Falsa consulenza per il consulente tecnico del pubblico ministero (Cass. pen., n. 43384/2013)

Redazione 23/10/13
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RITENUTO IN FATTO

1. L’oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico del Pubblico ministero una somma di denaro (da quello simulatamente accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa.

In particolare, la vicenda processuale in esame trae origine da un incidente aereo, avvenuto il 1° giugno 2003, nello spazio sovrastante l’aeroporto di Milano Linate, che causò la caduta di un aeromobile della compagnia Eurojet su un capannone industriale e la morte del pilota e del copilota.

Durante le indagini preliminari che seguirono, il Pubblico Ministero nominò un consulente tecnico, ex art. 359 cod. proc. pen., nella persona del signor C., funzionario Enac.

Nel corso degli accertamenti tecnici, il consulente citato fu avvicinato da un suo conoscente e collega, tale C. S., ispettore Enac a Milano ed addetto al controllo operativo di Eurojet, il quale gli prospettò la possibilità di ottenere una grossa somma di denaro in cambio di un elaborato tecnico favorevole alla compagnia aerea.

Il C. finse di accettare ma avvisò immediatamente il Pubblico ministero, che predispose attività investigativa che consentisse la prosecuzione della trattativa corruttiva, sia pure sotto il controllo della polizia giudiziaria, in modo che venissero individuate tutte le possibili responsabilità.

All’esito dell’indagine, emersero profili di responsabilità nei confronti del citato S. e di ******** ed E. R. (soci della compagnia aerea ed il secondo anche legale rappresentante) nonché dell’avv. **************, difensore di questi ultimi, il quale, secondo quanto emerso, avrebbe avuto il compito di indicare quale avrebbe dovuto essere il contenuto della consulenza tecnica per risultare favorevole ai suoi assistiti.

Il Pubblico ministero, con gli elementi acquisiti a carico dei citati indagati, chiese ed ottenne dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ordinanza cautelare per il delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319-ter cod. pen.

Già in sede di interrogatori di garanzia gli indagati ammisero la materialità dei fatti storici, seppure cercando di giustificare l’offerta corruttiva con la finalità di evitare una consulenza sfavorevole da parte del tecnico nominato dal Pubblico ministero, ritenuto in qualche modo prevenuto nei confronti della società e dei suoi amministratori.

L’ordinanza venne annullata dal Tribunale del riesame per erronea qualificazione del fatto: non essendosi conclusa la trattativa, il reato prospettabile era quello di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322 cod. pen.

Avverso il provvedimento del controllo cautelare propose ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

La Corte di cassazione rigettò il ricorso, confermando che la corruzione in atti giudiziari non si era consumata. In motivazione ritenne di poter sussumere il fatto storico nell’ipotesi delittuosa di tentativo di corruzione in atti giudiziari.

A ciò giunse sul presupposto che, in base alla lettera dell’art. 322 cod. pen., l’istigazione non era assolutamente configurabile quando il reato corruttivo finale preordinato era quello di cui all’art. 319-tercod. pen.

In sede di indagini venne successivamente sollevata questione sulla competenza territoriale, rimessa al Procuratore ******** presso la Corte di cassazione, ex art. 54-quater cod. proc. pen.

L’incidente venne risolto attribuendo la competenza alla Procura della Repubblica di Roma, sul presupposto che, qualificato come istigazione alla corruzione ex art. 322 cod. pen., il reato si era consumato in Roma.

Il Pubblico ministero a cui venne trasmesso il fascicolo, all’esito delle indagini, non ritenne però di contestare la fattispecie delittuosa individuata dal Procuratore ******** presso la Corte di cassazione ed esercitò l’azione penale nei confronti dei quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 cod. pen., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006.

Avendo gli imputati G.e R. optato per il rito abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza del 26 novembre 2008, concordando sulla qualificazione giuridica proposta dal Pubblico Ministero, condannò gli imputati alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale.

Con successiva ordinanza, emessa il 23 gennaio 2009, stesso giorno in cui venne depositata la motivazione, il Giudice dell’udienza preliminare operò una correzione del dispositivo, irrogando la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la stessa durata della pena principale, anch’essa sospesa.

In motivazione, il Giudice evidenziò come la fattispecie di cui all’art. 377 cod. pen. era da considerarsi speciale rispetto a quella dell’art. 322 cod. pen. e che essa andava ritenuta sussistente, nel caso in contestazione, in quanto l’attività allevatrice, svolta nei confronti del collaboratore del Pubblico ministero, era finalizzata ad ottenere una testimonianza favorevole nel futuro dibattimento; il consulente tecnico, infatti, avrebbe dovuto essere considerato, nella prospettiva del processo, un testimone, giusta il disposto dell’art. 501 cod. proc. pen.

La Corte di appello di Roma, con sentenza del 2 maggio 2012 pronunciata a seguito di impugnazione degli imputati, in riforma della sentenza del primo giudice – riqualificata la condotta contestata ai sensi degli artt. 110 e 322 cod. pen. – determinò la pena, tenuto conto della diminuente del rito, in anni uno di reclusione ciascuno e revocò la pena accessoria.

Secondo la Corte di appello non era possibile qualificare il fatto in termini di intralcio alla giustizia, essendo questo delitto prospettabile solo nel caso in cui il soggetto avvicinato rivesta già la qualifica di teste, per essere stato citato con questo ruolo a partecipare al giudìzio.

Pur condividendo l’impostazione del primo giudice sul carattere speciale della fattispecie di cui all’art. 377 cod. pen. rispetto a quella punita nel capo dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, la Corte di appello di Roma ritenne, però, per la ragione da ultimo indicata, inapplicabile la norma speciale. Confermò quindi la declaratoria di responsabilità, previa modificazione del titolo del reato.

A sostegno della propria tesi, la Corte distrettuale richiamò anche l’unico arresto edito della Suprema Corte, che aveva qualificato la proposta corruttiva avanzata ad un consulente tecnico di un pubblico ministero proprio come istigazione alla corruzione.

2. Contro la decisione della Corte di appello gli imputati hanno presentato, a mezzo del medesimo difensore, ricorso per cassazione, articolato in un unico motivo, con cui denunciano sia la violazione dell’art. 322 cod. pen. sia il vizio di motivazione.

Dopo una lunga premessa in cui viene ricostruito il fatto ed operata una alquanto esaustiva rassegna della giurisprudenza in argomento, evidenziano come, alla luce dell’impostazione sistematica del codice, il reato commesso dal consulente tecnico non possa che essere inquadrato, in astratto, fra le ipotesi dei reati contro l’amministrazione della giustizia.

Il legislatore, infatti, ha dimostrato, con le sue scelte, una volontà inequivoca: concentrare in un’apposita sezione tutte le condotte relative a reati contro l’amministrazione della giustizia.

In concreto, però, non sarebbe ipotizzabile il delitto di cui all’art. 377 cod. pen. perché mancherebbe il requisito soggettivo; nel caso di specie, infatti, il consulente tecnico, non avendo ancora assunto la veste di testimone, non poteva essere annoverato fra i soggetti nei cui confronti ha rilevanza penale una attività subornatrice.

Ravvisare, d’altro canto, nel fatto un’ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione (e quindi il delitto di cui all’art. 322 cod. pen.), oltre ad apparire una scelta in contrasto con le indicazioni del legislatore, incontrerebbe un ostacolo insormontabile, rappresentato dalla violazione degli artt. 3 e 25 Cost.

Infatti, il tentativo di corruzione di un consulente tecnico di parte verrebbe punito più severamente del tentativo di corruzione nei confronti del perito o del consulente tecnico del giudice civile o del consulente tecnico del pubblico ministero già ammesso a deporre in dibattimento.

Andrebbe, in conclusione, ravvisata, secondo i ricorrenti, la fattispecie di istigazione a commettere falsa consulenza (artt. 115, 380 cod. pen.), che, non essendo stata accolta, sarebbe non punibile ex art. 115 cod. pen.

