Garze dimenticate nell’addome del paziente: rischiano tutti i sanitari intervenuti durante l’operazione (Cass. pen. n. 43459/2012)

Redazione 08/11/12
Scarica PDF Stampa

Ritenuto in fatto

1. ****, P.R. e ****** – medici chirurghi – venivano tratti a giudizio (unitamente a due infermieri) per rispondere del reato di cui agli artt. 113 e 590, co. 2, in relazione all’art. 583 co. 1, n. 1, C.P., perché nella qualità di medici chirurghi, sottoponendo C.G. ad intervento chirurgico di aneurismectomia più innesto di by-pass aorto-bisiliaco in data …, per negligenza, imprudenza e imperizia, consistita nel dimenticare di rimuovere dalla cavità addominale una “lunghetta” di garza di cm. 40, avevano cagionato al C. lesioni personali gravi consistite, oltre che nella necessità di ricorrere ad altro intervento chirurgico per la rimozione della predetta garza, nell’insorgere di turbe della canalizzazione e assorbimento intestinale con dolore e dimagrimento; lesioni protrattesi per un periodo superiore ai quaranta giorni (tra il (omissis) ).

All’esito del giudizio, il Tribunale di Palermo, in data 07.01.08, sulla scorta delle acquisite risultanze probatorie – con particolare riferimento ai testi escussi ed alla perizia espletata – assolveva gli infermieri e condannava i tre medici, previa concessione delle attenuanti generiche, valutate come equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di un mese di reclusione, che sostituiva con la pena pecuniaria di 1.200,00 Euro ciascuno (pena condonata); l’A. , il P. e l’Am. venivano altresì condannati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede, con una provvisionale di Euro 10.000,00, per ognuna delle parti civili, immediatamente esecutiva (per un totale di Euro 30.000,00).

