Espropriazione terreni – Risarcimento danni (Cons. Stato n. 1482/2012)

Redazione 16/03/12
Scarica PDF Stampa

FATTO
Con sentenza 19 novembre 2009, n. 723, il T.A.R. per l’Umbria, Sez. I, respinta una serie di eccezioni di rito, rigettava il ricorso e i motivi aggiunti proposti dai signori ********** e ******* con riguardo all’occupazione e all’espropriazione, in favore del Comune di Foligno, di un terreno di proprietà.
Contro la sentenza interponevano appello i ricorrenti censurandola sotto diversi profili.
Essa avrebbe omesso di giudicare sui motivi del ricorso principale, che investiva la illegittimità dell’esproprio sotto il profilo della sua tardività in quanto intervenuto dopo la scadenza del termine dell’occupazione d’urgenza. In relazione a quest’ultimo non sarebbe intervenuto alcun provvedimento di proroga, non essendo idonea a tal fine la disposta proroga dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, in considerazione della reciproca autonomia tra procedimento di espropriazione e procedimento di occupazione. Essendosi l’occupazione protratta oltre la scadenza del termine per essa previsto, con la irreversibile trasformazione e destinazione a strada pubblica del fondo dei ricorrenti, ne sarebbe derivato il diritto al risarcimento del danno sofferto per la non giustificata perdita del bene.
Peraltro la sentenza sarebbe erronea anche nella parte in cui ha ritenuto legittimo il provvedimento di proroga della dichiarazione di pubblica utilità, non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e determinato non da fatti obiettivi, ma solo dal ritardo con cui l’ente aveva condotto la procedura.
Infine la sentenza avrebbe errato là dove ha affermato la sussistenza dell’interesse dei ricorrenti all’azione risarcitoria soltanto con riguardo alla svalutazione monetaria. Sarebbe irrilevante la determinazione dell’indennità: non vertendosi in materia di esproprio, ma di risarcimento del danno, quest’ultimo andrebbe determinato in relazione al valore venale dell’area espropriata e alla riduzione di valore dell’area residua. A questo scopo gli appellanti chiedono disporsi consulenza tecnica.
Il Comune di Foligno si costituiva in giudizio per resistere al gravame, depositando appello incidentale. Deduceva l’irricevibilità, improcedibilità, inammissibilità del ricorso di primo grado per motivi aggiunti, per tre ragioni: in quanto tardivo in relazione alla riduzione dei termini alla metà stabilita dall’art.23 bis, lett. b), della legge 6 dicembre 1971, n. 344; per essere stato proposto contro un atto adottato prima dell’instaurazione del giudizio e dunque bisognoso di un ricorso autonomo; per difetto di procura alle liti. Lo riteneva inoltre infondato nel merito, in quanto la delibera della Giunta comunale n. 31 del 20 febbraio 2006 avrebbe inteso prorogare tutti i termini della procedura di esproprio, compresi quelli dell’occupazione di urgenza; non sarebbe applicabile l’art. 7 della legge n. 241 del 1990 quanto all’onere di comunicazione dell’avvio del procedimento relativo; il provvedimento di proroga non avrebbe richiesto una particolare motivazione.
Si costituiva altresì, per resistere all’appello, la Regione Umbria.
Nell’imminenza dell’udienza pubblica le parti depositavano memorie nelle quali ribadivano le proprie ragioni. In particolare gli appellanti – preso atto della non applicabilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva e alla luce dell’intervenuto art. 42 bis del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, come introdotto dall’ articolo 34, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n. n. 111 – insistevano perché fosse dichiarato l’obbligo dell’Amministrazione comunale di disporre l’acquisizione dell’area e di corrispondere alle parti private l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale in base al valore venale del bene, l’indennizzo non patrimoniale e l’indennizzo per l’occupazione senza titolo.
All’udienza del 28 febbraio 2012 l’appello veniva chiamato e trattenuto in decisione.

 

DIRITTO
Le censure di rito proposte dal Comune appellato non sono fondate.