In subordine, i ricorrenti eccepiscono la incostituzionalità dell’art. 322, comma secondo, cod. pen. per contrasto con l’art. 3 Cost.

3. Con ordinanza del 14 marzo 2013, la Sesta Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, sul presupposto di un potenziale contrasto di giurisprudenza, la questione così di seguito riassumibile: «se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza, qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza».

Il Collegio evidenzia in premessa quali siano le possibili opzioni ermeneutiche in campo.

Ricorda che nell’ambito della stessa vicenda in esame, in sede di valutazione cautelare della posizione del coimputato S., la Corte di cassazione aveva ritenuto configurabile la fattispecie di tentata corruzione in atti giudiziari; ritiene, però, si tratti di un orientamento a cui non possa darsi seguito; in mancanza di un accordo corruttivo, la condotta dell’istigatore, diretta a un soggetto che non l’accoglie, va infatti ricondotta nella fattispecie di cui all’art. 322 cod. pen. Quest’ultima disposizione, infatti, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318, comma primo, e 319 cod. pen., si attaglia anche a quella di cui all’art. 319-tercod. pen., posto che quest’ultimo articolo richiama «i fatti indicati negli articoli 318 e 319».

Di conseguenza, la questione interpretativa si concentra sull’applicabilità di una delle due fattispecie delittuose già sperimentate nel corso del procedimento di merito, e cioè l’istigazione alla corruzione o l’intralcio alla giustizia.

Nell’ordinanza di rimessione si ricorda come la lettura ermeneutica fatta propria dalla Corte di appello risulti supportata dall’unico arresto edito che si era occupato di un caso analogo; con la sentenza n. 4062 del 1999, imp. ***********, infatti, la medesima Sesta Sezione aveva ritenuto sussistente il delitto di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322, comma secondo, cod. pen., sul presupposto che il consulente tecnico del Pubblico Ministero, cui era stata offerta un’utilità per “addomesticare” gli esiti del suo accertamento, non aveva ancora assunto il ruolo formale di testimone.

Ritiene, però, che la prospettazione difensiva secondo cui vi sarebbero ostacoli formali nel configurare il delitto di istigazione alla corruzione abbia, almeno in parte, fondamento.

La prospettiva patrocinata nel 1999 dalla citata sentenza della Cassazione e nell’odierno processo dal Giudice collegiale di appello, rischia, in primo luogo, dì apparire in contrasto con il dettato degli artt. 3 e 25 Cost.

L’offerta di denaro o di altra utilità al consulente del pubblico ministero (pubblico ufficiale) per il compimento di una falsa consulenza finirebbe per essere punita più gravemente dell’analoga condotta diretta a un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell’art. 377, comma primo, cod. pen.. Nella prima ipotesi, infatti, per il combinato disposto degli artt. 319 e 322 cod. pen. (nella formulazione vigente prò tempore, prima della riforma della legge n. 190 del 2012), sarebbe irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.

Ma anche sotto un altro profilo la conclusione proposta parrebbe difficilmente giustificabile sul piano della razionalità complessiva del sistema; solo questa particolare – e neppure più grave – forma di intralcio alla giustizia non sarebbe ricompresa nella specifica partizione del codice dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, confluendo in quella dei delitti contro la pubblica amministrazione.

Partendo proprio da quest’ultima considerazione di carattere sistematico, l’ordinanza esplora la possibilità di considerare corretta la conclusione cui è pervenuto il Giudice di primo grado, quando aveva condannato gli imputati per il delitto di intralcio alla giustizia.

Quel Giudice aveva, infatti, individuato il riferimento implicato dall’art. 377 cod. pen. nell’art. 372 (o nell’art. 37-bis), e non nell’art. 373 cod. pen.

In tal modo aveva superato una delle obiezioni mosse dalla dottrina – e riproposta anche dai ricorrenti – per sostenere l’inapplicabilità dell’art. 377 cod. pen. nel caso di subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero; la proposta corruttiva del privato non può di certo mirare al confezionamento di una falsa perizia, punita dall’art. 373 cod. pen., perché il consulente tecnico del pubblico ministero non è un perito e non produce, dunque, alcuna perizia.

Nel concludere per la sostenibilità della costruzione del Giudice di primo grado, l’ordinanza di rimessione ritiene non accoglibili i rilievi dei ricorrenti nella parte in cui evidenziano che non sarebbe evocabile nemmeno l’art. 372 cod. pen., pure richiamato dall’art. 377 dello stesso codice.

La difesa degli imputati, in particolare, utilizza due argomenti a sostegno del suo ragionamento:

a) il consulente tecnico (al pari del perito) non è un testimone, non dovendo riferire su fatti, ma dovendo solo esprimere il suo sapere tecnico;

b) ai fini dell’assunzione da parte di un soggetto della veste di testimone occorre che il medesimo sia stato già citato a giudizio per rendere la sua dichiarazione.

Entrambi i rilievi vengono reputati dalla Sesta Sezione non dirimenti.

Quanto al primo, si evidenzia che al consulente tecnico (al pari del perito) si estendono le disposizioni sull’esame dei testimoni, a norma dell’art. 501 cod. proc. pen.; anche se il consulente tecnico non è un testimone (nel senso propriamente indicato dall’art. 194 cod. proc. pen.), e, quindi, non riferisce su “fatti” ma esprime valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze (v. art. 220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben può “affermare il falso o negare il vero”, secondo la previsione dell’art. 372 cod. pen., o “rendere dichiarazioni false”, secondo quella dell’art. 371-bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti.

Non si comprenderebbe del resto, ragionando ex adverso, il senso del richiamo fatto dal citato art. 501 alle regole sull’esame del testimone, tra cui vi è quella diretta al soggetto esaminato, per nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente tecnico, di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art. 198 cod. proc. pen.).

Anche l’individuazione della qualificazione soggettiva del consulente tecnico può contribuire a dimostrare l’assunto: il consulente tecnico, chiamato a collaborare con una parte privata, è tradizionalmente concepito come un soggetto che esprime un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore; quello nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un’attività di ausilio a una “parte” del processo, ripete dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati.

Quest’ultimo soggetto acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen.

Su lui grava di conseguenza il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e imparzialità, nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il ruolo e la funzione rivestiti gli impongono dunque il dovere di verità.

Anche sotto questo profilo, quindi, è del tutto razionale che a lui siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall’art. 372 cod. pen. (o, in sede di indagini, dall’art. 371-bis cod. pen.), ovviamente limitatamente a quella parte di attività che non contiene valutazioni tecnico-scientifiche, ma riporta l’esposizione circa la natura e la consistenza di queste.

Del resto – aggiunge ancora l’ordinanza – l’applicabilità della fattispecie di intralcio alla giustizia al consulente del pubblico ministero trova un addentellato letterale nel riferimento al “consulente tecnico” – inserito nel testo dell’art. 377 cod. proc. pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del d.l. n. 306 del 1992 -che si presta a essere riferito anche alla figura in esame.

L’opinione contraria espressa in dottrina – secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal d.l. n. 306 cit. riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile – si scontra sia con un’obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia soprattutto con una insuperabile considerazione sistematica: l’estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende positivamente dalla espressa previsione dell’art. 64, comma primo, cod. proc. civ., dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento al “perito”, contenuto nell’art. 373 cod. pen., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.

Quanto al secondo rilievo, l’ordinanza premette che non può negarsi che, nel caso in esame, il consulente del pubblico ministero non era ancora stato citato come testimone o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice.

Evidenzia, altresì, come, per la giurisprudenza dominante, la qualità di testimone, nel reato di cui all’art. 377 cod. pen., viene considerata assunta nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell’art. 468, comma 2, cod. proc. pen.

Quest’ultima affermazione, però, non sembra poter valere automaticamente nel caso in cui il soggetto su cui si esercita l’attività induttiva o violenta sia il consulente tecnico del pubblico ministero.

In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione riveste già una precisa veste processuale – quella, appunto, di consulente tecnico – potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-bis o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico.

