Fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti (Cass. n. 23078/2012)

Redazione 14/12/12
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Fatto

1. Con sentenza n. 48/4/07, depositata l’8.5.07, la Commissione Tributaria Regionale delle Marche rigettava l’appello principale dell’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Ancona, nonchè l’appello incidentale della 3 EFFE s.r.l., proposti avverso la decisione di prime cure, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla contribuente nei confronti degli avvisi di accertamento ai fini IVA, IRPEG ed IRAP, per l’anno 1998.
2. Il giudice di appello, riteneva, in relazione al gravame principale, che l’Ufficio non avesse adempiuto l’onere di provare che la società contribuente avesse effettivamente utilizzato – ai fini della detraibilità dell’IVA e della deducibilità dei relativi costi dal reddito dichiarato – fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti.
2.1. Quanto all’appello incidentale proposto dalla contribuente, la CTR riteneva di dover confermare la compensazione delle spese del giudizio di prime cure, operata dalla CTP. 3. Per la cassazione della sentenza n. 48/4/07 ha proposto ricorso l’Agenzia delle Entrate, affidato a sei motivi, ai quali l’intimata ha replicato con controricorso, contenente altresì ricorso incidentale, fondato su un unico motivo.

Diritto

1. In via pregiudiziale, vanno riuniti il ricorso principale e quell’incidentale, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
2. Nel merito, e per quanto attiene al ricorso principale, va rilevato che con i sei motivi di ricorso – che vanno esaminati congiuntamente, attesa la loro evidente connessione – l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 1 e art. 19, comma 1, D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5 e D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè l’insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.
2.1. Osserva, in primis, l’amministrazione che la CTR avrebbe erroneamente fondato la decisione di appello sul fatto che la 3 EFFE s.r.l. – che si era resa cessionaria della merce (nella specie, nel settore della telefonia mobile) formalmente cedutale dalla società italiana ******************************, ma in realtà acquistata da venditori aventi sede nella Repubblica di S. Marino o in altri Stati Europei – avesse versato l’IVA indicata in fattura alle predette società cedenti, ed avesse, poi, regolarmente annotato l’operazione nelle proprie scritture contabili. Il diritto alla detrazione dell’IVA (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 19), invero, ad avviso della ricorrente, sarebbe subordinato, non soltanto al fatto che l’imposta in parola venga effettivamente versata al cedente e che l’operazione sia regolare dal punto di vista contabile, ma anche al fatto che l’IVA corrisposta sia relativa ad un’operazione effettivamente posta in essere.
E ciò in un duplice significato: sussistenza dell’operazione sul piano fattuale, nel senso che la cessione dei beni o la prestazione dei servizi oggetto della fattura siano state effettivamente poste in essere, nella loro realtà materiale; esistenza dell’operazione sul piano dei soggetti che – stando alla fattura – l’avrebbero posta in essere. E, sotto tale ultimo profilo, a differenza di quanto ritenuto – in proposito – dalla CTR, l’inesistenza soggettiva dell’operazione ben potrebbe desumersi – a parere dell’amministrazione ricorrente – da elementi sintomatici, quali l’insussistenza di una struttura organizzativa in capo al soggetto cedente, nonchè l’entità irrisoria della percentuale di ricarico a favore del soggetto che in base alla fattura, risultava cedente della merce.
2.2. Avrebbe, inoltre, errato il giudice di appello – a parere dell’amministrazione – ad obliterare il principio, più volte ribadito dalla C. Giust. CE, secondo cui il diritto alla detrazione dell’IVA non può essere riconosciuto, qualora risulti accertato che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto passivo che sapeva, o avrebbe dovuto sapere, di partecipare, con il proprio acquisto, ad un’operazione costituente una frode fiscale.
2.3. Per quanto concerne, poi, la deducibilità dei costi ai fini delle imposte dirette e dell’IRAP, osserva l’amministrazione ricorrente che la CTR avrebbe del tutto omesso di rilevare l’assenza di prove – da parte la società contribuente, sulla quale incombeva il relativo onere – circa l’esistenza dei costi indicati nelle fatture relative alle operazioni con la suindicata società interposta, ******S CORPORATION, in violazione di quanto disposto, al riguardo, dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, e dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 5.