2. A seguito di gravame ritualmente proposto dagli imputati condannati, la Corte d’appello di Palermo confermava l’impugnata sentenza, motivando il proprio convincimento, per la parte che in questa sede rileva, con argomentazioni che possono così riassumersi: a) risultava rispettato il termine per la proposizione della querela dovendo individuarsi quale “dies a quo” – in tema di lesioni colpose cagionate da colpa professionale medica – non il momento in cui la persona offesa abbia consapevolezza della patologia insorta, bensì quello in cui la stessa parte offesa sia venuta conoscenza della possibilità che sulla patologia medesima abbiano potuto influire errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l’hanno curata; nella concreta fattispecie siffatta consapevolezza era stata acquisita dal C. solo quando questi era venuto a conoscenza che nella parte finale del suo intestino era stata rinvenuta una “lunghetta” di garza di 40 cm., ed in particolare dopo che, estratto il corpo estraneo, era cessata la sintomatologia caratterizzata da nausea, vomito e diarrea: donde la tempestività della querela presentata in data 20 gennaio 2003, a nulla rilevando che l’intervento dell’equipe del prof. A. era stato eseguito il (omissis) ; b) non poteva trovare accoglimento la richiesta di riapertura dell’istruzione, formulata nell’interesse dell’imputato A. , posto che il sollecitato incombente – finalizzato a dimostrare l’allontanamento del prof. A. dalla sala operatoria dove era in atto l’intervento sulla persona del C. – riguardava questione che aveva già formato oggetto di specifica indagine da parte del primo giudice nel corso dell’esame del ******** , ed avuto altresì riguardo alla posizione di garanzia assunta dal prof. A. nei confronti del paziente, non solo in base ai principi generali relativi al rapporto che si instaura tra medico e paziente, ma anche perché il C. gli aveva conferito espresso e specifico incarico di intervenire egli stesso ratione fiduciae; b) quanto alla sussistenza del fatto, tenuto conto del dato certo costituito dal rinvenimento della “lunghetta” di garza di 40 cm. nella cavità addominale del paziente, non apparivano credibili le ipotesi alternative prospettate con l’appello circa l’individuazione della causa che aveva provocato le lesioni al C. – vale a dire l’utilizzo e la dimenticanza della garza nel corso di indagine strumentale finalizzata ad un prelievo bioptico, e quindi in un’occasione diversa dall’intervento eseguito dagli imputati – anche alla luce delle deposizioni del teste D’.Sa. (già primario di medicina interna all’Ospedale di …) e del consulente di parte civile *******..M., nonché in base alle linee-guida; un eventuale sanguinamento eccessivo, per di più in un paziente affetto da “diverticolite”, non può che essere affrontato mediante terapia chirurgica, ovvero anche mediante una termocoagulazione in loco, ove il problema sorga in sede di un prelievo bioptico: qualora si è in presenza di un sanguinamento che possa fare temere perfino una “anemizzazione”, l’approccio terapeutico elettivo non può essere quello di introdurre delle garze, allo scopo di arrestare l’emorragia, soprattutto “a livello di diverticolo”; c) peraltro, l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa (circa un sanguinamento cagionato da una qualche “endoscopia” pregressa) era rimasta soltanto enunciata, in quanto non sostenuta da alcun elemento rappresentativo che potesse suffragarla; doveva inoltre aggiungersi che il dottor M. aveva chiarito che il fenomeno di incistamento di un corpo estraneo nelle anse intestinali e la relativa reazione flogistica che si produce (in quanto esso tende a essere “inglobato”) può durare molto tempo (da sei mesi a venti anni, come si attesta in letteratura), per cui non appariva disfunzionale al quadro clinico e sintomatologico che dalla fine del … (data dell’intervento) il paziente aveva cominciato ad avvertire i dolori addominali tra la seconda metà del … e l’inizio del …, alternando anche brevi periodi di relativo benessere; d) nemmeno dirimente appariva l’ulteriore argomento tecnico prospettato dalla difesa appellante, secondo cui, mentre il “campo operatorio” impegnato era stato l’addome, la “lunghetta” di garza era stata trovata nel lume intestinale: ed invero, il ********, e concordemente anche la Dott.ssa Nu..Al. – la quale aveva spiegato il fenomeno usando l’espressione “migrazione del corpo estraneo all’interno del lume” – avevano chiarito che, una volta che il corpo estraneo aderisce alla parte intestinale, lo stesso intestino cerca di espellerlo, lentamente, attraverso il canale intestinale; e) nella concreta fattispecie, in base ai principi generali enunciati in materia nella giurisprudenza di legittimità, l’evento lesivo risultava riconducibile a tutti e tre gli imputati posto che nel caso di intervento di équipe chirurgica ogni sanitario è tenuto a osservare, oltre che il rispetto delle regole di diligenza e prudenza connesse alle specifiche e settoriali mansioni svolte, anche gli obblighi a ciascuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso un fine comune: ciascun sanitario, quindi, non può esimersi dal conoscere e valutare (nei limiti e termini da lui esigibili) l’attività precedente e contestuale di altro collega e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui; il “capo dell’equipe” che ha effettuato l’intervento chirurgico risponderà dell’evento colposo prodottosi, in quanto, chi guida l’equipe chirurgica, è titolare di una posizione di garanzia verso il paziente che non si esaurisce con l’uscita dalla sala operatoria: perfino il medico chiamato solo per “un consulto” ha gli stessi doveri professionali del medico che ha in carico il paziente presso un determinato reparto e non può esimersi da responsabilità adducendo il fatto di essere stato chiamato per una specifica situazione: in particolare, e con riferimento al caso in esame – proprio in virtù di tali principi – tutti i soggetti intervenuti all’atto operatorio devono poi partecipare ai controlli volti a fronteggiare il frequente e grave rischio di lasciare nel corpo del paziente oggetti estranei, e non è consentita la delega delle proprie incombenze agli altri componenti, poiché ciò vulnererebbe il carattere plurale, integrato, del controllo, che ne accresce l’affidabilità (risulta evocato al riguardo un precedente della giurisprudenza di questa Corte: sez. IV, 18/06/2009, n. 36580).