In questa prospettiva, il reato potrebbe ritenersi configurabile nel caso di specie, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.).

Stante il contrasto tra tale prospettiva e il principio affermato dalla citata sentenza n. 4062 del 1999, la Corte ha ritenuto, pertanto, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 cod. proc. pen., sul quesito interpretativo già esposto sopra, aggiungendo in conclusione che ove si ritenesse non configurabile nella fattispecie concreta il reato di cui all’art. 377 cod. pen., in relazione all’art. 371-bis o all’art. 372 cod. pen. – sulla base dell’assunto per cui a tale soggetto non possano estendersi le dette fattispecie penali – verrebbe ovviamente in questione l’applicabilità nel caso in esame dell’art. 322, comma secondo, cod. pen., soluzione (privilegiata dal Procuratore Generale della Cassazione in sede di risoluzione di contrasto ex artt. 54 e segg. cod. proc. pen.) che però implicherebbe la valutazione dei profili di incostituzionalità già all’inizio delineati.

• Con decreto in data 25 marzo 2013 il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
• In prossimità della udienza la difesa di E. R. e ******** ha depositato una memoria ex art. 121 cod. proc. pen., con la quale si insiste per l’accoglimento del ricorso.
In primo luogo, nella memoria si sottolinea che l’art. 501 cod. proc. pen. estende ai consulenti tecnici le regole per l’esame testimoniale “in quanto applicabili”, con ciò evidenziando le precise differenze che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. In altre parole, se si può (e si deve) legittimamente pretendere che il consulente risponda secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone), la stessa pretesa non può, invece, esercitarsi con riferimento alle valutazioni tecniche vere e proprie (in quanto il consulente, allorquando formula un proprio personale giudizio, esprime una opinione, che, come tale, è incompatibile con un apprezzamento in termini di verità-falsità). Ne deriva che il consulente, allorquando riferisce i propri giudizi, non può mai rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza. E ciò è quanto, a detta dei ricorrenti, è avvenuto nel caso di specie ove l’oggetto della consulenza affidata dal Pubblico ministero al Comandante ******** era di tipo squisitamente valutativo (riferire se l’addestramento del copilota ********, morto insieme al Comandante ********* nell’incidente aereo del giugno 2003, poteva considerarsi idoneo).

In secondo luogo, nella memoria si contestano alcuni passi dell’ordinanza di rimessione. In particolare si segnala che là dove si sostiene che il consulente tecnico del pubblico ministero riveste già una precisa veste processuale “potenzialmente” destinata a rifluire sulla assunzione della qualità testimoniale ex artt. 371-bis o 372 cod. proc. pen., in realtà non si fa che ammettere che la qualità di testimone in capo al consulente tecnico (nella particolare fase del procedimento in cui si è consumata la condotta contestata) non era attuale, e si denuncia che, contrariamente a quanto affermato dalla Sesta Sezione, la qualità di consulente tecnico di parte nel nostro sistema è tutt’altro che immanente, ben potendo la persona fisica del consulente tecnico essere cambiata nel corso del giudizio un numero indeterminato di volte, poiché (a differenza del testimone) il suo contributo si traduce in una valutazione tecnica che può essere replicata all’infinito anche da soggetti diversi, purché dotati della necessaria competenza, e ben potendo la parte rinunciare al consulente tecnico ovvero divenire inutile la assunzione del consulente (ad esempio in caso di archiviazione, di proscioglimento in udienza preliminare, di applicazione “patteggiata” della pena).

Inoltre il richiamo della Sesta Sezione (anche) all’art. 371-bis cod. pen. sarebbe del tutto fuori luogo, in quanto i reati di cui agli artt. 371-bis e 372 cod. pen. sono tra loro perfettamente simmetrici e omogenei nel contenuto, colpendo le falsità e le reticenze di coloro che sono chiamati a riferire su fatti, rispettivamente nella fase delle indagini preliminari e in dibattimento.

In definitiva, si ribadisce che i soggetti passivi del delitto di intralcio alla giustizia possono essere soltanto i potenziali soggetti attivi dei reati-fine richiamati dalla norma incriminatrice {371-bis, 371-ter, 372 e 373 cod. pen.) e che, essendo pacifico che il consulente tecnico del pubblico ministero non può commettere né il reato di falsa perizia, non essendo perito, né quelli di cui agli artt. 371-bis, 371-ter e 372 cod. pen., trattandosi di soggetto il cui contributo processuale è quello di fornire opinioni a supporto di una tesi di parte (anche quando si tratta di parte pubblica), la fattispecie in esame non è inquadrabile nelle previsioni di cui all’art. 377 cod. pen.

Ribadita la impossibilità di ricondurre il caso in questione alla fattispecie di cui all’art. 322 cod. pen. per i motivi esposti in ricorso, i ricorrenti, sul presupposto che anche l’attività svolta dal consulente del pubblico ministero può essere definita a tutti gli effetti come attività di parte, ritengono che il reato che C., ove avesse accolto la promessa, avrebbe commesso deve individuarsi in quello di consulenza infedele, previsto dall’art. 380 cod. pen. e che la condotta degli imputati, essendosi concretata in una istigazione non accolta ex art. 115 cod. pen., non è penalmente rilevante.

La clausola di riserva contenuta nell’art. 115 cod. pen. («salvo che la legge disponga altrimenti») si riferisce, infatti, ad avviso dei ricorrenti, alle sole ipotesi in cui la legge ha espressamente elevato l’accordo o l’istigazione ad autonome figure di reato (come ad es. in materia di corruzione).

Qualora quest’ultima ricostruzione non fosse ritenuta condivisibile, l’unico sbocco processuale possibile, secondo i ricorrenti, sarebbe rappresentato dalla sottoposizione dell’art. 322 cod. pen. (fattispecie ritenuta dalla Corte di appello) al vaglio della Corte Costituzionale in relazione ai profili di illegittimità costituzionale già illustrati nel ricorso e nella stessa ordinanza di rimessione della Sesta Sezione penale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Premesso che l’oggetto del processo è costituito dalla condotta di alcuni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico del Pubblico ministero una somma di denaro (da quello simulatamente accettata) allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa, le Sezioni Unite sono chiamate a dare una qualificazione giuridica a detto fatto e, in particolare, a dare risposta alla questione: «se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza».

Come si è visto, il fatto di cui sopra nell’ambito del medesimo procedimento è stato variamente qualificato.

Dapprima il Pubblico ministero procedente e il Giudice per le indagini preliminari di Milano che ha disposto la misura cautelare hanno inquadrato il fatto nel delitto di corruzione in atti giudiziari, di cui all’art. 319-tercod. pen.

Poi il Tribunale del riesame ha ritenuto erronea tale qualificazione del fatto, sostenendo che, non essendosi conclusa la trattativa, il reato prospettabile era quello di istigazione alla corruzione, di cui all’art. 322 cod. pen.

Successivamente, su ricorso del Pubblico ministero, la Sesta Sezione penale ha ritenuto di poter sussumere il fatto storico nell’ipotesi delittuosa di tentativo di corruzione in atti giudiziari.

In sede di risoluzione della sollevata questione sulla competenza territoriale, il Procuratore ******** presso la Suprema Corte, ex art. 54-quater cod. proc. pen., ha poi risolto l’incidente, attribuendo la competenza alla Procura della Repubblica di Roma, sul presupposto che, qualificato come istigazione alla corruzione ex art. 322 cod. pen., il reato si era consumato in Roma.

A questo punto II Pubblico ministero di Roma, all’esito delle indagini, non ha però ritenuto di contestare la fattispecie delittuosa individuata dal Procuratore ******** presso la Corte di cassazione e ha esercitato l’azione penale nei confronti dei quattro imputati per il delitto di intralcio alla giustizia, ex art. 377 cod. pen., ritenuto commesso a Roma il 2 giugno 2006.

In sede di giudizio abbreviato, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, con sentenza del 26 novembre 2008, concordando sulla qualificazione giuridica proposta dal Pubblico ministero, ha condannato gli imputati alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale.