2.4. Sul piano motivazionale, ancora, le doglianze dell’Agenzia delle Entrate si incentrano sulla inadeguatezza del percorso argomentativo seguito dalla CTR, che non avrebbe condotto un esame esaustivo sulle risultanze processuali, essendosi, per contro, fondata su “principi astratti, del tutto avulsi dai dati di fatto su cui il giudice era chiamato a pronunciarsi”. In particolare, il giudice di appello avrebbe del tutto omesso di considerare la totale inadempienza agli obblighi di versamento dell’imposta da parte della apparente cedente (società “filtro” o “cartiera”), ed avrebbe del tutto pretermesso la considerazione, nell’impianto motivazionale dell’ impugnata sentenza, della circostanza – evidenziata dall’Ufficio, sulla scorta del processo verbale redatto dalla Guardia di Finanza – relativa all’assenza di una, sia pur minima, organizzazione di impresa in capo alla predetta società “filtro”, che – pertanto – non avrebbe fornito i beni indicati nelle fatture, in realtà ceduti direttamente alla contribuente da società estere.
3. Con il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, la 3 EFFE s.r.l. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
3.1. La CTR – a parere della contribuente – non avrebbe dovuto confermare il capo della sentenza di primo grado, con il quale la CTP disponeva la compensazione delle spese di lite, atteso che, avendo l’amministrazione ridotto in maniera considerevole, in via di autotutela e quando il giudizio era stato già incardinato dalla 3 EFFE s.r.l., la pretesa fiscale originariamente azionata, non si verterebbe – nella specie – in un caso di cessazione della materia del contendere, bensì di una sostanziale soccombenza dell’amministrazione, che avrebbe dovuto, pertanto, sopportare il carico delle spese di lite.
4. Premesso quanto precede, va osservato che la controversia in esame ripropone il tema, più volte affrontato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE e da questa stessa Corte di legittimità, relativo alla utilizzazione – ai fini della detrazione dell’IVA sulle operazioni passive (acquisti di beni o di servizi) e della deducibilità dal reddito di impresa dei costi inerenti gli acquisti operati – di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti. Il rilievo della tematica (anche a livello dei principi espressi dal diritto comunitario) e la sua complessità, che ha dato luogo – tra gli interpreti – a letture, non sempre e non del tutto, esatte della giurisprudenza comunitaria e di quella nazionale, inducono questa Corte a fornire – in questa sede, ed in funzione nomofilattica – un quadro quanto più possibile chiaro ed esaustivo della problematica in discussione.
4.1. A tal fine – prendendo le mosse dalle censure concernenti l’IVA – occorre muovere dal rilievo secondo cui la nozione di “fattura inesistente” va riferita, non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata, sul piano fattuale, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi – ricorrente nel caso di specie – di inesistenza soggettiva, che ricorre quando, pur risultando i beni o il servizio reso, entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi. Da tale situazione scaturisce una duplice, rilevante, conseguenza sul piano tributario.
Ed invero, in siffatta evenienza, mentre l’obbligo di corrispondere l’imposta sull’operazione soggettivamente inesistente deriva, per l’emittente, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 7, resta comunque evasa l’imposta relativa alla diversa operazione effettivamente realizzata (cfr. Cass. 6378/06, 18907/11). Inoltre, in conseguenza di tale illecito, perpetrato in presenza di operazioni inesistenti, viene – di conseguenza – alterato lo stesso schema applicativo dell’IVA ed, in particolare, i presupposti per l’esercizio del diritto alla detrazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19.
4.2. Il meccanismo di applicazione dell’imposta in parola può – per vero – essere riassunto come segue.
4.2.1. I soggetti IVA (imprenditori o lavoratori autonomi) devono all’Erario l’imposta gravante sulle cessioni di beni o prestazioni di servizi da essi effettuate (operazioni attive), ma non ne sopportano definitivamente il peso. Essi hanno, infatti, l’obbligo di rivalersene nei confronti dei cessionari o committenti (il cedente o prestatore “deve”, recita il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, addebitare l’imposta al cessionari o committente), in tal modo “neutralizzando” il carico di imposta derivante dall’operazione compiuta. Il soggetto IVA che cede il bene o presta il servizio, dunque, deve calcolare l’IVA sull’operazione come “IVA a debito”, nella determinazione periodica dell’imposta dovuta, ma si rivale di tale imposta sul cliente. Quest’ultimo, peraltro, se ha acquistato i beni o servizi nell’esercizio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo, ha diritto di detrarre nella sua liquidazione periodica, l’importo dell’imposta pagata, come “IVA a credito”, da quella dovuta all’Erario per le cessioni o prestazioni effettuate.