3. Ricorrono per cassazione l’Am., l’A. ed il P., articolando motivi di censura che possono sintetizzarsi come segue: AM. : due atti di impugnazione, uno a firma dell’avv. R., l’altro a firma dell’avv. Di ******** – A) Censure comuni ai due atti, sia pure con diverse formulazioni argomentative: sarebbe stato erroneamente spostato il termine di decorrenza per la proposizione della querela a “dopo che, estratto il corpo estraneo, è cessata la sintomatologia”, e cioè a guarigione avvenuta nonostante la sintomatologia fosse comparsa già nell’anno …; omessa motivazione in ordine alla deduzione difensiva sottoposta al vaglio della Corte distrettuale con i motivi di appello, secondo cui nella Casa di cura (omissis) , dove il C. era stato sottoposto all’intervento chirurgico effettuato dagli imputati, non erano state mai utilizzate garze del tipo di quella estratta dall’addome del C., come precisato dal ********, e confermato dai coimputati poi assolti in primo grado (cioè gli infermieri che facevano parte dell’equipe operatoria) nonché dal teste Ca.Vi. (all’epoca dei fatti capo-sala presso la stessa Casa di Cura); sarebbe stato illogicamente ed immotivatamente sottovalutato il lungo periodo di benessere, sottolineato dal consulente del P.M., di cui aveva goduto il C. dal momento dell’intervento chirurgico fino agli ultimi giorni di agosto del 2002; nemmeno detto consulente era riuscito a spiegarsi tale anomalia, mentre il prof. Pr. aveva ritenuto inverosimile che una garza dimenticata nell’addome non avesse provocato per ben due anni nessuna reazione peritoneale o, comunque, un’infezione rilevabile da un aumento dei globuli bianchi il cui valore era risultato invece nella norma; il prof. Co. aveva poi definito rara la trasmigrazione all’interno dell’intestino di un corpo estraneo, evidenziando che la garza era stata rinvenuta nel corso di una colonscopia effettuata al C.; tutte siffatte considerazioni avrebbero dovuto indurre i giudici del merito a ritenere ben verosimile che la garza rinvenuta nell’intestino del C. non fosse stata dimenticata nell’addome del C. stesso in occasione dell’intervento eseguito dagli imputati, bensì introdotta per via rettale in un periodo di molto successivo per tamponare un sanguinamento: il che spiegherebbe anche l’assenza di qualsiasi sintomatologia e la facilità dell’estrazione della garza; lo stesso consulente di parte civile aveva riferito della possibilità dell’utilizzo come tampone delle “lunghette” in occasione di un esame colonscopico, sia per detergere la mucosa nel punto dove effettuare il prelievo per l’esame bioptico, sia dopo l’effettuazione del prelievo al fine di asciugare e verificare un eventuale sanguinamento in atto; la Corte distrettuale, dunque, sarebbe venuta meno all’obbligo di spiegare razionalmente la valutazione dell’acquisito compendio probatorio; Avv. R. – parimenti sarebbero incorsi in errore i giudici del merito, nella individuazione delle condotte colpose nel caso di intervento chirurgico eseguito da un’equipe operatoria, laddove hanno trascurato il ruolo ed i compiti di rilievo attribuiti dalla legge anche al personale infermieristico che dall’equipe fa parte, e non hanno considerato che il ********. , avendo il compito di aprire il campo operatorio sul quale operavano altri sanitari per poi ritornare sul campo per richiuderlo, non poteva avere contezza dell’eventuale dimenticanza da parte di altro sanitario del corpo estraneo nella cavità addominale del C.; Avv. D.G. – nullità della sentenza di primo grado per essere state assunte le prove da un Magistrato diverso da quello che ha poi pronunciato la sentenza; prescrizione del reato maturata già prima della sentenza di appello;