Infine la Corte di appello di Roma, il 2 maggio 2012, con sentenza pronunciata a seguito di gravame degli imputati, in riforma della sentenza di primo grado – riqualificata la condotta contestata ai sensi degli artt. 110 e 322 cod. pen. – ha determinato la pena, tenuto conto della diminuente del rito, in anni uno di reclusione ciascuno e ha revocato la pena accessoria.

La difesa degli imputati, di contro, nel ricorso in cassazione presentato non ritiene ravvisabile nella fattispecie in esame né il reato di cui all’art. 377 cod. pen. né quello di cui all’art. 322, comma secondo, cod. pen., sostenendo che ricorrerebbe, invece, la fattispecie di istigazione a commettere falsa consulenza (artt. 115, 380 cod. pen.), che, non essendo stata accolta, sarebbe comunque non punibile ex art. 115 cod. pen.

Da ultimo la Sesta Sezione penale della Corte di cassazione, nell’ordinanza del 14 marzo 2013 con la quale ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, rivalutando le conclusioni del primo Giudice, ha chiaramente inquadrato il fatto in esame nel reato di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 cod. pen.

2. Ciò posto, si impongono alcune precisazioni preliminari.

Occorre in primo luogo puntualizzare che non possono condividersi le conclusioni alle quali è pervenuta la Sesta Sezione penale, nell’ambito della stessa vicenda in esame, in sede di valutazione cautelare della posizione del coimputato ********* (sentenza n. 12409 del 06/02/2007, Rv. 236930), allorché ha ritenuto configurabile nella fattispecie in questione l’ipotesi di cui agli artt. 56 e 319-ter cod. pen. In mancanza di un accordo corruttivo, la condotta dell’istigatore, diretta a un soggetto che non l’accoglie, non può che essere ricondotta alla fattispecie di cui all’art. 322 cod. pen. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., si attaglia anche a quella di cui all’art. 319-ter cod. pen., posto che quest’ultimo articolo richiama «i fatti indicati negli articoli 318 e 319») ovvero, trattandosi di condotta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, all’art. 377 o all’art. 377-bis cod. pen.

In secondo luogo il fatto in esame non può essere neppure inquadrato, come sostenuto dai ricorrenti, nelle previsioni di cui agli artt. 115 e 380 cod. pen. (istigazione non accolta a commettere una falsa consulenza, condotta irrilevante sul piano penale). Nel caso di specie si tratta, infatti, di attività svolta dal consulente tecnico del Pubblico ministero, che, come si vedrà, assume caratteristiche particolari e non si presta ad essere definita come attività di parte, trattandosi di pubblico ufficiale che, una volta nominato, assume un ufficio che non può rifiutare ed esercita una funzione pubblica, collaborando non a tutelare gli interessi di una parte processuale ma ad accertare la verità. Inoltre l’inapplicabilità dell’ art. 115 cod. pen. discende dalla clausola di riserva con cui si apre proprio questa disposizione (“salvo che la legge disponga altrimenti”): l’istigazione, mediante offerta o promessa di denaro o di utilità ad un pubblico ufficiale è, infatti, punibile ai sensi dell’art. 322 cod. pen. e dell’art. 377 cod. pen.

3. Sgomberato il campo dalle predette opzioni interpretative, la questione ermeneutica sottoposta all’esame della Corte si concentra sull’applicabilità di una delle due fattispecie delittuose già sperimentate nel corso del procedimento di merito, e cioè l’istigazione alla corruzione o l’intralcio alla giustizia.

A fronte di un orientamento giurisprudenziale, espresso da un unico precedente, per altro non recente, della Sesta Sezione (sentenza n. 4062 del 07/01/1999, ***********, Rv. 214146), che aveva configurato il reato di istigazione alla corruzione nel caso di offerta o promessa di denaro o altra utilità fatta al consulente del pubblico ministero (nominato in fase di indagine e non ancora citato per il successivo eventuale dibattimento) affinché ammorbidisse gli esiti della sua relazione, l’ordinanza della medesima Sesta Sezione, con la quale è stata rimessa la questione alle Sezioni Unite, evidenzia come possibile una qualificazione alternativa del fatto in termini di intralcio alla giustizia ex art. 377 cod. pen.

Per la verità anche quell’unico precedente relativo ad una condotta di subornazione di un consulente del pubblico ministero (la sopra menzionata sentenza n. 4062, ***********) era pervenuto ad un approdo analogo a quello della ordinanza di rimessione. Infatti in quella sentenza si è affermato che tra il reato di istigazione alla corruzione propria di cui all’art. 322, comma secondo, cod. pen. e quello di subornazione, previsto dall’art. 377 cod. pen., nel testo risultante dall’art. 11, comma sesto, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, qualora l’attività illecita dell’agente si rivolga nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, intercorre un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cod. pen., in virtù del quale deve trovare applicazione solo l’art. 377 cod. pen., in relazione sia al profilo soggettivo, per la specificità della persona coinvolta (sempre che abbia già assunto la veste di testimone per effetto di citazione a comparire) sia al profilo oggettivo, per la specificità dell’atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, alla manipolazione dell’accertamento tecnico. Ne deriva che in realtà in detta sentenza *********** non viene nel caso di specie considerata applicabile la fattispecie di cui all’art. 377 cod. pen. solo per due concomitanti ragioni, e cioè perché il fatto storico era stato commesso prima della modifica del testo dell’art. 377 da parte del d.l. n. 306 del 1992 (e, quindi, quando ancora nell’articolo del codice non era indicato tra i possibili destinatari delle attività subornatrici il consulente tecnico) e perché il consulente tecnico non aveva ancora la veste di testimone per effetto della chiamata in dibattimento. In definitiva, in base al dictum della sentenza, il discrimine tra i due delitti va individuato proprio nell’essere stato o meno il consulente tecnico citato per essere sentito sul contenuto della consulenza: si applica l’art. 322 cod. pen. per le proposte corruttive avanzate al consulente tecnico del pubblico ministero fino a quando egli non sia citato in dibattimento per essere sentito; dopo la citazione, ogni azione allettatrice diventa invece sanzionabile ex art. 377 cod. pen. La citata sentenza non da, però, risposta, alla domanda relativa a quale sarebbe, nella prospettiva della applicabilità del delitto di cui all’art. 377 cod. pen, il reato al quale avrebbe teso l’azione subornatrice posta in essere nei confronti del consulente, limitandosi in un primo passo a fare esplicita, ma laconica, menzione al reato di cui all’art. 373 cod. pen. (falsa perizia) e in un altro passaggio a ricordare la possibilità di sentire il consulente tecnico in veste di testimone, con ciò implicitamente riferendosi al delitto di cui all’art. 372 cod. pen.

E’ da queste premesse che, come si è visto, muove la Sezione rimettente, nel tentativo – una volta rilevati possibili profili di incostituzionalità (per disparità di trattamento di situazioni analoghe e per irragionevolezza) ed evidenti irrazionalità sistematiche nel considerare inquadrabile il caso in esame nel delitto di istigazione alla corruzione , come ritenuto dalla sentenza della Corte di appello di Roma, oggetto del presente ricorso, ed affermato nel precedente di questa Cassazione più volte citato (sent. n. 4609 del 1999, ***********) – di rivalutare positivamente le conclusioni cui era pervenuto il Giudice di primo grado, quando aveva condannato gli imputati per il reato di intralcio alla giustizia.

Si tratta di un cammino non privo di ostacoli e di difficoltà ermeneutiche, che l’ordinanza di rimessione ha tentato via via di superare.

Così il reato-fine cui dovrebbe tendere l’attività subornatrice viene individuato non nella falsa perizia ma nel delitto di false informazioni al Pubblico Ministero o in quello di falsa testimonianza, con ciò rendendo vane le obiezioni mosse dalla dottrina e riproposte dai ricorrenti per sostenere la inapplicabilità dell’art. 377 cod. pen. nel caso di subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero per il mancato rispetto del principio di tassatività del precetto penale (non essendo il riferimento alla “perizia” estensibile alla “consulenza tecnica”).