Ne discende che per i soggetti passivi obbligati nei confronti dell’Erario (imprenditori o lavoratori autonomi) l’applicazione dell’imposta è, in via di principio, neutrale, atteso che l’IVA sulle operazioni attive è da essi trasferita sui clienti mediante la rivalsa, mentre l’imposta sulle operazioni passive (acquisti effettuati) è recuperata mediante detrazione dall’imposta dovuta, sub specie di un credito, derivante da compensazione, vantato nei confronti dell’Erario. Quest’ultimo acquisisce, invero, ad ogni passaggio del ciclo produttivo-distributivo (produttore – grossista – dettagliante – consumatore) solo l’eventuale differenza, o frazione, tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti, ovvero la cifra maturata a debito del soggetto passivo obbligato, nella periodica sommatoria di IVA a credito ed a debito (c.d. valore aggiunto). In tal senso, l’IVA corrisposta dai soggetti passivi è periodica e neutrale, giacchè il tributo viene in definitiva a gravare sul consumatore finale, il quale – pur non essendo debitore verso l’Erario – subisce la rivalsa giuridica senza potere, a sua volta, detrarre l’imposta.
4.2.2. L’IVA si atteggia, dunque, – secondo quanto sancito anche dal diritto comunitario (6^ Direttiva 77/388/CEE del 17.5.77, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, e Direttiva 2006/112/CE del 28.11.06, relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto)-come un’imposta generale sul consumo di beni e servizi che, attraverso il sistema delle rivalse e delle detrazioni, persegue l’obiettivo di operare un prelievo definitivo sul consumatore finale. Per il che, la giustificazione comunitaria e costituzionale (artt. 3 e 53 Cost.) del tributo – nel meccanismo applicativo sopra descritto – risiede indubbiamente nel tassare il consumo e nel rendere neutrale, per i soggetti passivi dell’imposta, il prelievo nelle fasi precedenti del ciclo produttivo – distributivo. Sotto tale profilo, va – tuttavia – osservato che, mentre la rivalsa nelle operazioni attive è materia di un obbligo per il cedente (o prestatore), la detrazione costituisce un diritto – non assoluto, nè incondizionato – del soggetto di imposta, finalizzato a sgravare totalmente l’imprenditore dall’onere dell’IVA pagata nell’effettuazione delle operazioni passive concernenti l’esercizio dell’impresa o dell’attività professionale autonoma, sì da assicurare la totale neutralità dell’imposta in parola (C. Giust. CE, 21.2.2006, C-255/02, ********.
CE, 22.12.10, C- 438/09, ********. Ce, 21.6.12, C – 80/11, ********.
12.7.12, C – 284/11). 4.2.3. Nel sistema sopra descritto è – pertanto – di palmare evidenza che l’IVA che il cessionario assume di avere pagato al preteso cedente per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa, giacchè non era (almeno in astratto, salva la previsione dell’art. 21, comma 7 d.P.R., che mira a recuperare comunque, in concreto, all’Erario il relativo importo) neppure assoggettato all’obbligo di pagamento dell’ imposta – non può di certo essere detraibile ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19. L’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente, invero, il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista. Siffatta alterazione determina, infatti, – come dianzi cennato – una duplice conseguenza negativa per l’Erario. La prima consiste nell’indebito vantaggio fiscale per il cessionario dei beni o dei servizi, che fruisce di una detrazione non dovuta, dal momento che la mera corresponsione dell’imposta al cedente apparente dei beni o dei servizi non vale a realizzare il presupposto della detrazione, finalizzata a affrancare l’imprenditore dal carico dell’IVA sulle operazioni passive poste in essere, richiedendosi altresì – com’è del tutto evidente l’inerenza di tali operazioni alla stessa attività di impresa che il meccanismo della detrazione mira a sgravare sul piano fiscale. Tale requisito è di certo carente in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di un costo che – com’è ovvio – non inerisce all’istituzionale attività di impresa, ma che costituisce potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse. Senza dire che la provenienza della merce (o del servizio) da un soggetto diverso da quello figurante sulle fatture integra una circostanza tutt’altro che indifferente ai fini IVA, anche sotto il profilo dell’incidenza della qualità del venditore sulla misura dell’aliquota e, di conseguenza, sull’entità dell’imposta detraibile dall’acquirente (Cass. 29467/08, 735/10).