A. : vizio di motivazione e mancata rinnovazione dell’istruttoria in ordine alla circostanza evidenziata dalla difesa circa l’allontanamento del ******** dalla sala operatoria – dove era in atto l’intervento chirurgico sul C. – essendo stato sollecitato in via di urgenza a recarsi in altra sala operatoria per un’emergenza relativa ad altra paziente, poi deceduta, e quindi assente giustificato nel momento finale dell’intervento sul C. allorquando furono espletati adempimenti di massima semplicità ivi compresa la conta delle garze e dei ferri da rimuovere o già rimossi: la Corte si è limitata a confermare quanto osservato in proposito dal primo giudice sulla base della sola cartella clinica relativa al C. , ed ha omesso di vagliare la cartella clinica concernente detta paziente, e prodotta dalla difesa con l’appello in quanto ottenuta solo dopo il giudizio di primo grado, ed ha omesso di disporre l’esame dei testi, indicati dalla difesa unitamente alla richiesta di rinnovazione del dibattimento, i quali avrebbero potuto confermare la circostanza; con riferimento all’assunzione della posizione di garanzia – ed a quanto osservato al riguardo dai giudici di seconda istanza – non rileverebbe la richiesta del paziente di essere operato personalmente dal ******** posto che l’intervento sul C. fu eseguito presso la Casa di Cura (omissis) in regime di convenzionamento diretto e quindi senza alcun obbligo di esclusività da parte del chirurgo della sua opera professionale pur a fronte di richiesta del paziente in tal senso; anche l’A., al pari dell’Am., denuncia vizio di motivazione laddove la Corte territoriale, con riferimento all’attività chirurgica svolta in equipe, ha trascurato il ruolo ed i compiti di rilievo attribuiti dalla legge anche al personale infermieristico che dell’equipe fa parte; peraltro la conta di garze e ferri rientra nei compiti del ferrista e dell’infermiere c.d. “circolante” i quali – ragionando “a contrario” – non risponderebbero mai di quanto commesso nell’ambito della loro funzione assistenziale: a ciò dovendo aggiungersi che all’operatore sarebbe demandato il compito di un controllo limitato elusivamente al campo operatorio;

P. : con il ricorso viene sostenuta la tesi, prospettata anche dall’Am. , secondo cui nella Casa di Cura (omissis) non sarebbero state mai utilizzate garze del tipo di quella estratta dall’intestino del C., ed al ricorso risultano allegate le trascrizioni delle dichiarazioni di riferimento; si denuncia poi vizio motivazionale in ordine alla deduzione difensiva – ancorata alle perplessità palesate al riguardo dagli stessi consulenti del P.M., dottori Z. e Co., nonché supportata da quanto riferito dal teste Dott. D’. – secondo cui sembrerebbe inverosimile che il C., dopo l’intervento del (omissis) , non fosse stato sottoposto mai ad alcun accertamento diagnostico strumentale, fino alla rimozione della garza, nonostante l’insorgenza dei dolori: perplessità da ritenersi fondate, essendo emerso che si trattava di paziente affetto da diverticolite – i cui sintomi sono proprio quelli che avvertiva il C., e cioè vomito, diarrea e dimagrimento – ed anche alla luce di quanto dichiarato dal teste Dott. D’. il quale aveva precisato che, dopo l’intervento del (omissis) cui era stato sottoposto il C., aveva incontrato più volte quest’ultimo presso l’Ospedale di … e, alla domanda circa il motivo della presenza in ospedale, il C. aveva riferito che doveva sottoporsi ad esami (cfr. pag. 4 del ricorso): donde la deduzione che, in termini di altissima probabilità, il C., tra l’intervento del (omissis) e la rimozione della garza avvenuta il (omissis) , fosse stato sottoposto ad accertamenti endoscopici in occasione dei quali potrebbe essere stata utilizzata e lasciata la garza poi rimossa il (omissis) , tenuto altresì conto di quanto precisato non solo dal prof Pr., consulente del’imputato A., ma dallo stesso consulente della parte civile ******** circa la possibilità dell’uso di “lunghette” di garza, come tamponi, in occasione di un esame colonscopico (cfr. pag. 8 del ricorso); conclusivamente, l’acquisito compendio probatorio non consentirebbe di poter affermare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che la “lunghetta” di garza estratta dall’intestino del C. fosse stata lasciata nell’addome del C. stesso in occasione dell’intervento chirurgico del (omissis) e dovesse quindi individuarsi quale causa dei disturbi lamentati dal C. .

