Fallimento: la durata delle procedure fallimentari può superare anche il termine di sette anni (Cass. n. 15671/2012)

Redazione 18/09/12
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE

Ritenuto che G. e T.C. e A.M., con ricorso del 23 dicembre 2010, hanno impugnato per cassazione – deducendo quattro motivi di censura -, nei confronti del Ministro della giustizia, il decreto della Corte d’Appello di Caltanissetta depositato in data 5 maggio 2010, con il quale la Corte d’appello, pronunciando sul ricorso dei predetti ricorrenti – volto ad ottenere l’equa riparazione dei danni non patrimoniali ai sensi della L. 24 marzo 2001, n.89, art.2, comma 1 -, in contraddittorio con il Ministro della giustizia – il quale ha concluso per l’inammissibilità o per l’infondatezza del ricorso -, ha condannato il resistente a pagare in favore di G. e T.C. la somma di Euro 8.400,00 ciascuno, e in favore di A.M. la somma di Euro 6.200,00, condannando altresì il resistente alle spese del giudizio, previa compensazione delle stesse per due terzi;

che il Ministero della giustizia, ritualmente intimato, ha depositato atto di costituzione;

che, in particolare, la domanda di equa riparazione del danno non patrimoniale – richiesto per l’irragionevole durata del processo presupposto nella rispettiva misura di Euro 26.000,00 e di Euro 20.000,00 – proposta con distinti ricorsi del 14 gennaio 2009, era fondata sui seguenti fatti:

a) i T. in proprio e la società di fatto tra gli stessi erano stati dichiarati falliti dal Tribunale di Marsala con sentenza del 16 luglio 1991, e la dichiarazione di fallimento era stata estesa a A.M., madre di *****, con sentenza del 18 aprile 1994;

b) la procedura fallimentare non si era ancora conclusa alle date di presentazione dei ricorsi per equa riparazione;

che la Corte d’Appello di Caltanissetta, con il suddetto decreto impugnato, ha affermato che:

a) la procedura fallimentare in questione, per le vicende processuali occorse nel corso della procedura (sono stati dichiarati esecutivi quattro stati passivi, ivi compreso quello della società di fatto; vi sono state numerose ammissioni tardive al passivo, protrattesi fino al 2002; è stata proposta e definita un’opposizione allo stato passivo; è insorta controversia tra il Fallimento e l’ A., avente ad oggetto una pensione di quest’ultima acquisita all’attivo fallimentare; i T. hanno formulato domanda di concordato, poi revocata nel 2003; v’è stato un intervento del curatore in un procedimento esecutivo immobiliare; dopo numerose trattative si è proceduto alla vendita dei cespiti immobiliari con decreti di trasferimento emanati nel 2009), deve qualificarsi di complessità tale, da richiedere un termine di ragionevole durata di nove anni e sei mesi;

b) conseguentemente – a fronte di una durata complessiva della procedura fallimentare di diciassette anni e sei mesi – il periodo di irragionevole durata deve essere determinato in otto anni, per i T., e in cinque anni e due mesi per l’ A.;

c) l’indennizzo va fissato in Euro 9.600,00 ciascuno per i T. ed in Euro 6.200,00 per l’ A., calcolati su base annua di Euro 1.200,00;

che il Collegio, all’esito della odierna Camera di consiglio, ha deliberato di adottare la motivazione semplificata.

Considerato che, con i quattro motivi del ricorso, i ricorrenti criticano il decreto impugnato, anche sotto il profilo del vizio di motivazione, sostenendo che i Giudici a quibus:

a) hanno erroneamente ed immotivatamente stabilito il termine di durata ragionevole in nove anni e sei mesi;

b) hanno liquidato un indennizzo annuo di Euro 1.200,00, inferiore ai parametri normalmente utilizzati dalla Corte EDU;

c) hanno illegittimamente ed immotivatamente liquidato le spese di giudizio, previa compensazione delle stesse, violando altresì la tariffa forense;

che la censura sub a) è infondata;

che infatti, alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte, la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non dovrebbe superare la durata complessiva di sette anni (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 22408 e 8047 del 2010), ciò in quanto, tenendo conto della peculiarità del procedimento fallimentare, il termine di tre anni, che può ritenersi normale in procedura di media complessità, è stato ritenuto elevabile fino a sette anni allorquando il procedimento si presenti particolarmente complesso (cfr. la sentenza n. 20549 del 2009), ipotesi questa che è ravvisabile in presenza di un numero particolarmente elevato dei creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura ma autonomi e quindi a loro volta di durata vincolata alla complessità del caso, della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti;