La seconda conseguenza negativa per l’Erario si concreta, poi, nell’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata tra altri soggetti e che non da luogo a fatturazione e, quindi, ad assoggettamento ad imposta, sebbene si tratti – questa volta – di un’operazione realmente posta in essere dai soggetti interessati (cfr. Cass. 7672/12). E, per lo più, – come è accaduto nel caso di specie (v. sentenza impugnata p. 2) – a siffatta evasione si accompagna la sottrazione agli obblighi IVA (omessa dichiarazione, ed omesso versamento dell’imposta) delle società “cartiere”, che sostanzialmente lucrano l’IVA, riscossa in rivalsa, a loro esclusivo vantaggio.
4.3. In tal senso, sia la Corte di Giustizia Europea che questa Corte, hanno, pertanto, più volte affermato che il beneficio della detrazione non è accordabile, sia per il diritto comunitario che per il diritto interno che ad esso si uniforma, qualora sia dimostrato – secondo la disciplina dell’onere della prova che si passa ad esporre -che lo stesso beneficio è invocato dal contribuente fraudolentemente o abusivamente.
4.3.1. Secondo la Corte Europea, invero, il diritto alla detrazione, previsto dagli artt. 167 e ss. della direttiva 2006/112, e costituente parte integrante del meccanismo di traslazione dell’imposta proprio dell’IVA in ambito comunitario, può essere negato solo quando risulti dimostrato da parte dell’amministrazione finanziaria, “alla luce di elementi oggettivi”, che il soggetto passivo al quale siano stati forniti i beni o i servizi, posti a fondamento del diritto alla detrazione, “sapeva o avrebbe dovuto sapere che tale operazione si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore o da un altro operatore a monte”. E’ di tutta evidenza, infatti, che in tale evenienza il soggetto che intende fruire della detrazione deve essere considerato, ai fini della direttiva 2006/112, come “partecipante a tale evasione”, laddove di certo non lo sarebbe colui che ignorasse – senza sua colpa – che il fornitore effettivo della merce o dei servizi ricevuti non era il fatturante, ma un altro soggetto. Ma è chiaro che l’onere di provare tale circostanze liberatoria – a fronte degli elementi dimostrativi forniti dall’amministrazione – non può che cedere a carico del contribuente (v. C. Giust. CE, 6.7.06, C- 439/04, ********. CE, 21.2.06, C – 255/02, ********. CE, 21.6.12, C – 80/11).
4.3.2. In piena sintonia con il menzionato indirizzo della giurisprudenza comunitaria, questa Corte – in diverse, recenti decisioni – ha, del pari, affermato che, in tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, il committente – cessionario, al quale sia contestata – sulla base di elementi presuntivi forniti dall’amministrazione – la detrazione dell’IVA versata in rivalsa al soggetto diverso dal cedente-prestatore, che – tuttavia – ha emesso la fattura, ha il diritto di detrarre l’imposta soltanto se provi, ex art. 2697 c.c., comma 2, che non sapeva o non poteva sapere di partecipare ad un’operazione fraudolenta. Il cessionario, dovrà, in particolare, dimostrare almeno una di queste due circostanze: di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto; oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all’attività professionale svolta in occasione dell’operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione (cfr. in tal senso, Cass. 8132/11, 15741/12, 7672/12, 9108/12).
4.4. Ciò posto, giova osservare – al riguardo – che elemento chiave del sistema dell’IVA – come sopra delineato – è costituito dalla fattura, documento contabile che i soggetti passivi dell’imposta (imprenditore o professionista) sono tenuti ad emettere per ciascuna operazione imponibile, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21.