È stata depositata memoria difensiva nell’interesse delle parti civili con argomentazioni finalizzate a valorizzare le considerazioni svolte dai giudici di merito, per contrastare quanto dedotto con i ricorsi.

 

Considerato in diritto

 

È infondata la doglianza relativa alla tempestività della querela, dovendo pienamente condividersi le considerazioni svolte dalla Corte territoriale in proposito (sopra riportate nella parte narrativa e da intendersi qui richiamate onde evitare superflue ripetizioni), perché ancorate ai dati fattuali e cronologici acquisiti agli atti ed in sintonia con l’indirizzo interpretativo affermatosi nella giurisprudenza di legittimità in materia (cfr, ex plurimis”, Sez. 4, n. 17592 del 07/04/2010 Ud. – dep. 07/05/2010 – Rv. 247096, secondo cui “il termine per proporre la querela per il reato di lesioni colpose determinate da colpa medica inizia a decorrere non già dal momento in cui la persona offesa ha avuto consapevolezza della patologia contratta, bensì da quello, eventualmente successivo, in cui la stessa è venuta a conoscenza della possibilità che sulla menzionata patologia abbiano influito errori diagnostici o terapeutici dei sanitari che l’hanno curata”).

Ciò posto, ritiene il Collegio che – tenuto conto della data di consumazione del reato (24 gennaio 2002), del titolo del reato medesimo (590 cod. pen., lesioni personali colpose) e della pena edittale per lo stesso prevista – occorre verificare se, alla data della odierna udienza, sia interamente decorso il termine massimo di prescrizione; causa estintiva che al momento della pronuncia della sentenza della Corte d’Appello (18 giugno 2010) certamente non si era verificata, avuto riguardo al “tempus commissi delicti” ed al termine di prescrizione di sette anni e sei mesi previsto per il reato contestato agli imputati, tenuto conto dei periodi di sospensione del decorso del termine di prescrizione durante il giudizio di appello, per rinvii dal 30 marzo 2009 al 6 luglio 2009 e dall’11 gennaio 2010 al 18 giugno 2010, determinati per l’adesione degli avvocati all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria: con conseguente manifesta infondatezza della censura sul punto dedotta con l’atto di impugnazione dell’avv. D.G. per il ricorrente Am. .

Tanto premesso, va rilevata l’intervenuta prescrizione, avuto riguardo al “tempus commissi delicti” – 24 gennaio 2002 come sopra indicato – ed al termine massimo di prescrizione pari ad anni 7 e mesi 6, ed in applicazione dell’art. 157 c.p. nella formulazione sia antecedente che successiva alla legge n. 251 del 2005 (c.d. legge “ex Cirielli”): detta causa estintiva del reato deve invero ritenersi verificata alla data odierna, all’esito del controllo degli atti, in relazione al principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza [imp. *********] del 28 novembre 2001, depositata l’11 gennaio 2002 (con riferimento ai periodi di sospensione del decorso del termine di prescrizione in conseguenza di impedimento dell’imputato o del suo difensore). Ciò posto, occorre adesso verificare se i ricorsi presentino profili di inammissibilità per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basati su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l’intervenuta prescrizione (posto che si tratterebbe di causa originaria di inammissibilità).

