva mai suscitato la gelosia del marito (gravemente malato tanto da essere ritenuto prossimo alla morte in occasione dell’ultimo ricovero presso l’Ospedale di (omissis)), il quale lo stimava poco e lo riteneva un mero “maggiordomo”, chiamandolo “A. “. Aggiungeva anzi dì avere sospettato che il co-imputato avesse una volta sottratto suoi indumenti intimi, profittando del possesso delle chiavi di casa, a lui affidate in occasione di un suo viaggio. Il M. teneva un atteggiamento lavorativo invadente e perciò era stato più volte ripreso anche recentemente (proprio il 13 aprile per una non autorizzata anticipazione di denaro ad un fornitore) e diffidato a “non mettere più piede in ufficio”; quello, nel consegnare le chiavi dell’ufficio, aveva risposto con la frase “non uno, ma due funerali ci saranno”, sentita anche dall’amica M.A. . Aveva poi cambiato idea su quel licenziamento verbale, pensando che il M. sarebbe rimasto privo di lavoro, e perciò, quella sera, gli aveva telefonato per invitarlo ad un migliore comportamento. Si era però addormentata per l’effetto di alcool e tranquillanti assunti. Era poi stata svegliata dal M. , il quale, evidentemente entrato in casa con un doppione delle chiavi, le aveva detto di avere già ucciso il marito colpendolo con la statuetta. Aveva detto al V. ed al C. , chiamati per aiuto, di essere lei l’autrice dell’omicidio, perché così le aveva imposto il M. , sotto minaccia di uccidere il figlio A.. Per la stessa ragione aveva atteso un anno prima di chiedere di essere sentita dal PM e di dare una diversa versione dei fatti, indicando il co-imputato quale unico responsabile dell’evento.
3.1 Sulla scorta delle esposte risultanze processuali entrambi i giudici di merito hanno considerato la versione del M. attendibile, coerente e provvista di sufficienti riscontri oggettivi.
Questi era certo psicologicamente fragile ed affetto da “disturbo dipendente della personalità” (consulenza **************), ma non da “psicosi cronica delirante” (consulenze difesa), per cui non poteva dubitarsi della piena
consapevolezza delle dichiarazioni, rese, con sostanziale lucidità il (omissis) , quanto meno in ordine alla dinamica dell’omicidio.
Vero era infatti che non poteva ritenersi provata la sussistenza di una relazione sentimentale con la S. , ma appariva verosimile che come tale egli l’avesse intesa in forza di un amore, divenuto delirante al punto da fargli confondere la realtà con l’oggetto e la intensità dei suoi sentimenti.
Comunque la questione appariva irrilevante per la decisione, posto che dalle annotazioni nell’agenda acquisita (e dalle ammissioni della imputata) emergeva chiaramente un suo concreto assoggettamento ai voleri della donna amata.
Innumerevoli erano inoltre i riscontri attinenti alla commissione dell’omicidio.
Il primo andava individuato nella contemporanea presenza del M. e della S. in casa, al momento del delitto, nella accertata chiamata telefonica alle h. 23,06, nella concordata tesi difensiva predisposta nella immediatezza da entrambi e poi enunciata ai Carabinieri.
Compatibili inoltre erano le risultanze dell’autopsia (iniezioni, soffocamento tentato con oggetti morbidi rinvenuti, sfondamento del cranio) e degli immediati accertamenti di polizia (impronta papillare di M. sulla statuetta, coltello risultato estraneo alle modalità esecutive, conferma del ******** che qualcuno di notte citofonò senza risposta).
Illogica invece appariva la versione della S. .
Solo costei, infatti, poteva avere aperto la porta di casa al M. , risultando meramente astratta la ipotesi che lo stesso nei pochi giorni in cui aveva avuto affidate le chiavi di casa ne avesse (almeno segretamente) fatto la copia.