Così si ricorda che al consulente tecnico (al pari del perito) si estendono le disposizioni sull’esame dei testimoni, a norma dell’art. 501 cod. proc. pen. e si puntualizza che, anche se il consulente tecnico non è un testimone (nel senso propriamente indicato dall’art. 194 cod. proc. pen.), e, quindi, non riferisce su “fatti” ma esprime valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze (v. art. 220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben può “affermare il falso o negare il vero”, secondo la previsione dell’art. 372 cod. pen., o “rendere dichiarazioni false”, secondo quella dell’art. 371-ò/s cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti.

E si sottolinea che, mentre il consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata è tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore, quello nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un’attività di ausilio a una “parte” del processo, ripete dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati, tanto è vero che acquista natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le attività affidategli dal pubblico ministero, con la conseguenza che su di lui grava il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e imparzialità, nel senso che la sua funzione è tesa all’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.).

Infine la sezione rimettente mostra di essere ben consapevole che un limite alla possibilità di sussumere la fattispecie concreta in quella astratta di cui all’art. 377 cod. pen, è rappresentato dal fatto che il consulente tecnico del pubblico ministero non aveva, (anche) nel caso di specie, ancora assunto la veste di testimone per non essere stato indicato nella lista testi ed ammesso, ex art. 468 comma 2, cod. proc. pen., né era stato citato dal pubblico ministero per rendere sommarie informazioni. Per questa ragione mette in luce le peculiarità del consulente tecnico del pubblico ministero, rispetto ai testimoni, trattandosi di soggetto che, indipendentemente dalla sua citazione, riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-bis o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico del pubblico ministero.

Ne discende la configurabilità del reato di cui all’art. 377 cod. pen. nel caso in esame, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371-bis cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.).

4. In realtà il percorso argomentativo dell’ordinanza di rimessione, pur in gran parte condivisibile, non appare interamente percorribile nel caso di specie.

Procedendo per gradi, deve preliminarmente ricordarsi che il delitto di intralcio alla giustizia esiste, con questa rubrica, nel nostro ordinamento giuridico dal marzo del 2006.

Tale reato, infatti, è stato introdotto dalla legge 16 marzo 2006, n. 46, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’ONU contro il crimine organizzato transnazionale (ed. Convenzione di Palermo o Toc Convention), che, all’art. 23, invitava gli Stati aderenti a punire, con sanzione penale, la ed. obstruction of justice, e cioè le condotte di violenza, minaccia, intimidazione, promessa, offerta di vantaggi considerevoli per indurre alla falsa testimonianza o comunque interferire nella produzione di prove anche testimoniali, nel corso di processi relativi ai reati oggetto della Convenzione, ovvero consistenti nell’uso di violenza, minaccia, intimidazione per interferire con l’esercizio di doveri d’ufficio da parte di un magistrato o di un appartenente alle forze di polizia, in relazione agli stessi reati.

Per adeguarsi a tale indicazione, il legislatore, preso atto che nel sistema italiano esisteva già una norma – l’art. 377 cod. pen. – che puniva l’offerta o la promessa di vantaggi nei confronti del testimone e che era rubricata come “subornazione”, con l’art. 14 della citata legge n. 146 è intervenuto sulla disposizione vigente, rinominando il già esistente delitto, appellandolo con il termine richiestoci dalla disposizione internazionale (e cioè come “intralcio alla giustizia”) e aggiungendo al testo vigente due ulteriori commi (gli attuali terzo e quarto) per punire le condotte di violenza e minaccia.

I primi due commi della nuova disposizione, quindi, continuano a punire le medesime condotte del delitto di subornazione secondo il testo che, rispetto alla stesura originaria del codice, era già stato due volte interpolato; una prima volta con l’art. 11, comma 6, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con modifiche dalla legge 7 agosto 1992, n. 356; una seconda con l’art. 22 legge 7 dicembre 2000, n. 397.

In particolare nel 1992 era stato completamente riscritto il comma primo dell’art. 377 cod. pen.; il testo licenziato dal codice del 1930 stabiliva «chiunque offre o promette denaro o altra utilità a un testimone, perito o interprete, per indurlo ad una falsa testimonianza perizia o interpretazione, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata alle pene stabilite negli art. 372 e 373 ridotte dalla metà a due terzi»; quello modificato, invece, affermava «chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria ovvero a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete, per indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis , 372 e 373, soggiace, qualora l’offerta e la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi».

L’innovazione, introdotta in un d.l. destinato al contrasto della criminalità mafiosa, aveva l’obiettivo di adeguare la precedente norma della subornazione all’introduzione, ad opera del medesimo provvedimento d’urgenza, di una nuova fattispecie di parte speciale, quale il delitto di false informazioni al pubblico ministero, di cui all’art. 371-bis cod. pen. Vi era cioè l’esigenza di inglobare nella fattispecie delittuosa il riferimento al nuovo delitto da ultimo indicato e ciò avvenne sostituendo la indicazione della figura del testimone – soggetto che, con il nuovo codice di rito, assumeva questo ruolo solo in dibattimento o nell’incidente probatorio – con la più elastica dizione di persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria. Si aggiungeva, inoltre, senza che i lavori preparatori ne spiegassero la ragione, nel novero dei possibili soggetti passivi la figura del consulente tecnico.

Con la successiva legge n. 397 del 2000, recante la disciplina delle ed. indagini difensive, ci si è limitati, invece, ad una mera interpolazione raccordata alla introduzione nel codice penale dell’art. 371-ter cod. pen., relativo alle false informazioni al difensore. Per completezza, è opportuno ricordare che con la legge 20 dicembre 2012, n. 237 (di ratifica dello Statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale permanente competente a conoscere del crimine di genocidio, ed. dell’Aja) si è ulteriormente interpolato l’art. 377: con l’art. 10, comma 8, della novella si è estesa la portata della fattispecie penale in commento all’ipotesi in cui l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità sia rivolta a persona chiamata a rendere dichiarazioni innanzi alla Corte dell’Aja.

Nessuna modifica è stata, invece, apportata dal legislatore all’art. 373 cod. pen., che, sotto la rubrica «Falsa perizia o interpretazione», punisce unicamente il perito o l’interprete che, nominato dall’autorità giudiziaria, dà parere o interpretazioni mendaci, o afferma fatti non conformi al vero.

5. Così ricostruito il quadro normativo, non può non evidenziarsi che, ai sensi del testo attuale dell’art. 377 cod. pen., destinatari dell’offerta o della promessa corruttiva sono, in primo luogo, le persone chiamate a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale e le persone richieste di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso della attività investigativa e, in secondo luogo, le persone chiamate a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete.

Se nessuna perplessità può esservi sull’individuazione del perito (si tratta di chi abbia una specifica competenza e, come tale, venga nominato dal giudice penale) e dell’interprete (colui che, conoscitore di lingua straniera o di un dialetto, rende comprensibili, volgendoli in italiano, una dichiarazione o uno scritto, e che, come tale, viene nominato dal giudice penale o civile), qualche dubbio è sorto con riferimento alla figura del consulente tecnico.

Di essa, come si è visto, non vi era alcuna menzione nel testo originario della norma, licenziato nel 1930 ed il riferimento è stato introdotto dal d.l. n. 306 del 1992, senza alcuna specificazione in ordine alla figura che si intendeva individuare, pur in presenza delle molte ipotesi di consulente tecnico previste nel nostro sistema processuale. Vi è, infatti, il consulente tecnico nominato nel processo civile dal giudice (art. 61 cod. proc. civ.), al quale si estendono le disposizioni del codice penale relative ai periti (art. 64, comma primo, cod. proc. civ.). Nel medesimo processo civile vi è poi il consulente che le parti processuali possono nominare per partecipare all’attività di consulenza disposta dal giudice (art. 201 cod. proc. civ.). Nel processo penale vi sono varie ipotesi di consulenza: i consulenti tecnici nominati dalle parti processuali (pubblico ministero e parti private) quando il giudice dispone la perizia (art. 225 cod. proc. pen.); quelli nominati, in funzione dibattimentale, dalle parti anche fuori dai casi di perizia (art. 233 cod. proc. pen.); quelli nominati in sede di indagini preliminari dal pubblico ministero (art. 359 e 360 cod. proc. pen.) o dal difensore delle parti private nell’ambito dello svolgimento delle attività difensive (art. 327-bis, comma 3, cod. proc. pen).