che la giurisprudenza di questa Corte ha ulteriormente precisato che:

a) la complessità della procedura fallimentare, la cui durata sia stata condizionata da altro procedimento, è rilevante ai fini della liquidazione dell’indennizzo, in quanto al tempo ordinario della procedura fallimentare (tre anni) deve aggiungersi quello relativo all’altro procedimento (nella specie, è stato cassato il decreto impugnato, che aveva rigettato la domanda, ed è stato ritenuto, nel merito, che, in mancanza dell’acquisizione di specifici elementi di valutazione al riguardo, la durata di un procedimento fallimentare dovesse essere ragionevolmente contenuta in sette anni, tenuto conto del tempo occorso per il procedimento di insinuazione del fallimento al passivo di un altro fallimento, che ragionevolmente non poteva ritenersi superiore a tre anni, parzialmente sovrapponibili alla procedura concorsuale in senso stretto: ordinanza n. 5316 del 2011);

b) stabilendo la L. 24 marzo 2001, n.89, art.2, comma 2, che, nell’accertare la violazione, il giudice deve considerare la complessità del caso attraverso un esame analitico e non con la mera enunciazione dei vari sub-procedimenti o di altre evenienze processuali, è necessario accertare analiticamente quale sia stato il tempo impiegato per portare a conclusione ciascuno dei detti sub- procedimenti, se – in considerazione della obiettiva difficoltà ed alla mole dei necessari incombenti – la durata di ciascun sub- procedimento sia stata ragionevole o meno e, nella ipotesi di durata da ritenersi eccessiva, quanta parte sia imputabile al comportamento delle parti e quanta al comportamento del giudice o di altri organi della procedura o a disfunzioni dell’apparato giudiziario (cfr. la sentenza n.950 del 2011);

che, nella specie, i Giudici a quibus, in conformità con tali principi, hanno innanzitutto – come già rilevato (sono stati dichiarati esecutivi quattro stati passivi, ivi compreso quello della società di fatto; vi sono state numerose ammissioni tardive al passivo, protrattesi fino al 2002; è stata proposta e definita un’opposizione allo stato passivo; è insorta controversia tra il Fallimento e l’ A., avente ad oggetto una pensione di quest’ultima acquisita all’attivo fallimentare; i T. hanno formulato domanda di concordato, poi revocata nel 2003; v’è stato un intervento del curatore in un procedimento esecutivo immobiliare; dopo numerose trattative si è proceduto alla vendita dei cespiti immobiliari con decreti di trasferimento emanati nel 2009) – descritto minuziosamente le vicende processuali che hanno connotato la procedura fallimentare de qua, pervenendo ad una determinazione della durata ragionevole della stessa procedura in nove anni e sei mesi, con motivazione corretta e priva di errori logico-giuridici;

che la censura sub b) è inammissibile, per carenza di interesse a proporla;

che infatti il consolidato orientamento di questa Corte è nel senso che, sussistendo il diritto all’equa riparazione per il danno non patrimoniale di cui alla L. n.89 del 2001, art.2 e fermo restando il periodo di tre anni di ragionevole durata per il giudizio di primo grado (nella specie, sei e dieci anni), si considera equo, in linea di massima, l’indennizzo di Euro 750,00 per ciascuno dei primi tre anni di irragionevole durata e di Euro 1.000,00 per ciascuno dei successivi anni;

che, sulla base di tale orientamento, agli odierni ricorrenti sarebbe spettato un indennizzo pari, rispettivamente, ad Euro 7.250,00 a fronte dei riconosciuti Euro 9.600,00, e ad Euro 4.400,00 a fronte dei riconosciuti 6.200,00;

che la censura sub c) è complessivamente infondata;

che è innanzitutto priva di fondamento la critica alla disposta compensazione delle spese processuali;

che l’art.92 cpc, comma 2 – nel testo vigente, modificato dalla L. 18 giugno 2009, n.69, art.45, comma 11, entrato in vigore il 4 luglio 2009, applicabile ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore, ai sensi della L. n.69 del 2009, art.58, comma 1 – stabilisce: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”;

che lo stesso art.92 cpc, comma 2 – nel testo previgente, sostituito dalla L. 28 dicembre 2005, n.263, art.2, comma 1, lett. a), entrato in vigore il 1 marzo 2006, ai sensi del D.L. 30 dicembre 2005, n. 273, art.39-quater, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 febbraio 2006, n.51, art.1, comma 1, applicabile ai procedimenti instaurati successivamente a tale data di entrata in vigore (L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 4) – stabiliva: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”;