E, seppure l’imputata avesse maturato il sospetto di una non autorizzata duplicazione (e del correlativo furto), avrebbe certamente provveduto a cambiare le serrature. Era inverosimile la tesi di essersi addormentata in attesa dell’arrivo del M. , che pure lei aveva ansiosamente (senza aspettare l’indomani) convocato con una chiamata telefonica notturna e priva di idonea spiegazione era l’essere stata svegliata da quello, solo dopo il delitto, tenuto conto delle fasi sicuramente concitate della colluttazione. D’altra parte se l’imputata era sveglia, era ingiustificabile che non avesse fatto nulla per evitare l’uccisione del marito.
Ed ancora, solo lei poteva fare le iniezioni alla vittima e non il M. perché grosso era il rischio che questi si svegliasse. Del pari era comprensibile il primario intento di fare apparire conseguente ad emorragia interna delle varici esofagee del L.C. , e quindi naturale, la morte cagionata dalla iniezione di topicida.
Facile risultava poi immaginare che la tesi, fondata sulla necessitata difesa, nel precipitare degli eventi, fosse stata concordata tra i due e non imposta dal M. con la grave minaccia verso il figlio A. , perché ciò avrebbe potuto essere denunciato ai Carabinieri (cui invece era risultato intimo e confidenziale il rapporto tra i due, come riferito dal Carabiniere D.M.) immediatamente e non solo dopo un anno, posto che il co-imputato, essendo in carcere, non poteva nuocere a nessuno.
Né appariva fondato dedurre dalla frase pronunciata dal M. nel consegnare le chiavi dell’ufficio che questi si fosse determinato all’omicidio in conseguenza del licenziamento, considerato che lo stesso era pur sempre un dipendente del Comune, potendo tale circostanza, al più, aver determinato una “refluenza” sui rapporti con la donna, per cui nutriva comunque un amore profondo. Di contro appariva verosimile lo stato di prostrazione della S. per la malattia del marito, condizionante la gestione dell’azienda e la sua passione per il gioco ed era irrilevante che non c’era stata conferma sul punto dai familiari, specie ove si consideri che la teste V.G. (moglie del cugino, S.T. ) aveva ricordato le lamentele della imputata, stanca di prestare cure ed assistenza ad un marito malato ed oppressivo.
Dovendosi quindi ritenere pienamente attendibili le dichiarazioni del M. , andava affermata la responsabilità dell’imputata, apparendo indubbio che la stessa aveva partecipato materialmente e volontariamente alla uccisione del marito.
4. L’imputata, per il tramite del suo difensore, propone ricorso per cassazione, prospettando tre motivi impugnazione.
Più specificamente dei motivi prospettati in ricorso, i primi due riguardano l’affermazione di penale responsabilità dell’imputata e denunziano un vizio di motivazione (omissione e contraddittorietà).
4.1 Con il primo motivo, in particolare, la difesa dell’imputata, dopo aver evidenziato, preliminarmente, che l’affermazione di penale responsabilità della S. si fonda, essenzialmente, su due elementi: la ritenuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie del M. e, di contro, la non credibilità della tardiva proclamazione d’innocenza dell’imputata, contesta il giudizio espresso dai giudici di merito in merito all’attendibilità delle propalazioni del M. , segnalando come altrettanti profili di criticità, non adeguatamente apprezzati: (a) la pluralità di versioni rese dal M. nel processo (almeno sei), tra di loro inconciliabili e costanti unicamente nel palese sforzo profuso dal coimputato, autore materiale dell’omicidio, di alleggerire la propria responsabilità, progressivamente ridimensionandola; (b) gli accertati disturbi di personalità da cui risulta affetto il M. , le cui dichiarazioni, specie per quel che attiene l’asserita esistenza di una relazione amorosa con l’imputata, risultano chiaramente influenzate da tale patologia, e devono ritenersi il frutto di processi onirici, di vere e proprie elucubrazioni fantasiose; (c) l’assenza di effettivi riscontri obiettivi alle propalazioni accusatorie del M. , posto che nessuna indagine dattiloscopica risulta eseguita sulle siringhe fatte ritrovare dal co-imputato né sul frullatore che si assume utilizzato dall’imputata per diluire il pesticida, mentre l’unica traccia ematica rilevata sulla statuetta, risulta riferibile al solo M. , i cui vestiti per altro, nonostante l’azione di strangolamento, inspiegabilmente erano risultati solo marginalmente sporchi di sangue; (d) la dubbia plausibilità del movente fornito dagli imputati nell’immediatezza dei fatti ed ispirato dal M. (l’insofferenza della S. a sopportare ulteriormente i sacrifici a lei imposti dalla malattia del coniuge); (e) l’incongruità del giudizio negativo espresso dai giudici di merito relativamente al comportamento processuale della S. , la quale solo dopo circa un anno di detenzione, si sarebbe decisa a ritrattare le proprie iniziali ammissioni di responsabilità, non avendo le ***** di merito adeguatamente considerato che tale comportamento, più che espressione di una diretta volontà dell’imputata, era da ricollegarsi, in realtà, ad una precisa strategia difensiva suggerita alla stessa dal suo precedente patrono, che aveva ritenuto opportuno conoscere prima il risultato degli accertamenti del RIS, a ragione del principio, sempre più diffuso ed abusato, secondo cui spetta all’imputato difendersi provando e del convincimento, corroborato dalla comune esperienza, che l’interrogatorio è sempre più spesso considerato un mezzo di accusa e non di difesa; (f) l’incongruità del giudizio di inattendibilità espresso dai giudici di merito con riferimento alla dichiarazioni dell’imputata relative sia allo scopo perseguito con la telefonata notturna al M. (da ricollegarsi soltanto alla intenzione della S. di rassicurare il proprio dipendente che non avrebbe dato corso al pur già manifestato proposito di interrompere il rapporto lavorativo che lo stesso intratteneva con la impresa cooperativa, a ragione di un comportamento divenuto eccessivamente invadente ed esorbitante rispetto alle sue effettive mansioni) sia alla circostanza in fatto che, successivamente al colloquio con il M. , l’imputata si sarebbe addormentata (a seguito di assunzione di alcool e tranquillanti), venendo risvegliata dal coimputato (introdottosi nella villetta grazie ad un duplicato delle chiavi dell’ingresso che lo stesso, verosimilmente, si era procurato, abusando dei rapporti di amicizia instaurati con i coniugi L.C. – S. , come provato anche dalle dichiarazioni della domestica Ai.), solo dopo che il delitto era stato già commesso, senza alcuna sua compartecipazione, sia pure anche solo morale.
4.2 Con il secondo motivo, invece, la sentenza d’appello viene censurata per vizio di motivazione, relativamente alla ricostruzione della seconda fase della dinamica omicidiaria (il tentativo di soffocamento) evidenziandosi al riguardo l’insufficienza dell’apparato motivazionale che ha riconosciuto intrinseca attendibilità al racconto del coimputato al riguardo, specie quando ha riferito di una diretta partecipazione della S. ad un programma criminoso palesemente illogico ove non attribuibile esclusivamente ad una personalità disturbata quale quella del M. , risultando sostanzialmente inspiegabili le ragioni per cui vi sarebbe stato bisogno di tentare di sopprimere il povero L.C. con un sacchetto di plastica, dopo la somministrazione di ben tre dosi di valium ed un misto di veleno e pesticida.
4.3 Con il terzo motivo, infine, la difesa della ricorrente denuncia violazione di legge, con riferimento alla qualificazione in termini di concorso nel delitto di omicidio della condotta contestata alla S. , nella quale, a tutto concedere, sarebbero ravvisabili gli estremi del favoreggiamento personale, nel senso che l’imputata, ritenendosi comunque colpevole di aver accolto in casa il suo folle corteggiatore, in orario notturno ed in assenza del figlioletto e di non aver saputo impedire l’evento, si sarebbe prestata ad assecondare la volontà del M. , autore materiale dell’omicidio, accettando di accusare se stessa come autrice dell’omicidio, sia pure a titolo di legittima difesa.