La dottrina, in modo assolutamente maggioritario, ritiene che il riferimento contenuto nell’art. 377 cod. pen vada letto come riguardante il solo consulente tecnico di ufficio nominato dal giudice civile, e ciò malgrado sia assolutamente fuori discussione che, già prima dell’intervento del d.l. n. 306 del 1992, questa figura poteva essere destinataria di un’attività subornatrice punibile, in quanto l’art. 64 cod. proc. civ. lo parifica ai fini della responsabilità penale al perito nominato dal giudice penale (v. Sez. 6, n. 14101 del 05/02/2007, ********, Rv. 236214). La disposizione del d.l. non avrebbe, in questa prospettiva, innovato, ma semplicemente confermato l’interpretazione già in precedenza proposta, con l’obiettivo di fugare ogni possibile dubbio ermeneutico. Non sarebbero, invece, possibili soggetti passivi dell’attività illecita punita dall’art. 377 cod. pen. i consulenti di parte e quelli nominati dal pubblico ministero, in quanto nei loro confronti non sarebbe ipotizzabile il delitto di cui all’art. 373 cod. pen.

Queste conclusioni, adombrate pure dai ricorrenti, trovano conforto anche nella giurisprudenza di questa Corte, che ha affermato che il reato di falsa perizia (art. 373 cod. pen.) non è configurabile con riferimento all’attività dei consulenti di cui possono avvalersi sia il difensore sia il pubblico ministero, desumendosi questa conclusione non solo dal principio di stretta legalità sancito dall’art. 2 cod. pen., che inibisce il ricorso all’interpretazione analogica, ma, indirettamente, anche dal fatto che in occasione delle modificazioni apportate dall’art. 11, comma 6, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, in tema di subornazione, era stato incluso tra le persone verso le quali si dirige l’opera del subornatore proprio il consulente tecnico: il che contribuiva a far ritenere che l’omessa indicazione del consulente tecnico nella norma dell’art. 373 cod. pen. fosse intenzionale (Sez. 6, n. 1096 del 26/03/1999, *******, Rv. 213681).

A parere del Collegio, effettivamente nella fattispecie qui considerata la norma richiamata dall’art. 377 cod. pen. in termini di direzione della condotta di intralcio non può essere, con riferimento al consulente tecnico nominato in sede penale, l’art. 373 dello stesso codice, che evoca, per quel che qui interessa, una “falsa perizia”, in quanto il consulente tecnico (anche quello del pubblico ministero e pur con le precisazioni di cui si dirà) non è un perito e non produce dunque una perizia. Certo è ben possibile pensare che vi sia stato un difetto di coordinamento tra l’inserimento nell’art. 377 cod. pen. ad opera del d.l. n. 306 del 1992 del riferimento al consulente tecnico e la mancata previsione di tale figura soggettiva nell’art. 373 cod. pen., ma il rispetto del principio di tassatività del precetto penale rende impossibile considerare il riferimento alla “perizia” come estensibile alla “consulenza tecnica”. A riprova della correttezza di questa conclusione va ricordato che il Progetto di riforma del codice penale elaborato dalla Commissione ministeriale presieduta dal prof. ******** nella parte relativa ai delitti contro l’amministrazione della giustizia ha previsto espressamente il reato di “falsa perizia, interpretazione o consulenza”, includendo tra i soggetti attivi di tale reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari (v. il relativo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale).

6. A questo punto resta da affrontare il quesito se, come ritenuto nel caso in esame dal Giudice di primo grado e come riaffermato nell’ordinanza di rimessione, il reato di intralcio alla giustizia sia configurabile, con riferimento alla figura del consulente tecnico, in relazione all’art. 372 (o all’art. 371-bis) cod. pen.

In questa prospettiva, il consulente tecnico del pubblico ministero, che non può commettere il reato di falsa perizia, può, invece, essere chiamato a rispondere del delitto di falsa testimonianza o di quello di false informazioni al pubblico ministero e, quindi, può ben essere destinatario di una condotta di intralcio alla giustizia.

In effetti, ad avviso del Collegio e con le precisazioni che si diranno, non sussistono reali ostacoli nel ritenere che il consulente tecnico del pubblico ministero possa commettere falsa testimonianza o false informazioni al pubblico ministero. La parificazione del consulente tecnico del pubblico ministero ad un testimone, nella prospettiva dibattimentale, trova un solido appiglio ermeneutico nell’art. 501 cod. proc. pen., norma che, estendendo al consulente tecnico (al pari del perito) le disposizioni sull’esame dei testimoni, ha già condotto la giurisprudenza di legittimità, in più occasioni, ad affermare che ai consulenti tecnici deve essere riconosciuta “sostanziale qualità di testimone” (in questo senso v. da ultimo Sez. 3, n. 8377 del 17/01/2008, Scarlassare, Rv. 239281).

Può, dunque, ben affermarsi che, anche se il consulente tecnico non è un testimone (nel senso propriamente indicato dall’art. 194 cod. proc. pen.), e, quindi, non riferisce su “fatti” ma esprime valutazioni su materie che richiedono specifiche competenze (v. art. 220 cod. proc. pen.), nondimeno egli ben può “affermare il falso o negare il vero”, secondo la previsione dell’art. 372 cod. pen., o “rendere dichiarazioni false”, secondo quella dell’art. 371-bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti.

Non si comprenderebbe del resto, ragionando ex adverso, il senso del richiamo fatto dal citato art. 501 alle regole sull’esame del testimone, tra cui vi è quella diretta al soggetto esaminato, per nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente tecnico, di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art. 198 cod. proc. pen.).

D’altra parte è pur vero che il consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata, è tradizionalmente concepito come un ruolo di ausilio alla difesa, donde la sua equiparazione, quanto a funzione e garanzie, al difensore. Anche il Giudice delle Leggi non ha mancato di ricordare (sentenza n. 33 del 1999) come la stretta correlazione tra le funzioni del consulente tecnico e il diritto di difesa dell’imputato sia stata ripetutamente affermata dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 345 del 1987 e n. 199 del 1974) nel contesto dell’abrogato codice del 1930, che dava ingresso al consulente tecnico della parte solo in occasione di incarico peritale disposto dal giudice e negava autonomo rilievo alla figura del consulente extraperitale, considerato semplice ausilio del difensore, incapace di compiere valutazioni tecniche dotate di un intrinseco valore probatorio, sicché le sue indicazioni si riducevano a mere sollecitazioni defensionali e non avevano la forza di penetrare nel processo se non attraverso la mediazione del giudice, a sua volta ritenuto peritus peritorum. E ha poi rimarcato come nell’attuale sistema quella correlazione si è vieppiù inverata. Il codice vigente, infatti, prevede la possibilità per le parti del processo penale di nominare consulenti tecnici anche nel caso in cui non sia stata disposta alcuna perizia (art. 233). E si tratta di previsione che, essendo consentito al giudice, come riconosce la giurisprudenza di legittimità, trarre elementi di prova dall’esame dei consulenti tecnici, la cui posizione viene assimilata a quella dei testimoni, vale a qualificare in modo ancor più evidente la loro attività come aspetto essenziale dell’esercizio del diritto di difesa in relazione alle ipotesi in cui la decisione sulla responsabilità penale dell’imputato comporti lo svolgimento di indagini o l’acquisizione di dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, secondo la formulazione dell’art. 220 cod. proc. pen. Del resto il compiuto processo di assimilazione della figura del consulente tecnico extraperitale a quella del difensore si delinea in maniera ancor più nitida alla luce di ulteriori elementi normativi, anche se in parte preesistenti: oltre agli artt. 380 e 381 del codice penale, che puniscono, insieme al patrocinio, la consulenza infedele, l’art. 103 del codice di procedura, che, sotto la significativa rubrica “Garanzie di libertà del difensore”, vieta, al comma 2, il sequestro presso il consulente di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa e, al comma 5, l’intercettazione relativa a conversazioni dei consulenti tecnici e loro ausiliari e a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, nonché l’art. 200, comma 1, lettera b), del medesimo codice di rito, che assicura anche ai consulenti tecnici la tutela del segreto professionale. Un unitario e sistematico insieme di disposizioni conduce insomma a riconoscere che la facoltà di avvalersi di un consulente tecnico si inserisce a pieno titolo nell’area di operatività della garanzia posta dall’art. 24 della Costituzione e che le prestazioni del consulente della parte privata ineriscono all’esercizio del diritto di difesa, tanto che la Consulta, con la citata sentenza n. 33 del 1999, ha riconosciuto ai non abbienti la facoltà di farsi assistere a spese dello Stato da un consulente per ogni accertamento tecnico ritenuto necessario.