che, nella specie, si applica l’art.92 cpc, comma 2, nella formulazione previgente, perchè il processo per equa riparazione de quo è stato promosso anteriormente al 4 luglio 2009;

che, riguardo al previgente testo dell’art.92 cpc, questa Corte ha enunciato i consolidati principi di diritto, secondo i quali:

a) nel regime anteriore a quello introdotto dalla L. n.263 del 2005, art.2, comma 1, lett. a), il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale, anche se, a tal fine, non è necessaria l’adozione di motivazioni specificamente riferite a detto provvedimento purchè, tuttavia, le ragioni giustificatrici dello stesso siano chiaramente e inequivocabilmente desumibili dal complesso della motivazione adottata a sostegno della statuizione di merito (o di rito), con la conseguenza che deve ritenersi, assolto l’obbligo del giudice anche allorchè le argomentazioni svolte per la statuizione di merito (o di rito) contengano in sè considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la regolazione delle spese adottata, come – a titolo meramente esemplificativo – nel caso in cui si da atto, nella motivazione del provvedimento, di oscillazioni giurisprudenziali sulla questione decisiva, ovvero di oggettive difficoltà di accertamenti in fatto, idonee a incidere sulla esatta conoscibilità a priori delle rispettive ragioni delle parti, o di una palese sproporzione tra l’interesse concreto realizzato dalla parte vittoriosa e il costo delle attività processuali richieste, ovvero, ancora, di un comportamento processuale ingiustificatamente restio a proposte conciliative plausibili in relazione alle concrete risultanze processuali (cfr., ex plurimis, la sentenza delle sezioni unite n. 20598 del 2008);

b) in tema di compensazione delle spese processuali ai sensi dell’art.92 cpc, (nel testo anteriore a quello introdotto dalla L. n.263 del 2005), poichè il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altre giuste ragioni, che il giudice di merito non ha obbligo di specificare, senza che la relativa statuizione sia censurabile in cassazione, poichè il riferimento a “giusti motivi” di compensazione denota che il giudice ha tenuto conto della fattispecie concreta nel suo complesso, quale evincibile dalle statuizioni relative ai punti della controversia (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 20457 del 2011);

che, nella specie, i Giudici a quibus, in sostanziale conformità con i su riportati – e condivisi – principi di diritto, hanno legittimamente compensato per due terzi le spese del giudizio, sulla base del decisivo ed esplicitato rilievo che le domande dei ricorrenti sono state accolte solo parzialmente;

che, infatti, le domande dei ricorrenti, di indennizzo di Euro 26.000,00 e di Euro 20.000,00, sono state accolte solo nella misura di Euro 9.600,00 e di Euro 6.200,00;

che, inoltre, la liquidazione complessiva delle spese – pari ad Euro 1.283,95, di cui Euro 100,00 per esborsi, Euro 692,40 per diritti ed Euro 360,00 per onorari – non viola i minimi tariffari quanto ai diritti ed agli onorari;

che, al riguardo, questa Corte ha più volte affermato che, anche se la liquidazione delle spese processuali non può essere compiuta in modo globale per spese, competenze di procuratore e avvocato, dovendo invece essere eseguita in modo tale da mettere la parte interessata in grado di controllare se il giudice abbia rispettato i limiti delle relative tabelle, così da darle la possibilità di denunciare le specifiche violazioni della legge o delle tariffe, nondimeno non è ammissibile, per carenza di interesse, censurare tale liquidazione ove non sia stato specificamente comprovato che la liquidazione globale arreca un pregiudizio alla parte vittoriosa, in quanto attributiva di una somma inferiore ai minimi inderogabili, essendo quindi irrilevante la mera allegazione della violazione dei criteri per la liquidazione delle spese (cfr., ex plurimis, le sentenze n.5318 dell’8 marzo 2007 e n.16390 del 14 luglio 2009);

che nella specie – a fronte delle spese liquidate dai Giudici a quibus nella su indicata misura – i minimi tariffari, per il valore della causa de qua, prevedono Euro 600,00 per diritti ed Euro 490,00 per onorari (oltre Euro 50,00 per esborsi normalmente liquidati da questa Corte), per l’importo complessivo di Euro 1.140,00, che risulta dunque inferiore a quello riconosciuto dalla Corte territoriale, con la conseguenza che, in conformità ai menzionati e qui ribaditi principi di diritto, avrebbe dovuto essere specificamente comprovato che la liquidazione globale arreca un pregiudizio alla parte vittoriosa;

che, tenuto conto che il Ministero della giustizia ha depositato soltanto atto di costituzione, non sussistono i presupposti per provvedere sulle spese del presente grado di giudizio.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Redazione