Orbene, sul piano civilistico, la fattura – stante la previsione di cui all’art. 2709 c.c., ed avuto riguardo alla sua formazione unilaterale ed alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all’esecuzione di un contratto (come l’elenco delle merci, il loro prezzo, le modalità di pagamento ed altro), si inquadra fra gli atti giuridici a contenuto partecipativo, consistendo nella dichiarazione indirizzata all’altra parte di fatti concernenti un rapporto già costituito. Con la conseguenza che, nei rapporti tra l’emittente ed il cessionario -non imprenditore – dei beni in essa documentati, quando il rapporto ad essa sottostante sia contestato fra le parti, tale documento, ancorchè annotata nei libri obbligatori, non può assurgere a prova a favore di colui che l’abbia emessa (Cass. 9593/04, 13651/06). Resta salva la diversa efficacia probatoria, anche a favore dell’emittente, che tale documento può – in via di deroga alla regola generale suesposta – rivestire, ai sensi dell’art. 2710 c.c..
Sul piano tributario le cose non stanno esattamente negli stessi termini. Ed invero, in materia di IVA, la fattura è certamente documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, comprensivo dell’incidenza dell’imposta in parola sul prezzo di acquisto dei beni, attesa la disciplina del suo contenuto di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21. Ed, in tali limiti, essa può costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista, nei rapporti con il fisco.
Ben si intende, allora, che in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, l’amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura. E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata;
Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione -come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni).
4.5. Nè può in alcun modo ritenersi che le succitate pronunce di questa Corte si pongano in contrasto con le menzionate decisioni della Corte di Lussemburgo, nella parte in cui quest’ultima richiede che la prova della consapevolezza, in capo al cessionario, dell’inesistenza dell’operazione e dell’evasione a monte della stessa debbano risultare da “elementi oggettivi”, laddove potrebbe sembrare – in via di prima approssimazione – che la prova per presunzioni si traduca in un mero ragionamento logico, come tale fortemente permeato di valutazioni soggettive e, dunque, privo della stessa consistenza obiettiva che connota le altre prove precostituite o costituende.
4.5.1. Per intanto, va osservato, infatti, che la stessa Corte Europea mostra di valorizzare appieno la prova indiziaria o presuntiva, laddove afferma che la sussistenza di “indizi”, che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture, deve indurre l’operatore avveduto ad assumere informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi. In difetto, non potrà che essere escluso – per le ragioni suindicate – il diritto del medesimo alla detrazione di imposta (C. Giust. CE, 21.6.12, cit.).
4.5.1. Va – di poi – soggiunto, sul piano del diritto nazionale, che le elaborazioni della dottrina e di questa stessa Corte di legittimità, in ordine al valore probatorio della prova presuntiva, inducono a far ritenerne del tutto legittimo – ed in sintonia con le suesposte considerazioni della Corte Europea – il ricorso a tale strumento, anche in materia di fatturazione per operazioni inesistenti. Ed invero, va anzitutto rilevato che la prova per presunzioni è ricompresa nel catalogo delle prove utilizzabili in giudizio, di cui al titolo 2 del libro 6 del codice civile (artt. 2697 e ss.), ed il suo regime giuridico è del tutto assimilato a quello della prova testimoniale (art. 2729 c.c.). Per il che, il carattere di prova piena ed oggettiva, attribuibile alle presunzioni, appare difficilmente contestabile.
In tal senso, questa Corte ha più volte affermato che la prova per presunzioni costituisce una prova “completa”, alla quale il giudice di merito può legittimamente ricorrere, anche in via esclusiva, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli di individuare le fonti di prova, di verificarne l’attendibilità e di scegliere, tra gli elementi probatori acquisiti, quelli più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione (Cass. 4743/05, 9108/12). Con la conseguenza che il convincimento del giudice sulla verità di un fatto – non esistendo nel vigente ordinamento, al di fuori dei casi di prova legale, una gerarchia delle prove – ben può fondarsi anche su una presunzione che sia in contrasto con le altre prove acquisite, se da lui ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che egli fornisca del convincimento così attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass. 4777/98, 10573/02).
4.5.2. D’altro canto, dovendo il giudice esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi, in primo luogo, il giudicante dovrà – per vero – operare una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria. Successivamente, il medesimo dovrà procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi (Cass. 19894/05, 9108/12). Ed è appena il caso di rilevare che tale certezza raggiunta, sul piano probatorio, mediante un accorto uso degli elementi presuntivi, unitariamente considerati, in nulla si differenzia dal convincimento attinto dal giudicante all’esito dell’assunzione degli altri mezzi di prova.
Il carattere di “elemento oggettivo” di prova – in piena sintonia con le affermazioni della Corte di Lussemburgo – attribuibile alla prova indiziaria o per presunzioni semplici non appare, pertanto, seriamente discutibile.