Ma è altrettanto vero che, nel nostro sistema processuale, il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero, sia pure prestando un’attività di ausilio a una “parte” del processo, si staglia dalla figura generale e presenta specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell’organo che coadiuva i relativi connotati. Egli acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. (Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, Tauzilli, Rv. 204516; Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, ***********, Rv. 214142, ***********; e, argomentando a contrario, Sez. 6, n. 5901 del 22/01/2013, Anello, Rv. 254308), concorre oggettivamente all’esercizio della funzione giudiziaria e ha il dovere, connaturato a ogni parte pubblica, di obiettività e “imparzialità”, nel senso che la sua funzione è tesa al raggiungimento di interessi pubblici, quale, in primis, l’accertamento della verità, posto che il pubblico ministero deve svolgere indagini su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta alle indagini (art. 358 cod. proc. pen.). Il ruolo e la funzione rivestiti gli impongono il dovere di verità. Egli inoltre non può rifiutare la sua opera (come testualmente recita l’ultima parte del comma 1 dell’art. 359 cod. proc. pen.) ed è tra i soggetti destinatari dell’art. 384 cod. pen., che, al suo secondo comma, così recita: «Nei casi previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione». E’ chiaro che questa norma, nel dettare i casi di non punibilità e nel prevedere anche la figura del consulente tecnico, non potendo questi commettere, per i motivi già esposti, il reato di cui all’art. 373 cod. pen., riferisce al consulente proprio i residui reati di cui agli artt. 371-bis e 372 cod. pen. (essendo ad esso inapplicabile l’art. 371-ter cod. pen., che riguarda le false dichiarazioni al difensore).

Per le argomentazioni sopra svolte deve concludersi che appare del tutto razionale che al consulente tecnico del pubblico ministero siano applicabili le conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall’art. 372 cod. pen. (o, in sede di indagini, dall’art. 371-bis cod. pen.), ovviamente limitatamente a quella parte di attività che non contiene valutazioni tecnico-scientifiche, ma riporta l’esposizione circa la natura e la consistenza di queste.

A riprova di ciò sta, del resto, anche il dato letterale della norma: il riferimento al “consulente tecnico” – inserito nel testo dell’art. 377 cod. proc. pen., senza ulteriori specificazioni, ad opera del d.l. n. 306 del 1992 – si presta senz’altro a essere rapportato anche alla figura di cui ci si occupa. L’opinione contraria, espressa, come si è visto, in dottrina e prospettata inizialmente pure dai ricorrenti, secondo cui il riferimento al consulente tecnico inserito dal citato d.l. n. 306 riguarderebbe solo quello nominato dal giudice civile, si scontra sia con un’obiezione formale (una simile specificazione non è indicata dalla norma) sia, soprattutto, con una insuperabile considerazione sistematica (l’estensione al consulente tecnico in sede civile delle disposizioni penali relative ai periti discende positivamente dalla espressa previsione dell’art. 64, comma primo, cod. proc. civ., dovendosi essa dunque apprezzare, ove questo ne fosse il senso, chiaramente superflua; tanto che si è sempre ritenuto che il riferimento al “perito”, contenuto nell’art. 373 cod. pen., debba intendersi fatto anche al consulente del giudice civile, proprio in forza del citato art. 64 cod. proc. civ.).

Le conclusioni alle quali si è pervenuti, contrariamente a quanto sostenuto nella memoria difensiva depositata nell’interesse dei ricorrenti, tengono adeguatamente conto del fatto che l’art. 501 cod. proc. pen. estende ai consulenti tecnici le regole per l’esame testimoniale “in quanto applicabili” e non ignorano le precise differenze che intercorrono tra la posizione del consulente tecnico e quella del testimone. Del resto, come pure la difesa dei ricorrenti ammette, anche il consulente deve rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche (in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone).

7. Resta da esaminare la problematica posta dal fatto che, nel caso in esame, il consulente tecnico del Pubblico ministero non si era ancora, per così dire, “trasformato” in testimone, non essendo ancora stato citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice.

Come si è visto, la più volte citata sentenza *********** del 1999, pur ritenendo configurabile in una fattispecie simile il reato di cui all’art. 377 cod. pen., ne aveva escluso la sussistenza nel caso concreto, in quanto il consulente tecnico del Pubblico ministero, nel momento in cui era stata realizzata la condotta illecita, non aveva già assunto “la veste di testimone per effetto di citazione a comparire”.

In base all’indirizzo prevalente di dottrina e giurisprudenza (Sez. 3, n. 2055 del 13/12/1996, Elmir, Rv. 207282; Sez. 6, n. 2713 del 11/12/1996, *******, Rv. 207166; Sez. 6, n. 35837 del 23/05/2001, *****, Rv. 220593; Sez. 6, n. 35150 del 26/06/2009, Manto, Rv. 244699; Sez. 6, n. 45626 del 25/11/2010, Z., Rv. 249321; e soprattutto Sez. U, n. 37503 del 30/10/2002, Vanone, Rv. 222347), perché si possa configurare il delitto di cui all’art. 377 cod. pen. è necessario che i destinatari della condotta abbiano già assunto, formalmente, nel momento in cui la condotta stessa viene posta in essere, la qualifica processuale. E la qualità di testimone, nel reato di cui all’art. 377 cod. pen., viene considerata assunta nel momento dell’autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in questa veste, ai sensi dell’art. 468, comma 2, cod. proc. pen. (v. in particolare: Sez. U, n. 37503 del 2002, Vanone, cit, e, con riguardo al simile reato di cui all’art. 377-bis cod. pen., Sez. 6, n. 45626 del 2010, Z., cit.).

Tuttavia, ad avviso del Collegio, le peculiarità della figura del consulente tecnico del pubblico ministero fanno propendere, nell’ipotesi in cui sia questo il soggetto su cui si esercita l’attività induttiva o violenta, verso una diversa soluzione.

In questa evenienza, infatti, il soggetto in questione, come si è già visto, riveste la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio; ha, in quanto tale, il dovere di obiettività ed imparzialità; e non può esimersi dal dire la verità. Proprio per queste sue caratteristiche, il consulente tecnico, con la nomina ad opera del pubblico ministero, riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull’assunzione della qualità “testimoniale” ex artt. 371-6/s o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica.

In questa prospettiva e in sostanziale accordo con le conclusioni dell’ordinanza di rimessione, deve concludersi che il reato di cui all’art. 377 cod. pen. é in astratto configurabile nella fattispecie in esame, essendo stata la condotta contestata esercitata per influire sui risultati di una consulenza tecnica, destinati a essere falsamente rappresentati al pubblico ministero (art. 371-6/s cod. pen.) o successivamente al giudice (art. 372 cod. pen.).