Il ricorso per motivi aggiunti non è infatti tardivo. E ciò per un duplice ordine di argomenti, sui quali si è ormai definitivamente espressa l’Adunanza generale, stabilendo dei principi da cui non vi è ragione per discostarsi in questa sede e che muovono comunque dal presupposto che l’art. 23 bis della legge n. 1034 del 1971 sia norma di stretta interpretazione, non suscettibile di essere applicata al di là delle ipotesi espressamente previste.
Da un lato, infatti, la questione di cui è causa esula materialmente dall’ambito di applicazione dell’art. 23 bis citato. Il rito abbreviato introdotto da quella disposizione non vale per le controversie che conseguano sì ad una procedura di espropriazione, ma nelle quali vengono in rilievo profili di stampo esclusivamente risarcitorio, là dove cioè non ricorra la ratio (di tempestiva definizione di controversie incidenti su peculiari interessi pubblici) per la quale il legislatore ha ritenuto di favorire, in deroga ai termini processuali ordinari, una più rapida tutela degli interessi pubblici in ambiti individuati (Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2007, n. 9; adesivamente, poi, Cons. Stato, Sez. V, 5 maggio 2009, n. 2801). Sebbene contestato dall’Amministrazione, il giudizio instaurato non ha natura impugnatoria, ma richiede un accertamento (l’occupazione illegittima) e una condanna (al risarcimento del danno, variamente articolato).
Dall’altro lato, il citato art. 23 bis non vale comunque per i motivi aggiunti, sia se proposti avverso atti nuovi che avverso lo stesso provvedimento censurato con l’atto introduttivo del giudizio, alla luce dell’esigenza di assicurare il pieno esercizio del diritto costituzionalmente garantito di difesa, che sarebbe eccessivamente compresso per effetto dell’abbreviazione anche di questo termine (Cons. Stato, Ad. Plen. 15 aprile 2010, n. 2155; quindi, adesivamente, Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8717; Sez. VI, 12 aprile 2011, n. 2257)..
Per le considerazioni ora riassunte, alla materia di cui è causa non si applicano i termini brevi. Il ricorso di primo grado per motivi aggiunti era dunque tempestivo.
L’Amministrazione contesta poi la possibilità di impugnare con motivi aggiunti provvedimenti adottati prima della instaurazione del giudizio (come nel caso di specie) anche se conosciuti in corso di causa.
A questo proposito il Collegio ritiene, del pari, di non dover discostarsi dalla tesi secondo cui, nella logica della disposizione richiamata, all’ipotesi di documento nuovo deve essere assimilata quella di non imputabile tardiva conoscenza di un atto dalla parte che intende avvalersene. E’ evidente, infatti, che dal punto di vista soggettivo tanto il nuovo provvedimento quanto quello precedentemente esistente, ma incognito, vengono conosciuti solo nel corso del giudizio (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 26 marzo 2003, n. 4). Poiché non è contestata l’affermazione degli appellanti, che sostengono di aver conosciuto la deliberazione della Giunta comunale n.31 del 2006 solo a seguito della produzione in giudizio da parte del Comune di Foligno, avvenuta il 19 maggio 2009, l’eccezione – che contrasta con un ragionevole criterio di economia processuale di atti – deve essere respinta.
Una volta accertato che i “motivi aggiunti” del ricorso di primo grado sono tecnicamente tali, risultando dagli atti che la procura relativa al ricorso originario delegava i difensori anche a proporre motivi aggiunti, cade l’ulteriore eccezione dell’Amministrazione appellata relativa a un supposto difetto di una specifica procura alle liti relativa ai motivi aggiunti medesimi. Difatti, in linea di principio, per l’introduzione di motivi aggiunti è sufficiente la procura rilasciata al difensore, senza limitazioni di sorta, per l’instaurazione della controversia principale, trattandosi di principio codificato a difesa della parte ricorrente in considerazione del fatto che spesso esigenze di difesa tecnica fanno rendere necessarie ulteriori impugnazioni, senza che a tal fine appaia utile un mandato ad hoc (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 11 novembre 2011, n. 5985).
Nel merito il ricorso è parzialmente fondato.
La scansione temporale della vicenda può riassumersi nei termini che seguono:
il 22 novembre 1999 la Giunta comunale di Foligno approva il progetto definitivo per la realizzazione della strada di collegamento tra la strada statale ******** e la via Roma;
il 13 febbraio 2001 la Giunta approva il progetto esecutivo, fissando al 1° marzo 2006 il termine per la conclusione delle procedure espropriative;
il 10 gennaio 2002 e il 9 luglio 2002 vengono adottate le ordinanze di occupazione d’urgenza dell’area;
il successivo 2 settembre ha luogo l’immissione in possesso;
il 28 luglio 2005 si concludono i lavori;
il 20 febbraio 2006 la Giunta proroga i termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sino all’8 ottobre 2007;
il 2 settembre 2007 – ex art. 20 della legge 22 ottobre 1971, n. 865 – scadono i termini dell’occupazione d’urgenza:
il 13 settembre 2007 la Regione Umbria adotta il decreto di esproprio.
Gli appellanti si dolgono di ciò, che il decreto di esproprio sia stato adottato successivamente alla scadenza dei termini dell’occupazione d’urgenza.
E’ indubbio che il termine stabilito per l’inizio e la fine dell’occupazione d’urgenza ha sul piano sostanziale e funzionale finalità diversa rispetto al termine entro il quale deve avere luogo l’espropriazione. Il primo termine individua, infatti, l’arco temporale durante il quale, ancorché non sia perfezionato il procedimento di esproprio, è consentita l’immissione nel possesso nel bene dell’ente espropriante. Il secondo termine, che trova previsione risalente nell’art. 13 della legge 25 giugno 1865 n. 2359 (ora, art. 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 327), è volto a prevenire ogni protrazione ad libitum della condizione del bene assoggettato alla potestà ablatoria e va fissato nell’atto che dichiara la pubblica utilità dell’opera (cfr. Cass. civ., Sez. I, 27 aprile 2011, n. 9370; Cons. Stato, Sez. VI, 21 luglio 2011, n. 4432).
Si tratta ora di vedere, anzitutto, se la proroga del termine per l’esproprio sia stata disposta legittimamente e, in caso di risposta affermativa, valutarne l’effetto con riguardo alla dedotta illegittima occupazione.
Secondo gli appellanti la proroga sarebbe illegittima per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e per essere stata resa necessaria dalla sola inerzia dell’Amministrazione.
Del tutto correttamente il Tribunale regionale osserva che, essendosi medio tempore conclusi i lavori, la cura dell’interesse pubblico imponeva una proroga, peraltro limitata, dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità. Anche in ossequio al principio costituzionale di buon andamento dell’amministrazione, una volta realizzata l’opera pubblica, la contraria decisione di non dare corso ulteriore alla procedura espropriativa avrebbe richiesto, semmai, una adeguata motivazione, anche a evitare l’insorgere di profili di responsabilità a carico degli amministratori. Poiché in concreto la proroga non avrebbe potuto non essere adottata, evapora lo stesso interesse partecipativo degli appellanti. In definitiva, ai fini della valutazione della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento non può che valere l’art. 21 octies, co. 2, secondo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale è applicabile tanto alla ipotesi di atto vincolato che a quella di atto discrezionale (cfr. Cons. Stato, Sez., VI, 7 giugno 2011, n. 3416); con ciò escludendosi che la censura di carattere formale possa determinare la illegittimità del provvedimento in questione.
Neppure è fondata la censura secondo cui la illegittimità della proroga discenderebbe dall’essersi il provvedimento reso necessario solo per effetto dell’inerzia mantenuta dall’Amministrazione nel compimento degli atti della procedura dal 2002 al 2005. La relazione del responsabile del procedimento, richiamata dalla delibera della Giunta comunale del 20 febbraio 2006, evidenzia che “i tempi per l’esecuzione dell’opera pubblica si sono notevolmente protratti perché si è reso necessario comprendere nel contratto lavori aggiuntivi utili a rendere completamente rispondente l’opera alle esigenze del territorio e dell’area servita”. Risulta inoltre dagli atti che, nel corso del periodo indicato, tra il Comune, l’impresa esecutrice dei lavori e le parti private sono intercorsi contatti, scambi di corrispondenza, accordi, tutti evidentemente finalizzati al miglior contemperamento dell’interesse pubblico e di quello privato. Sussistevano dunque le “giustificate ragioni” che – a norma dell’art. 13, co. 5, del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 – possono giustificare la proroga: anche sotto questo aspetto il provvedimento in questione resiste alla censura di illegittimità che ad esso viene mossa.