Orbene, i ricorsi non presentano alcuna delle cennate connotazioni di inammissibilità, tenuto conto delle questioni prospettate dai ricorrenti, della complessa dinamica della vicenda e delle argomentazioni svolte in ordine al denunciato vizio di motivazione relativamente alla ritenuta condotta colposa contestata agli imputati. Per quel che concerne l’applicabilità dell’art. 129, secondo comma, del codice di rito, va ricordato che, in forza dei consolidati principi di diritto enunciati da questa Corte, il sindacato di legittimità, appunto ai fini della eventuale applicazione della disposizione appena citata, deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime vantazioni posti a fondamento della sentenza impugnata, senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, ed in presenza di gravame che non risulti affetto da inammissibilità originaria (che non consentirebbe di rilevare la causa estintiva del reato, secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte in materia), deve essere dichiarata l’estinzione del reato, non potendo attribuirsi rilievo neppure ad eventuali cause di nullità (cfr., “ex plurimis”, Sez. Unite, **********): a tale ultimo riguardo, mette conto sottolineare, per mera completezza di esposizione, che la denuncia, assertivamente enunciata (atto di impugnazione avv. D.G. ), di nullità della sentenza di primo grado per essere state assunte le prove da un Magistrato diverso da quello che ha poi pronunciato la sentenza, pur non rilevando – per quanto appena detto -in presenza della prescrizione, risulta tuttavia inammissibile perché assolutamente assertiva e genericamente formulata.

Nel caso in esame non sussistono le condizioni per una pronuncia assolutoria, ai sensi del secondo comma dell’art. 129 c.p.p., atteso che nelle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale nella sentenza impugnata – già innanzi ricordate (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamate – non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei ad integrare la prova evidente dell’innocenza degli imputati.

Esclusa dunque l’applicabilità dell’art. 129 del codice di rito – ed essendo stata confermata nei confronti degli imputati, con la sentenza oggetto dei ricorsi, la condanna al risarcimento dei danni cagionati dal reato, già pronunciata dal primo giudice – la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione comporta la necessità di esaminare le doglianze dei ricorrenti ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (art. 578 c.p.p.).

La Corte d’Appello ha ritenuto sussistente la responsabilità degli imputati, muovendo dal presupposto che la “lunghetta” di garza di 40 cm. estratta dall’intestino del C. fosse stata dimenticata nell’addome di quest’ultimo in occasione dell’intervento chirurgico eseguito dagli imputati, e ritenendo riconducibili a tale condotta i disturbi poi accusati nel tempo dal C. : la Corte ha posto a fondamento del suo convincimento le indicazioni fornite da perito e consulenti, con particolare riferimento alla ritenuta possibilità del passaggio di quella garza dall’addome al lume intestinale dove era stata poi rinvenuta. Orbene, risultano fondate le doglianze di vizio di motivazione dei ricorrenti.

Per un corretto inquadramento della problematica relativa all’accertamento di profili di colpa nell’esercizio della professione sanitaria, con particolare riferimento all’individuazione del nesso di causalità tra condotta ed evento, appare indispensabile soffermarsi preliminarmente sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia, con specifico riferimento alla condotta omissiva (contestata agli imputati nel caso in esame sotto il profilo della omessa rimozione dall’addome del paziente di un garza utilizzata in occasione di intervento chirurgico).

In epoca meno recente è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza del rapporto causale, “quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo…. sono sufficienti” (Sez. 4, n. 4320/83); in altra occasione si è specificato che, pur nel contesto di una “probabilità anche limitata”, deve trattarsi di “serie ed apprezzabili possibilità di successo” (considerandosi rilevante, alla stregua di tale parametro, una possibilità di successo del 30 %: Sez. 4, n. 371/92); altra volta, ancora, non aveva mancato la Suprema Corte di affermare che “in tema di responsabilità per colpa professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta…, è necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta…almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza” (Sez. 4, n. 10437/93). In tempi meno remoti la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha costantemente posto l’accento sulle “serie e rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo”, sull’”alto grado di possibilità”, ed espressioni simili (così, Sez. 4, n. 1126/2000: nella circostanza è stata apprezzata, a tali fini, una percentuale del 75 % di probabilità di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e cure tempestive).

Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, *****, e Sez. 4, 29 novembre 2000, **********) ha poi sostanzialmente rivisto “ex novo” la tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che “il problema del significato da attribuire alla espressione con alto grado di probabilità….non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto”; ed è stato quindi affermato che “per la scienza” non v’è alcun dubbio che dire “alto grado di probabilità”, “coltissima percentuale”, “numero sufficientemente alto di casi”, voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che “enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento”…., questa in sostanza realizzando quella “probabilità vicina alla certezza”. Successivamente (Sez. 4, 23/1/2002, dep. 10/6/2002, Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza. È stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni, che hanno dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente, sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza”, e cioè in una percentuale di casi “quasi prossima a cento”; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’impedimento dell’evento.

Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza n. 30328 del 10/07/2002 (imp. ********), con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”; 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza ********, induce tuttavia a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale “condicio sine qua non” di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sé altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla “certezza processuale” che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: “certezza” che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio” (vale a dire, con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare “giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica”.

Ciò detto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’”iter” argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza – posto a fondamento del convincimento della responsabilità degli odierni ricorrenti – sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle Sezioni Unite.

La risposta è negativa.

Il primo punto fermo che le Sezioni Unite hanno inteso ribadire – che peraltro ha rappresentato sempre, a prescindere dall’indirizzo interpretativo di volta in volta seguito, il necessario presupposto fattuale di partenza, ai fini dell’accertamento della penale responsabilità del medico per colpa omissiva – è che, nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Orbene, la motivazione fornita dalla Corte d’Appello di Palermo con la sentenza impugnata – all’esame retrospettivo demandato a questa Corte circa la logicità e razionalità delle argomentazioni giustificative addotte dai giudici di seconda istanza a fondamento della propria statuizione – si presenta frammentaria e contraddittoria, dunque censurabile sotto il profilo del denunciato vizio motivazionale, a fronte delle articolate argomentazioni svolte con i motivi di appello, non solo in punto di nesso di causalità, ma, prima ancora, in ordine alla ritenuta riconducibilità della “lunghetta” di garza, rinvenuta nell’intestino del C. , ad una condotta colposa degli imputati: è, invero, principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui deve ritenersi viziata per carenza di motivazione la sentenza di appello confermativa della decisione di primo grado se omette di dar conto degli specifici motivi di impugnazione che abbiano censurato in modo puntuale le soluzioni adottate dal giudice di primo grado, e senza argomentare sull’inconsistenza o sulla non pertinenza di detti motivi (cfr. sul punto, “ex plurimis”, Sez. 6, n. 6221 del 20/04/2005 Ud. – dep. 16/02/2006 – imp. ******* ed altri).