4.5.3. Ne discende, con riferimento alla materia in discussione, che non occorre – ai fini della prova del carattere fittizio delle operazioni risultanti dalle fatture contestate dall’Ufficio – l’acquisizione, a conforto, di ulteriori elementi presuntivi o probatori desunti dall’esame della documentazione contabile o bancaria del contribuente, atteso che, se gli indizi hanno raggiunto la consistenza di prova presuntiva, non vi è necessità alcuna di ricercarne altri, o di assumere ulteriori fonti di prova (Cass. 9108/12). A fronte degli elementi di prova presuntiva forniti dall’amministrazione in giudizio, viene a ricadere, quindi, sul contribuente – come detto – l’onere di fornire la prova piena in ordine all’esistenza effettiva, anche sul piano soggettivo, degli acquisiti operati e documentati dalle fatture in contestazione, o circa la sua buona fede in ordine al carattere fraudolento delle operazioni a monte del proprio acquisto.
5. Tutto ciò premesso in relazione all’IVA, per quel che concerne, poi, le imposte dirette, questa Corte ha osservato, muovendo dall’analisi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 4 (ora 109, comma 4), che i costi deducibili, ai fini della determinazione del reddito di impresa sono quelli inerenti all’attività imprenditoriale, in quanto tali suscettibili di essere raccordati alla stessa sul piano strumentale. Va osservato, per vero, al riguardo che il concetto di inerenza è nozione di origine economica, legata all’idea del reddito come entità calcolata al netto dei costi sostenuti per la sua produzione, che, nel campo fiscale, si traduce in un risparmio di imposta e in relazione alla cui sussistenza, soltanto ove si abbia riguardo a spese intrinsecamente necessarie alla produzione del reddito dell’impresa, non incombe alcun onere della prova in capo al contribuente (Cass. 6548/12).
Di contro, laddove si versi – come nel caso concreto – in ipotesi di costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, alla stregua di elementi indiziari forniti dall’amministrazione, tali costi non possono essere dedotti dal committente-cessionario, ove non ricorra la prova dell’assenza dei presupposti dell’illecito penale , integrando invero tale operazione, tradizionalmente, il reato di falso documentale, rilevante sia come concorso nell’emissione di fattura falsa, sia come utilizzazione della stessa a fini d’evasione. Ed infatti, la derivazione dei costi da un’attività integrante illecito penale – espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa – comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che – nella specifica ipotesi – è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi che intenda dedurre dal reddito imponibile (cfr. Cass. 23626/11, 2598/10). Tale prova non può, peraltro, essere validamente fornita soltanto dimostrando che la merce è stata effettivamente ricevuta e ne è stato versato il corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti, la prima in quanto insita nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente, e la seconda perchè relativa ad un dato di fatto inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass. 17377/09).
6. Alla luce di tali, fondamentali, premesse di principio, può ora procedersi all’esame dei motivi di ricorso proposti dall’Agenzia delle Entrate. Essi – a giudizio della Corte – si palesano pienamente fondati, sia sotto il profilo della violazione di legge, sia sotto il profilo del vizio di motivazione.
6.1. L’impianto motivazionale dell’impugnata sentenza si fonda, invero, sui seguenti passaggi argomentativi:
1) la società cessionaria, 3 EFFE s.r.l., avrebbe regolarmente versato l’IVA alla società ritenuta “cartiera” dall’Ufficio, ed avrebbe tenuto formalmente in regola la contabilità relativa agli adempimenti fiscali conseguenti alle cessioni di beni in discussione, peraltro realmente ricevuti dalla cessionaria;
2) l’amministrazione finanziaria sarebbe venuta meno all’onere di provare il carattere fittizio delle operazioni oggetto delle fatture emesse dalla DE.BO’S CORPORATION, essendosi la medesima affidata a meri elementi indiziar e presuntivi, come l’insussistenza di una struttura organizzativa della suddetta società cedente, e l’inadempienza dei relativi obblighi fiscali da parte della medesima;
3) ciascuno di tali elementi indiziari sarebbe, comunque Sfornito dell’efficacia probatoria che può ascriversi alla presunzione, atteso che la circostanza dell’assenza di una struttura organizzativa in capo alle cedenti sarebbe del tutto priva di valore probatorio, in presenza di una reale e concreta transazione commerciale regolarmente effettuata dalla società acquirente; tanto più che le imprese “fantasma” si attiverebbero e cesserebbero nel breve volgere di pochi mesi, mentre la presunta società “filtro” sarebbe riuscita, nel caso di specie, a ad occultare i propri comportamenti illeciti per un arco temporale di alcuni anni. E, del pari, priva di significato sarebbe la circostanza relativa al prezzo particolarmente favorevole praticato alla cessionaria dalla presunta “cartiera”, essendo la stessa imputabile, al consistente volume di affari, ricorrente nel caso concreto, da cui deriverebbe comunque un ingente guadagno per la società venditrice; volume di affari che, se fosse stato “falsificato da operazioni inesistenti, avrebbe avuto degli innegabili riflessi sul fatturato delle merci regolarmente vendute”, profilo invece non evidenziato dall’Ufficio, a parere del giudice di appello.