Ciò detto, tuttavia, non è possibile ritenere che – come invece sostiene il Comune – il provvedimento di proroga dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità abbia in realtà inteso prorogare tutti i termini comunque afferenti alle procedure espropriative, considerate nel loro complesso.
A tale riguardo non si tratta di interpretare il provvedimento ex fide bona né di far valere il principio di conservazione degli atti: sono queste regole ermeneutiche il ricorso alle quali non può condurre a conclusioni contrastanti con il palese tenore letterale del testo. E’ sufficiente leggere la delibera della Giunta comunale per osservare come essa, riportandosi alla relazione del responsabile del procedimento, muova dalla esigenza di adeguare il termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità a quelli delle occupazioni d’urgenza. La relazione richiamata fa però riferimento a una ordinanza dirigenziale di occupazione di urgenza n. 849 del 5 settembre 2002, con immissione nel possesso il successivo 8 ottobre e quindi con scadenza l’8 ottobre 2007, di cui non vi è traccia in atti (diversamente da quanto è delle ordinanze n. 24 del 10 gennaio 2002 e n. 697 del 9 luglio dello stesso anno). Relazione e delibera cadono perciò verosimilmente in un equivoco per giungere a un risultato legittimo (la proroga dei termini dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità) ma insufficiente rispetto allo scopo di una complessiva parificazione dei termini delle procedure (occupazione ed espropriazione) relative all’area di cui è causa.
In conclusione deve dirsi che:
in data 20 febbraio 2006 legittimamente il Comune di Foligno ha disposto la proroga del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità all’8 ottobre 2007;
tale proroga non ha avuto invece effetti per l’occupazione di urgenza, la cui efficacia è venuta a scadere il 2 settembre 2007;
poiché il 13 settembre 2007 è intervenuto il decreto di esproprio, l’area in questione e l’opera costruita sono diventate irrevocabilmente di proprietà pubblica;
l’area, peraltro, è risultata illegittimamente occupata per il (breve) periodo intercorrente tra queste due ultime date.
Infatti la circostanza che, al 2 settembre 2007, i termini per il compimento delle procedure espropriative non fossero ancora scaduti (perché prorogati con la citata deliberazione del 20 febbraio 2006) non impedisce di configurare l’occupazione de qua come illegittima a tale data e sino a quella dell’esproprio, essendo scaduto il termine per essa previsto senza che fossero intervenute tempestive proroghe della stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7135).
Sotto tale profilo sussiste in capo agli appellanti il diritto al ristoro del danno sofferto, in relazione al quale l’eccezione processuale formulata dal Comune in udienza – secondo cui la pretesa ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001, dedotta nella memoria del 6 febbraio 2012, avrebbe dovuto essere ritualmente formulata con motivi aggiunti – non solo sembra prima facie infondata, alla luce di una considerazione sostanziale del petitum, ma non è comunque rilevante. L’articolo citato, infatti, è inapplicabile alla fattispecie, poiché il bene dei privati è stato già acquisito al patrimonio dell’Ente per effetto dell’intervenuto decreto di esproprio.
Nel quantum, tenuto anche conto della circostanza che – come appare in atti – la complessiva indennità di esproprio è stata determinata dalla competente Commissione provinciale in euro 11.276,23, il Collegio ritiene equo liquidare in favore degli appellanti il danno ingiusto di cui sopra nell’importo di euro 500,00 oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria a far data dal verificarsi dell’evento dannoso.
Sussistono giustificate ragioni per compensare tra le parti le spese di giudizio.

 

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune di Foligno a corrispondere agli appellanti l’importo di euro 500,00 (cinquecento/00) oltre agli interessi legali e alla rivalutazione monetaria a far data dal 3 settembre 2007.
Compensa le spese..
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione