Falsa testimonianza per proteggere un collega che operava in regime di incompatibilità con la struttura (Cass. pen. n. 42742/2012)

Redazione 06/11/12
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Ritenuto in fatto

1. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte d’appello di Messina, in parziale riforma della sentenza dell’11 ottobre 2007 con cui il G.u.p. del Tribunale di Messina aveva ritenuto D.M. responsabile del reato di falsa testimonianza condannandola alla pena di dieci mesi e venti giorni di reclusione, interamente condonata, ha concesso all’imputata il beneficio della non menzione della condanna.
La vicenda si riferisce al processo penale a carico dei medici A.F. e F.S., imputati, il primo del reato di lesioni personali colpose nei confronti di M.M. per avere omesso di effettuare esami ed accertamenti che avrebbero evitato una serie di compromissioni irreversibili degli organi della paziente, il secondo di falso per avere attestato nella cartella clinica di avere effettuato l’intervento di laparotomia esplorativa nei confronti della M., in realtà eseguito da A.
La D., sentita come testimone, in qualità di medico operante presso la clinica privata (omissis) dove era stata ricoverata la M. , avrebbe dichiarato il falso sostenendo di essere entrata in sala operatoria nel corso dell’intervento di laparotomia esplorativa effettuato il 27.8.1999 sulla paziente M.M. e di avere visto operare il dottor F.S., mentre il dottor A. era presente in veste di osservatore, aggiungendo di non avere mai visto l’A. operare nella clinica.
I giudici di appello, nel confermare il giudizio di colpevolezza dell’imputata, hanno preso in considerazione la sentenza definitiva della Corte d’appello del 16.3.2007 concernente la responsabilità di A. e di F., nonché le dichiarazioni rese da M. e M.S., che hanno riferito quanto appreso dalle ostetriche C.A.M. e Z.M. (quest’ultima pure imputata di falsa testimonianza), le quali avrebbero raccomandato di non dire che ad operare era stato A.: da tali elementi probatori è stata desunta la falsità della testimonianza resa dalla D., determinata anche dall’esigenza di evitare che potesse scoprirsi che A., primario dell’unità operativa di fisiopatologia presso L’Azienda Ospedaliera omissis, in regime di incompatibilità, svolgesse attività medica presso la clinica privata.
2. Nell’interesse dell’imputata ha proposto ricorso per cassazione l’avvocato L S. che ha dedotto i motivi che di seguito si indicano ai sensi dell’art. 173 comma 1 disp. att. c.p.p.:
– travisamento del contenuto della testimonianza resa dell’imputata e omesso esame delle doglianze contenute nell’atto di appello, in quanto i giudici hanno confuso le supposizioni della teste con i fatti dalla stessa riferiti, che appaiono del tutto conciliabili con quanto affermato dalla sentenza irrevocabile della Corte d’appello che ha riconosciuto che ad eseguire l’operazione della M. sia stato l’A.;
– violazione degli artt. 521 e 597 c.p.p., in quanto la sentenza ha motivato la responsabilità per il preteso mendacio relativo all’affermazione secondo cui l’A. non avrebbe mai operato nella clinica (omissis) con riferimento ad un preteso andazzo illegale all’interno della struttura privata, mentre il capo d’imputazione indicava come esclusivo parametro di riferimento per la falsità della deposizione l’intervento nei confronti di S.E. a cui avrebbe partecipato anche l’imputata, assieme all’A.;
– vizio di motivazione e violazione dell’art. 372 c.p., in quanto la sentenza ha giustificato la condanna per la falsa testimonianza con riferimento all’episodio del parto cesareo nei confronti della S.;
– manifesta illogicità della motivazione con riferimento al secondo mendacio, in quanto l’eventuale conoscenza della prassi illecita dell’A. non può costituire prova della falsità della testimonianza;
– violazione dell’art. 384 c.p., in quanto anche a voler ritenere che l’imputata abbia dichiarato il falso, la stessa non poteva essere condannata, almeno in relazione al contestato mendacio sul c.d. andazzo all’interno della clinica, dal momento che aveva partecipato quale coequipier all’intervento di parto cesareo della S. , eseguito – come è stato accertato – da A. , sicché affermare di avere visto operare A. nella clinica l’avrebbe esposta al pericolo di gravi conseguenze penali, derivanti dalla ammissione dell’esistenza di prassi illegali alle quali avrebbe potuto seguire l’addebito nei suoi confronti di concorso in falso ideologico.