6.2. Premesso quanto precede, osserva la Corte che le suesposte argomentazioni si traducono in una palese violazione e falsa applicazione dei parametri normativi desumibili dagli artt. 17 e 19 D.P.R., in tema di IVA e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (nel testo applicabile ratione temporis), in relazione alle imposte dirette, posti in relazione ai principi desumibili dalla 6^ Direttiva 77/388/CEE del 17.5.77 e dalla Direttiva 2006/112/CE del 28.11.06, nonchè dalla succitata giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.
6.2.1. La CTR ha, invero, del tutto erroneamente ancorato il diritto della 3 EFFE s.r.l. alla detrazione dell’IVA ed alla deduzione dei costi documentati nelle fatture in contestazione, alla circostanza dell’effettiva ricezione della merce da parte della contribuente e dell’avvenuto adempimento, ad opera della medesima, degli obblighi fiscali connessi alle operazioni di acquisto dei beni oggetto di dette fatture. Mentre l’amministrazione – a parere del giudice di appello – non avrebbe, per parte sua, adempiuto l’onere di provare il carattere fittizìo di tali operazioni, essendosi affidata ad elementi meramente indiziar, di scarsa pregnanza sul piano probatorio.
6.2.2. Senonchè è di chiara evidenza l’erroneità di tali assunti, considerato che la mera regolarità formale e fiscale delle operazioni documentate, e la stessa circostanza che i beni o i servizi siano entrati nell’effettiva disponibilità del cessionario, non valgono di per sè – alla luce dei principi sopra ampiamente sposti – a radicare il diritto del contribuente, fondato sulle disposizioni succitate, alla deduzione dei relativi costi ai fini dell’imposizione diretta ed alla detrazione dell’imposta versata ai fini IVA, laddove l’Ufficio dimostri – anche a mezzo di presunzioni (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 40, nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2) – che le operazioni oggetto di dette fatture siano oggettivamente o soggettivamente inesistenti.
Nè risulta che la CTR abbia, in alcun modo, fondato il diritto alla detrazione ed alla deduzione di imposta – a fronte dei suindicati, significativi, elementi indiziari e presuntivi forniti dall’amministrazione – sull’esistenza di una prova contraria, fornita dalla 3 EFFE s.r.l., circa la mancata consapevolezza, da parte della medesima, di partecipare ad un’operazione fraudolenta, dovendo, anzi – come subito si dirà – rilevarsi la presenza in atti di una prova contraria a tale presunta buona fede della 3 EFFE s.r.l..
6.2.3. I rilievi che precedono rendono, pertanto, del tutto palese – a giudizio della Corte – la fondatezza del ricorso dell’Agenzia delle Entrate sotto il profilo dei denunciati vizi di violazione e falsa applicazione di legge.
6.3. Ma del tutto fondato si palesa il ricorso anche per quanto concerne i vizi di motivazione, dedotti dall’amministrazione ricorrente.
4.3.1. Sotto tale profilo, va anzitutto osservato che la CTR si è limitata ad assumere l’insussistenza di una “elementi certi” di prova da parte dell’amministrazione finanziaria, in ordine al carattere fittizio delle operazioni in contestazione, senza tenere conto alcuno delle inferenze logiche desumibili dagli elementi dimostrativi, a carattere indiziario e presuntivo, analiticamente addotti dall’Ufficio in giudizio (cfr. Cass. 3370/12).