4.4 Con memoria difensiva predisposta in data 8.4.2012, con allegati, venivano ribaditi temi e richieste proposti con il ricorso principale.

Considerato in diritto

1. L’impugnazione proposta nell’interesse di S.E. è basata su motivi privi di fondamento, in quanto la struttura logica e giuridica della motivazione della sentenza impugnata è immune dai vizi prospettati dalla ricorrente.
1.1 Premesso che la pronuncia di condanna poggia – oltre che sulle dichiarazioni auto ed etero accusatorie del co-imputato M. , sulla cui valutazione si incentrano gran parte dei rilievi critici formulati dalla difesa dell’imputata – anche sulla (parziale) ammissione dell’imputata di avere lei colpito a morte il marito e sulla ritenuta inattendibilità della successiva ritrattazione, deve segnalarsi la piena correttezza del metodo valutativo adottato dai giudici di merito, i quali hanno vagliato la veridicità della “confessione” della ricorrente – e di quella del suo complice M. – a conclusione di una completa e coerente analisi critica di tutte le risultanze probatorie disponibili.
È opportuno, anzitutto, richiamare le posizioni della giurisprudenza di legittimità a proposito del valore della “confessione ritrattata”, rilevando che questa Corte ha stabilito che la confessione può essere posta a base del giudizio di colpevolezza dell’imputato nelle ipotesi nelle quali il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l’attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di intendimento autocalunniatorio o di intervenuta costrizione sul soggetto: di talché, quando tale indagine, ovviamente estesa al controllo su tutte le emergenze processuali, nel caso di intervenuta ritrattazione, non conduca a smentire le originarie
ammissioni di colpevolezza, dovrà allora innegabilmente riconoscersi alla confessione il valore probatorio idoneo alla formazione del convincimento della responsabilità dell’imputato, anche se costui, dopo aver reso confessione del delitto di omicidio alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero ed al giudice per le indagini preliminari, abbia ritrattato in dibattimento le precedenti dichiarazioni confessorie (Cass., Sez. 1, 17 febbraio 1992, Matha, rv. 189915; Sez. 1, 15 gennaio 1990, ******, rv. 183395).
Una volta adottato tale metodo di indagine, la Corte territoriale ha rilevato che mentre le dichiarazioni del M. di aver concorso nell’omicidio con la S. , seppure oggetto di successive integrazioni e variazioni, dovevano ritenersi, ciò non di meno, valutate anche le condizioni psichiche del dichiarante, pienamente attendibili relativamente al loro “nucleo essenziale” (la responsabilità di entrambi nel determinare la morte del L.C. ) presentando le stesse una “sostanziale coerenza e lucidità”, le iniziali affermazioni della S. , di contro, secondo cui ella avrebbe sì colpito il marito, con un oggetto contundente, ma solo per difendersi, avendola costui minacciato con un coltello, apparivano, sotto tale ultimo profilo, inverosimili ed in contrasto con tutte le emergenze istruttorie. In altri termini la stessa Corte ha posto in risalto che se la confessione del M. era stata specifica, coerente e dettagliata, cosi come le prime sia pur parziali ammissioni della S. , la successiva ritrattazione della ricorrente, invece, era avvenuta soltanto nell’interrogatorio del 30.5.2005, a quasi un anno di distanza dall’omicidio, in coincidenza con una modifica di linea difensiva, senza fornire alcuna convincente spiegazione delle ragioni della autoincolpazione. Nella sentenza impugnata la veridicità delle ammissioni di responsabilità e l’inaffidabilità della ritrattazione della ricorrente sono state quindi affermate a conclusione di un rigoroso vaglio condotto alla stregua del complessivo materiale indiziario raccolto, specie quello relativo all’accertamento delle cause della morte della vittima, nonché del movente, che i giudici di merito hanno identificato nella crescente insofferenza della ricorrente al vincolo matrimoniale. L’articolazione della motivazione della sentenza risulta puntuale, organica, coerente e perfettamente aderente al quadro probatorio ricavato dalle dichiarazioni dei testi, che hanno sostanzialmente confermato il contenuto delle iniziali ammissioni della S. e della confessione del M. nei punti relativi alla dinamica dell’omicidio: peraltro, se è vero che relativamente alla “seconda fase della dinamica omicidiaria”, quella cioè relativa al tentativo di soffocamento, non vi è stata una esaustiva spiegazione, è anche vero che la Corte di secondo grado ha dato una giustificazione logicamente ineccepibile in proposito, evidenziando come doveva ritenersi ben possibile il ricorso a tale mezzo per provocare la morte, in quanto lo stesso, se produttivo di risultato, non avrebbe lasciato segni visibili e, perciò, sarebbe stato compatibile con l’originario intento di far apparire la morte, avvenuta per cause naturali.