 

Considerato in diritto

3. I motivi con cui, sotto diversi profili, si deduce la manifesta illogicità e il travisamento della motivazione, nonché la violazione dell’art. 372 c.p. e degli artt. 521 e 597 c.p.p. sono tutti infondati.
Risulta pacifico, in quanto accertato con sentenza ormai definitiva, che fu A. ad eseguire l’intervento sulla M. ed infatti la ricorrente limita le sue contestazioni alla ricostruzione che i giudici hanno fatto della sua testimonianza, ritenendo che sia stato travisato il senso della deposizione.
Invero, la sentenza ha compiuto una valutazione complessiva della condotta dell’imputata, calando la sua testimonianza nei rapporti all’interno della clinica privata in cui A. operava, pur trovandosi in una situazione di incompatibilità a causa del suo ruolo di primario presso una struttura ospedaliera pubblica. I giudici hanno evidenziato come la testimonianza resa dalla D. fosse preordinata a coprire le condotte illegali praticate nella clinica (omissis), in particolare a non rivelare la prassi di consentire ad A. di operare le sue pazienti in quella struttura privata, prassi autorizzata dallo stesso F. e conosciuta da tutti i medici e il personale della clinica. Che la D. fosse a conoscenza di questo “andazzo” e che abbia testimoniato il falso per coprire tali situazioni illegali, che riguardavano anche soggetti alle cui dipendenze la stessa lavorava, la sentenza impugnata lo ricava innanzitutto dalla dichiarazione con cui l’imputata nega di avere mai visto A. operare in clinica, dichiarazione che i giudici ritengono mendace in quanto è risultato che la stessa D. aveva fatto parte dell’equipe medica che partecipò, affiancando lo stesso A., all’operazione di parto cesareo di S.E..
In presenza di questa accertata falsità testimoniale relativa ad uno specifico episodio, la Corte territoriale, con una motivazione che non appare illogica e che, soprattutto non travisa il contenuto della stessa testimonianza, ritiene che l’imputata abbia voluto nascondere il fatto che ad operare la M. sia stato l’A.. Secondo i giudici la circostanza riferita dalla D. e cioè che l’A. si trovava in sala operatoria solo come osservatore appare nettamente in contrasto con quanto emerso sul piano oggettivo e in particolare con quanto riferito dalla C. , secondo cui era stato A. ad effettuare l’operazione. In sostanza, la prova della falsità della testimonianza resa viene desunta, dai giudici di merito, dal confronto con la “realtà storica degli accadimenti” rispetto alle dichiarazioni dell’imputata: quest’ultima, dopo avere sostenuto di essere giunta in sala operatoria al momento dell’apertura dei tessuti della paziente, ha dichiarato che ad operare era F., mentre dalle convergenti risultanze acquisite da altri testimoni (C., Z.) risulta in maniera incontrovertibile che l’operazione fosse condotta da A.. Peraltro, la Corte d’appello ha escluso che la testimonianza resa corrispondesse alla esatta percezione che D. ebbe nei minuti in cui fu presente nella sala operatoria, rilevando che la stessa abbia consapevolmente ridimensionato il ruolo dell’A., evitando di rappresentare negli esatti termini le azioni che si sviluppavano nella sala operatoria in modo che non venisse scoperta la “consolidata prassi illegale” in essere all’interno della clinica privata. Quello che la sentenza ha voluto evidenziare è che si è trattato di una testimonianza in parte reticente (primo mendacio) e in parte propriamente falsa nel negare il vero (secondo mendacio), che trova la sua ragione nel tentativo di coprire le pratiche illegali esistenti nella clinica (omissis).
Si tratta di una motivazione che appare del tutto logica, oltre che fondata su elementi concreti, in cui la testimonianza viene valutata globalmente attraverso l’individuazione dei motivi ritenuti alla base dell’atteggiamento della D.. Deve pertanto escludersi che vi sia stato il travisamento denunciato dalla ricorrente, in quanto i giudici hanno offerto una interpretazione razionale del contenuto della deposizione, che non può essere oggetto di critica in sede di legittimità se non a costo di trasformare il giudizio di cassazione in un terzo grado di merito.
Manifestamente infondato, anche perché del tutto generico, è il motivo con cui la ricorrente denuncia una inesistente violazione degli artt. 521 e 597 c.p.p., dal momento che la contestazione conteneva tutti gli elementi sui quali poi i giudici di merito hanno fondato la decisione di colpevolezza.
4. Infondato è anche l’ultimo motivo con cui si lamenta la mancata applicazione dell’art. 384 c.p., dovendo ritenersi che difettino i presupposti per l’ipotesi di non punibilità in esso prevista.
Infatti, deve escludersi che dalla testimonianza resa potesse derivare il pericolo di un nocumento alla libertà o all’onore della D. ; in particolare non sono emersi elementi per ritenere che la testimone abbia reso false dichiarazioni per sottrarsi al pericolo di essere incriminata per un reato in precedenza commesso e in ordine al quale, al momento in cui è stata ascoltata, non vi erano indizi di colpevolezza a suo carico. Il pericolo cui si riferisce la ricorrente, quello cioè di poter essere indagata del reato di falso ideologico in concorso con A. per l’operazione nei confronti della S., è del tutto ipotetico, in quanto per la sua posizione di coequipier non aveva alcuna responsabilità nella verbalizzazione dell’intervento.
5. All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione