Reato di riduzione in schiavitù ed impiego di lavoratori clandestini (Cass. pen., n. 251/2012)

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Massima

La previsione di cui all’art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento.

 

1. Premessa

 

La pronuncia in esame si occupa del delitto di riduzione in schiavitù, regolato dall’art. 600 c.p.

Giova riflettere che la “condizione analoga alla schiavitù” risale al diritto giustinianeo, che riferiva il concetto alla “servitù della gleba”, cui erano soggetti i lavoratori agricoli dei latifondi dell’impero bizantino, incapaci di sottrarsi alla loro condizione. Ad esso si rifaceva il Codice positivista, perciò limitandosi ad una previsione alternativa sintetica, la cui specificazione di contenuto era offerta da norme internazionali, fatte proprie dallo Stato italiano nel 1926. A tali norme internazionali sono seguite quelle della Convenzione supplementare di Ginevra del 7.9.56, resa esecutiva con L. n. 1304 del 1957, ed infine l’art. 4 CEDU (Cass. pen., Sez. V, n. 18072 del 2010), cui si è adeguata la novella del Codice. La L n. 228 del 2003, art. 1, ha modificato l’art. 600 c.p., offrendo in effetti con la sua specificazione una interpretazione autentica della locuzione “condizione analoga alla schiavitù”, che non risulta per nulla discorde dalla giurisprudenza formatosi intorno alla lettera previgente.

La nuova giurisprudenza ha difatti solo dato corpo casistico ai caratteri differenziali delle singole condotte confluenti nella riduzione in stato di soggezione delle persone private di fatto delle libertà fondamentali, esclusa l’attribuzione categorica della schiavitù, oggi giuridicamente irriconoscibile in qualsiasi ordinamento.

L’evento di riduzione o mantenimento di persone in stato di soggezione consiste comunque nella privazione della libertà individuale cagionata con minaccia, violenza, inganno o profittando di una situazione di, inferiorità psichica o fisica o di necessità.

Pertanto, nel caso dello sfruttamento delle prestazioni altrui, la condotta criminosa non si ravvisa per sè nell’offerta di lavoro implicante gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, poi neanche versato, sol che la persona si determini liberamente ad accettarla, ma può sottrarvisi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue.

 

2. Rassegna giurisprudenziale: delitto di riduzione in schiavitù e rapporto di lavoro

Il mero profittare dell’attività lavorativa altrui, ancorché svolta in condizioni di accentuato disagio e sfruttamento, se non accompagnato da uno stato di effettiva soggezione con privazione della libertà individuale, non integra il reato di riduzione in schiavitù. Nella specie, la Suprema corte ha annullato senza rinvio la sentenza di merito, ritenendo che la mancanza di qualunque forma di coazione e restrizione fisica nei confronti dei lavoratori extracomunitari, desumibile dal fatto che questi si erano liberamente sottratti, dopo un certo periodo di tempo, alle condizioni di disagio lavorativo, deponga per l’insussistenza del reato contestato (Cass. pen., Sez. V, 10/02/2011, n. 13532).

Ai fini della configurabilità del delitto di riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.) non è necessaria un’integrale negazione della libertà personale ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona, idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante ai fini dell’integrazione della norma incriminatrice. In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità – in ordine al reato di cui art. 600 c.p. – dell’ imputato, il quale aveva indotto alcuni minori a seguirlo in Italia con la prospettiva di una lecita attività lavorativa ed, una volta giunti a Milano, aveva loro sottratto i passaporti e li aveva percossi intimandogli di commettere furti e di consegnargli la refurtiva con minacce di morte e di mutilazioni (Cass. pen., Sez. V, 18/11/2010, n. 2775).

In tema di delitti contro la personalità individuale, la condizione analoga alla schiavitù è, ex art. 600 c.p., una situazione di fatto i cui estremi sono configurabili qualora la persona sia ridotta in stato di soggezione e costretta a prestazioni di lavoro stressanti o alla prostituzione, con sfruttamento dei compensi dovutigli con inganno, per abuso di autorità, approfittando della situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità, oltre che minaccia o violenza. In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha confermato l’affermazione di responsabilità, in ordine al reato di cui art. 600 c.p., nei confronti degli imputati, i quali avevano ridotto in soggezione persone provenienti da Paesi dell’Est, privandole dei passaporti, collocandoli in luoghi isolati privi di relazioni esterne, corrispondendo retribuzioni nettamente inferiori alle promesse e imponendo loro contestuali sacrifici di esigenze primarie, alloggi fatiscenti, assenza di servizi igienici, privazioni alimentari, impossibilità di spostarsi sul territorio essendovi veicoli preordinati solo a condurli nei campi e, quindi, rendendoli incapaci di sottrarsi allo sfruttamento altrui, corredato se del caso da violenze e minacce (Cass. pen., Sez. V, 24/09/2010, n. 40045).

Integra il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù art. 600 c.p., la condotta di coloro che, considerandolo alla stregua di una cosa che possa essere oggetto di scambio commerciale, acquistino il minore previa corresponsione di un prezzo dai genitori e continuino a utilizzarlo, come già i genitori, per commettere furti indicandogli le risposte da dare alla Polizia in caso di arresto e diffidandolo dal rivelare ad alcuno l’avvenuta vendita (Cass. pen., Sez. V, 13/07/2010, n. 35923).

Il reato di riduzione in schiavitù ha natura permanente e richiede una condizione di soggezione continuativa della vittima all’agente, la quale non è esclusa dalla circostanza che la condotta di quest’ultimo sia stata interrotta qualche giorno dopo il momento in cui è stata posta in essere, per l’intervento della polizia (Cass. pen., Sez. V, 07/06/2010, n. 35479).

La previsione di cui art. 600 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) configura un delitto a fattispecie plurima, integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario o dalla condotta di colui che riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (Cass. pen., Sez. III, 27/05/2010, n. 24269).

 

Rocchina Staiano
Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente, dal 1 ° novembre 2009 ad oggi, della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.

Sentenza collegata

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Staiano Rocchina

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