Tali elementi si concretavano, in particolare, nell’accertata assenza di una qualsiasi organizzazione di impresa in capo alla pretesa società cedente (******S CORPORATION), e nella circostanza, decisiva al fine di escludere l’ignoranza della cessionaria in ordine al fatto di partecipare ad un’operazione fraudolenta, che la merce ceduta fosse pervenuta alla contribuente dalle società produttrici estere (aventi sede nella (omissis)), e non dalla apparente cedente italiana. L’una e l’altra circostanza desunte dall’amministrazione dal processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza e dalle dichiarazioni rese, in quella sede, dal legale rappresentante della società cartiera. Orbene, contrariamente a quanto asserito – in proposito – dal giudice di appello, le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla polizia tributaria nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, se hanno – di regola – valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate da altri elementi di prova, nel concorso di particolari circostanze ed in ispecie quando abbiano valore confessorio, possono – per contro – integrare non un mero indizio, ma una vera e propria prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’atto impositivo (Cass. 9876/11).
D’altro canto, valore fortemente presuntivo del carattere fittizio dell’interposta ******S CORPORATION, rivestiva – nella specie – anche la totale inadempienza agli obblighi di versamento dell’imposta da parte delle predetta cedente interposta.
6.3.2. In particolare, la CTR ha operato – del tutto erroneamente – una valutazione atomistica dei suesposti elementi presuntivi forniti dall’ amministrazione, prendendoli in esame singolarmente e ritenendoli uno per uno – come dianzi evidenziato – sforniti di una valenza probatoria adeguata. Di contro, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto valutare detti elementi di prova in maniera complessiva, onde inferire dalla loro considerazione unitaria se essi fossero – o meno – concordanti, e se la loro combinazione fosse in grado di fornire una valida prova presuntiva, tale da consentire di attingere una certezza, sul piano probatorio, non conseguibile considerando i singoli elementi di prova separatamente (cfr. Cass. 3703/12, 9108/12).
6.4. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, il ricorso dell’Agenzia delle Entrate deve trovare pieno accoglimento.
7. Del tutto infondato si palesa, invece, a giudizio della Corte, l’unico motivo di ricorso incidentale proposto dalla 3 EFFE s.r.l., con il quale la contribuente censura la decisione di appello nella parte in cui ha confermato il capo della sentenza di primo grado, con il quale la CTP aveva disposto la compensazione delle spese di lite.
Avendo, invero, l’amministrazione ridotto in maniera considerevole, in via di autotutela e quando il giudizio era stato già incardinato dalla 3 EEFFE s.r.l., la pretesa fiscale originariamente azionata, non si verterebbe, nella specie – a parere della contribuente – in un caso di cessazione della materia del contendere, bensì di una sostanziale soccombenza dell’amministrazione, la quale avrebbe dovuto, pertanto, sopportare il carico delle spese di lite.
7.1. Senonchè, va – di contro – osservato che l’annullamento dell’atto impositivo in sede di autotutela da luogo – secondo il costante insegnamento di questa Corte – a cessazione della materia del contendere, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, cui non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, stante, invece, l’obiettiva complessità della materia (Cass. 22231/11), come nella specie ha ritenuto – con motivazione adeguata – la decisione di appello. In siffatta ipotesi, infatti, ben può essere disposta la compensazione delle spese di lite ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, in quanto intervenuta all’esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario, trattandosi di un’ipotesi diversa dalla compensazione “ope legis” prevista dal comma 3 dell’art. 46 succitato, come conseguenza automatica di qualsiasi estinzione del giudizio, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 274 del 2005 (Cass. 19947/10).
7.2. Il ricorso incidentale va, pertanto, disatteso.
8. L’accoglimento del ricorso principale comporta la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della CTR delle Marche, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia, tenendo conto degli elementi indiziari e presuntivi suindicati, forniti in giudizio dall’amministrazione a supporto della dedotta inesistenza delle operazioni in discussione nel presente giudizio, ed attenendosi ai principi di diritto suesposti.
9. Il giudice del rinvio provvedere, altresì, alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

 

P.Q.M.

La Corte di Cassazione;
riunisce il ricorso principale e quello incidentale; accoglie il ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale; cassa l’impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale delle Marche, che provvedere alla liquidazione anche delle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 30 ottobre 2012.
Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2012

Redazione