D’altra parte anche nella giurisprudenza di legittimità in materia non sono mancati recentemente segni di revisione e approcci più “sostanzialistici”, essendosi ritenuto «configurabile il delitto di subornazione anche con riferimento alle pressioni e alle minacce esercitate su colui che abbia reso dichiarazioni accusatorie nella fase delle indagini preliminari al fine di indurlo alla ritrattazione in vista dell’acquisizione, da parte sua, della qualità di testimone nel celebrando dibattimento» (Sez. 1, n. 6297 del 10/12/2009, ********, Rv. 246107).

8. Tuttavia deve rilevarsi che il reato di cui all’art. 377 cod. pen., pur in astratto configurabile, per le ragioni sopra espresse, nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sull’attività di consulenza qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto di essa, non può essere in alcun modo ravvisato nella concreta fattispecie oggetto del presente giudizio.

Deve infatti ribadirsi che il consulente tecnico del pubblico ministero, pur non essendo un testimone nel senso propriamente indicato dall’art. 194 cod. proc. pen., ben può “affermare il falso o negare il vero”, secondo la previsione dell’art. 372 cod. pen., o “rendere dichiarazioni false”, secondo quella dell’art. 371-bis cod. pen., ad esempio tacendo o alterando determinati esiti obiettivi degli accertamenti espletati, escluso, beninteso, ogni sindacato su aspetti meramente valutativi relativi a detti accertamenti. In definitiva, il consulente tecnico del pubblico ministero è senz’altro tenuto a rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche, in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone. Ciò però non vale, ovviamente, per le vere e proprie valutazioni tecnico-scientifiche, in quanto il consulente, allorquando formula un proprio personale giudizio, esprime una opinione, che, come tale, è incompatibile con un apprezzamento in termini di verità-falsità. Conseguentemente quando il consulente nominato dal pubblico ministero riferisce propri giudizi (solo a lui consentiti e, invece, rigorosamente preclusi al testimone) non può certamente rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza.

Nel caso di specie è indubbio che l’oggetto della consulenza affidata dal Pubblico ministero al Comandante ******** era di tipo squisitamente valutativo (riferire se l’addestramento del copilota ********, morto insieme al Comandante ********* nell’incidente aereo del giugno 2003, poteva considerarsi idoneo). Sì trattava, cioè, di una tipica valutazione, affidata dal Pubblico ministero alla competenza ed alla professionalità del consulente prescelto, ritenuto fornito di idoneo bagaglio tecnico-scientifico e di elevata qualificazione professionale.

Conseguentemente nel particolare caso sottoposto all’esame della Corte la condotta ascritta agli imputati (avere dato ad un consulente tecnico nominato dal Pubblico ministero una somma di denaro – da questi simulatamene accettata -allo scopo di fargli predisporre una consulenza falsa) non può rientrare nelle previsioni di cui all’art. 377 cod. pen.

9. In base alle argomentazioni sopra svolte, deve concludersi nel senso che l’unica disposizione applicabile al caso in esame è quella di cui all’art. 322, comma secondo, cod. pen, norma generale rispetto a quella di cui all’art. 377 dello stesso codice; soluzione, come si è visto, privilegiata dal Procuratore Generale in sede di risoluzione di contrasto ex artt. 54 ss. cod. proc. pen. e seguita dalla Corte di appello di Roma nella sentenza impugnata.

Infatti il Collegio aderisce sul punto alle conclusioni cui è già pervenuta questa Corte nella precedente e più volte citata sentenza *********** del 1999, ove si é ineccepibilmente chiarito che tra il reato di istigazione alla corruzione propria di cui all’art. 322, comma secondo, cod. pen. e quello di intralcio alla giustizia di cui all’art. 377 dello stesso codice, qualora l’attività illecita dell’agente si rivolga nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, intercorre un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cod. pen., in virtù del quale – se non vi ostassero le ragioni indicate al punto che precede – si giustificherebbe la applicabilità del solo art. 377 cod. pen. in relazione sia al profilo soggettivo per la specificità della persona coinvolta sia al profilo oggettivo per la specificità dell’atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, ad una illegittima manipolazione dell’accertamento tecnico.

10. Si tratta, però, di una soluzione che – sebbene imposta per essere, come si è visto, l’art. 322, comma secondo, cod. pen. l’unica norma applicabile al caso concreto – presenta, ad avviso del Collegio, innegabili profili di incostituzionalità.

L’offerta di denaro o di altra utilità al consulente del pubblico ministero (pubblico ufficiale) per il compimento di una falsa consulenza risulta punita più gravemente dell’analoga condotta diretta a un perito, che rientra pacificamente, per il principio di specialità, nell’art. 377, comma primo, cod. pen. Nella prima ipotesi, infatti, per il combinato disposto degli artt. 319 e 322 cod. pen. (nella formulazione vigente prò tempore, prima della riforma recata dalla legge n. 190 del 2012), sarebbe irrogabile la reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi; nella seconda, invece, per il combinato disposto degli artt. 372, 373 e 377 cod. pen., la reclusione da otto mesi a tre anni.

Inoltre la medesima offerta corruttiva attuata nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza nell’ambito di un processo penale risulta punita più severamente rispetto a quella del tutto analoga realizzata nei confronti del consulente tecnico del giudice civile. Anche in questo caso, infatti, la prima condotta sarebbe inquadrabile nella istigazione alla corruzione e la seconda nell’intralcio alla giustizia con le inspiegabili disparità in fatto di pena sopra indicate.

A parte il fatto che, seguendo la ricostruzione sopra svolta, si verificano ulteriori profili di disparità di trattamento (e di sostanziale irragionevolezza), in quanto l’offerta corruttiva nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero chiamato a esprimere valutazioni tecnico-scientifiche (giudizi), inquadrabile, come nel caso in esame, nella fattispecie di istigazione alla corruzione, sarebbe punita più gravemente rispetto ad analoga condotta esercitata nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero chiamato semplicemente a descrivere i fatti accertati senza addentrarsi in valutazioni o giudizi, per la quale sarebbe configurabile invece il delitto di intralcio alla giustizia.

Si tratta di conseguenze paradossali e violatrici del principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe vengono inspiegabilmente disciplinate sul piano del trattamento sanzionatorio in termini differenti.

Vi è poi l’ulteriore paradosso per cui solo la particolare e neppure più grave forma di intralcio alla giustizia oggetto dell’attuale processo (offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza nei suoi termini valutativi e espressivi di giudizi) non è ricompresa nella specifica ripartizione del codice dedicata ai delitti contro l’amministrazione della giustizia, rimanendo confinata tra i delitti contro la pubblica amministrazione.

Preso atto dell’inerzia del legislatore, che non ha ritenuto di intervenire sull’art. 373 cod. pen. (per prevedervi anche la falsa consulenza, includendo tra i soggetti attivi del reato anche il consulente tecnico nominato dal pubblico ministero) e neppure di inserire tra i reati contro l’amministrazione della giustizia un apposito delitto che punisca la condotta di intralcio alla giustizia esercitata specificamente nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, non resta che rilevare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 322, comma secondo, cod. pen., in riferimento all’art. 3 Cost, sotto il duplice profilo della inspiegabile disparità di trattamento di situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.

La rilevanza della questione discende, come si è visto, da tutte le considerazioni sopra svolte, che portano a concludere che l’unica disposizione applicabile alla particolare fattispecie sottoposta all’esame della Corte è appunto l’art. 322, comma secondo, cod. pen., con gli inevitabili profili di contrasto con l’art. 3 Cost. di cui si è detto.

La questione di costituzionalità sollevata impone la sospensione del giudizio in corso. La Cancelleria provvederà a notificare la presente ordinanza ai ricorrenti, al Procuratore ******** presso la Corte di cassazione e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e a comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

P.Q.M.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 322, comma secondo, cod. pen., in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui per l’offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all’art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all’art. 373 cod. pen.

Sospende il giudizio in corso; ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata ai ricorrenti, al Procuratore ******** presso la Corte di cassazione e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Così deciso il 27/06/2013.

Redazione