Ciò posto, le censure formulate dalla ricorrente non riescono a scalfire la congruenza logica e giuridica del discorso giustificativo che sorregge il convincimento concordemente espresso dai giudici di merito relativamente alla veridicità delle ammissioni del M. e della S. , e di riflesso, alla inattendibilità della ritrattazione della ricorrente, tanto più che essere si risolvono in gran parte in una interpretazione alternativa degli elementi probatori che oltrepassa i limiti del sindacato logico della motivazione.
Non è producente neppure il riferimento contenuto nel ricorso e nella memoria al contenuto dei verbali di interrogatorio e di esame dei testi, sotto il profilo della contraddittorietà della motivazione ai sensi della legge n. 46 del 2006, art. 8.
In argomento è stato precisato che l’innovazione normativa introdotta dalla legge n. 46 del 2006, art. 8 non autorizza a dedurre come motivo il “travisamento del fatto”, giacché è preclusa la possibilità per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito; mentre consente di dedurre il “travisamento della prova”, che ricorre nei casi in cui si sostiene che il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su di una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale: con la precisazione che, in quest’ultimo caso, la Corte di Cassazione non è chiamata a reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma a verificare se questi elementi esistano (Cass., Sez. 6, 15 marzo 2006, ******; Sez. 4, 17 maggio 2006, *********), nel senso che deve essere accertata l’inconciliabilità con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente, che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Cass., Sez. 6, 26 settembre, 2006, *********).
Individuato, in tali termini, l’ambito della categoria del vizio della motivazione qualificabile come contraddittorietà ex legge n. 46 del 2006, art. 8, appare evidente che i motivi proposti nel ricorso della S. non riescono a pregiudicare la compattezza logica dei risultati dell’indagine che rappresentano la base giustificativa del convincimento dei giudici di merito, in quanto gli atti processuali richiamati attengono ad elementi di prova esaminati nella sentenza impugnata e fatti oggetto di valutazione critica sorretta da un apparato argomentativo del tutto esauriente e corretto nell’impostazione e nello sviluppo logico, onde il discorso giustificativo della decisione resta immune dai vizi denunciati e non palesa alcuna contraddittorietà interna ed esterna in ordine alla gravità e concordanza degli elementi di prova a carico della ricorrente, nonostante la ritrattazione.
1.2 È infondato anche il terzo motivo di ricorso che propone una diversa qualificazione (favoreggiamento) del fatto contestato alla ricorrente, muovendo esso dal presupposto – da ritenersi privo di fondamento, per tutte le considerazioni sin qui esposte – che la S. non abbia concorso nella commissione dell’omicidio.
2. In conclusione, poiché risulta infondato in tutte le sue articolazioni, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile, liquida in Euro 4000,00 (quattromila), oltre accessori come per legge.

Redazione