Innanzi tutto, non risulta ben definito e chiarito, in tutti i suoi aspetti – anche sotto il profilo della rilevanza dell’incidenza causale sul decesso – il quadro probatorio complessivo circa l’effettivo uso della “lunghetta” di garza in questione in occasione dell’intervento chirurgico eseguito dagli imputati sulla persona del C. . La Corte d’Appello ha invero del tutto omesso di prendere in considerazione e valutare con doveroso approfondimento le specifiche ed articolate doglianze degli appellanti i quali, con riferimento a deposizioni testimoniali specificamente indicate, avevano sostenuto che “lunghette” di garza di 40 cm. non erano state mai adoperate nella struttura sanitaria nella quale era stato sottoposto ad intervento chirurgico il C. . La Corte territoriale inoltre: a) non ha approfondito il tema delle specifiche patologie da cui era affetto il C. e della conseguente eventualità che la “lunghetta” di garza rinvenuta nell’intestino dello stesso potesse essere stata lasciata “in loco” in occasione di accertamenti strumentali (endoscopia) ben ipotizzagli proprio in relazione alla diverticolite di cui soffriva il C. ; in particolare, non sono stati indicati elementi concreti e dati fattuali per escludere – in termini di certezza processuale e di elevata credibilità razionale sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – che il C. , nonostante la specifica patologia da cui era affetto (la diverticolite) e la natura dei disturbi accusati, potesse essere stato eventualmente sottoposto, nell’arco di tempo intercorso tra l’intervento effettuato dagli odierni ricorrenti ed il momento in cui fu rimossa la “lunghetta” di garza dall’intestino del C. , ad esami strumentali (in particolare, la colonscopia) in occasione dei quali poteva essere stata lasciata la garza, poi rinvenuta e rimossa il 24 ottobre 2002; circostanza a maggior ragione rilevante a fronte delle specifiche deduzioni difensive, formulate con l’appello, circa la possibilità di uso di “lunghette” di garza di 40 cm. anche in occasione di accertamenti di tale natura: in proposito la Corte territoriale si è limitata a formulazioni probabilistiche circa la tecnica da adottare in presenza di eventuali sanguinamenti in occasione di accertamenti strumentali, disattendendo le prospettazioni degli imputati muovendo dal rilievo che si sarebbe trattato di ipotesi solo enunciata, cosi omettendo di vagliare compiutamente quanto al riguardo specificamente dedotto con l’appello; b) in punto di nesso di causalità, non ha sgombrato il campo da ombre ed incertezze in modo da poter affermare in termini di alto o elevato grado di credibilità razionale ed “oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533 cod. proc. pen.) che i disturbi avvertiti nel tempo dal C. fossero effettivamente ricollegabili a quella “lunghetta” di garza e non alla patologia di cui il paziente soffriva, pur dando atto nella stessa sentenza che il C. in quell’arco di tempo aveva goduto anche di periodi di benessere (nel ricorso proposto nell’interesse dell’imputato Am. si sottolinea che detta circostanza aveva indotto il consulente del P.M. a parlare in proposito di “anomalia”); e) in relazione alla specifica posizione dell’A. , non ha preso in esame la cartella clinica della paziente presso la quale l’A. si era dovuto portare per un’emergenza: cartella clinica non esaminata dal primo giudice in quanto prodotta in appello.

Le doglianze dedotte con i motivi di appello, per la loro potenziale capacità dimostrativa della insussistenza (prospettata dagli appellanti) delle contestazioni formulate nei confronti degli odierni ricorrenti, avrebbero dunque certamente meritato una puntuale ed approfondita disamina da parte del giudice di appello.

Nella specie, pertanto, sussiste il denunciato vizio di mancanza di motivazione. Tale vizio, infatti, ricorre non soltanto quando vi sia un difetto grafico della motivazione, ma anche quando le argomentazioni addotte dal giudice a dimostrazione della fondatezza del suo convincimento siano prive di completezza in relazione a specifiche doglianze formulate dall’interessato con i motivi di appello e dotate del requisito della decisività; né può ritenersi precluso al giudice di legittimità, ai sensi della disposizione suddetta, l’esame dei motivi di appello, al fine di accertare la congruità e la completezza dell’apparato argomentativo adottato dal giudice di secondo grado con riferimento alle doglianze mosse alla decisione impugnata, rientrando nei compiti attribuiti dalla legge alla Corte di Cassazione la disamina della specificità o meno delle censure formulate con fatto di appello quale necessario presupposto dell’ammissibilità del ricorso proposto davanti alla stessa Corte (Cass. Sez. 2, 21.12.1994/2.5.1995 n. 4830).

La fondatezza delle censure formulate con i ricorsi certamente rileva, dunque, ai fini civili.

Conclusivamente, alla luce di tutte le suesposte argomentazioni e considerazioni, l’impugnata sentenza deve essere annullata senza rinvio, agli effetti penali, perché estinto il reato ascritto per intervenuta prescrizione, e deve essere altresì annullata, ai fini civili, con rinvio, ai sensi dell’art. 622 del codice di rito, al giudice civile competente per valore in grado di appello al quale va demandato anche il regolamento delle spese tra le parti del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il estinto il reato per prescrizione. Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui demanda anche la regolamentazione delle spese fra le parti per questo giudizio.

Redazione