Escluso il falso in bilancio nella bancarotta documentale (Cass. pen., n. 46388/2013)

Redazione 21/11/13
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Svolgimento del processo

I difensori di P.R. ricorrono avverso la sentenza emessa il 21/02/2013 dalla Corte di appello di Torino, recante la parziale riforma della sentenza del Tribunale di Alba datata 21/12/2007, con la quale il P. era stato condannato alla pena di anni 6 di reclusione (nonchè alle pene accessorie di legge, oltre al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile costituita) per addebiti di bancarotta fraudolenta relativi alla gestione della Faber S.p.a., dichiarata fallita il (omissis) e della quale l’imputato si assumeva essere stato amministratore di fatto. La pronuncia di secondo grado risulta avere escluso la recidiva inizialmente contestata all’imputato, con conseguente riduzione della pena ad anni 4 di reclusione ed irrogazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici in luogo dell’interdizione perpetua disposta dai giudici di prime cure.

Le contestazioni di reato per cui è intervenuta condanna – capi 4, 5 e 9 dell’originaria rubrica – riguardano in particolare ipotesi di falso in bilancio quanto agli esercizi 1998 e 1999, dove sarebbero stati esposti fatti e dati non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società anzidetta, così cagionandone o comunque aggravandone il dissesto: secondo l’ipotesi accusatola, il bilancio del 1998, ove correttamente formato, avrebbe dovuto evidenziare una perdita per circa 9.500.000.000 di lire in luogo del risultato negativo attestato (pari a 187.264.417 lire), mentre in quello dell’anno successivo la perdita avrebbe dovuto ammontare ad oltre 16 miliardi, piuttosto che ai 3 effettivamente esposti. Inoltre, la declaratoria di penale responsabilità si riferisce alla tenuta delle scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, condotta che viene ritenuta animata dallo scopo di arrecare pregiudizio ai creditori.

I difensori dell’imputato lamentano quanto segue.

1. Violazione dell’art. 238-bis c.p.p. e art. 192 c.p.p., comma 3.

La difesa rappresenta che i reati contestati al P. erano da intendersi commessi (secondo l’ipotesi accusatoria) in concorso con altri soggetti, separatamente giudicati per diverse scelte processuali: la posizione di costoro – C.P. per il reato sub 4 e N.D. per quello di cui al capo successivo – era però stata definita con sentenza di assoluzione per insussistenza dei fatti addebitati, sentenza che giungeva a conoscenza dei legali del P. in epoca posteriore alla condanna pronunciata in primo grado. La conseguente istanza nell’interesse dell’odierno ricorrente affinchè venisse rinnovato il dibattimento con acquisizione della sentenza e della perizia tecnico-contabile su cui era stata fondata l’assoluzione del C. e del N., nonchè per l’escussione dello stesso perito (********), era però accolta solo in parte dalla Corte di appello, che riteneva ultronea l’audizione da ultimo sollecitata in ragione del contenuto della sentenza prodotta, che i giudici di secondo grado ritenevano al contrario coerente con la conferma dell’impianto accusatorio a carico del P.. Tale valutazione viene censurata dal ricorrente, atteso che risulta formulata all’atto stesso dell’acquisizione della pronuncia ex art. 238-bis c.p.p., piuttosto che all’esito del conseguente e doveroso contraddittorio (sul punto, i difensori richiamano la sentenza n. 29/2009 della Corte Costituzionale, nonchè la giurisprudenza di legittimità secondo cui le sentenze irrevocabili di cui alla norma sopra ricordata debbono essere considerate al pari delle dichiarazioni di un coimputato nello stesso o in altro procedimento, bisognevoli di riscontro ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3)- In concreto, la Corte territoriale avrebbe utilizzato un dato probatorio – l’esistenza di un debito IVA insinuato al passivo fallimentare solo nell’ottobre 2006, da correlare ai falsi in bilancio degli anni pregressi quale conseguenza dell’aggravamento del dissesto – traendolo solo dalla sentenza de qua e mai consentendo che sul punto venisse compiuta una discussione in contraddittorio, anche alla luce di eventuali altri elementi di conferma o smentita della sua attendibilità (come sarebbe invece accaduto dando corso all’esame del perito).

2. Mancata assunzione di prova decisiva, per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 603 cod. proc. pen..

Il motivo di ricorso è collegato al precedente, quanto all’omessa escussione del perito: avendo la Corte territoriale disposto la parziale rinnovazione del dibattimento ex art. 603 c.p.p., comma 2, non avrebbe al contempo potuto escludere l’esame del ********, certamente non qualificabile come prova vietata per legge, manifestamente superflua od irrilevante. Infatti, secondo i difensori del P. “l’esame del perito avrebbe comportato una serie di argomentazioni logico-giuridiche che, se ascoltate dai giudici, avrebbero probabilmente inficiato le argomentazioni poste a base del loro convincimento”.

3. Violazione dell’art. 585 c.p.p., comma 4.

La difesa censura la sentenza di secondo grado nella parte in cui rigetta l’istanza di produzione dell’elaborato tecnico di parte allegato ai motivi aggiunti di impugnazione, presentati a seguito della notizia della ricordata assoluzione dei coimputati; nell’occasione, non vi sarebbe stato alcun tentativo di introduzione di temi nuovi, bensì un fisiologico ampliamento dei motivi principali di gravame già rassegnati, che fra l’altro riguardavano anche il tema della “cristallizzazione del dissesto *****”.

4. Carenza e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alla ritenuta sussistenza di un aggravamento del dissesto della società fallita conseguente alla presunta falsità dei bilanci del 1998 e 1999.

La tesi difensiva è che la recente modifica della *******., art. 223, “presuppone che il nuovo reato configurato dal legislatore sia un reato di evento, dove l’evento è costituito dal dissesto, che deve essere causalmente collegato al falso in bilancio (…). E’ vero che il dissesto deve ritenersi sussistente in presenza di un effettivo squilibrio fra attività e passività dell’azienda, ma, in ragione della nuova articolazione fra condotta illecita, dissesto dell’impresa e relativa dichiarazione di fallimento, bisogna riconoscere che una situazione di insolvenza eliminata con successo dall’imprenditore non può dar luogo ad un fatto di bancarotta fraudolenta societaria, e che non potrà mai dirsi sussistente il reato in parola allorquando lo stato di decozione dell’impresa sia dovuto non al dissesto cagionato dall’illecito societario ma ad un nuovo e del tutto autonomo episodio di crisi”. La sentenza impugnata non avrebbe invece tenuto conto di tali principi, e non avrebbe esplicitato le ragioni per cui le presunte false appostazioni a bilancio alla fine degli anni Novanta avrebbero cagionato, fra l’altro, il debito IVA relativo al 2000, espressamente menzionato nel corpo della decisione (che fra l’altro avrebbe invocato, secondo i difensori, un precedente di legittimità inconferente).

5. Inosservanza ed erronea applicazione della *******., art. 216, nonchè illogicità della motivazione, con riferimento al capo 9 della rubrica.

Nell’interesse del ricorrente si sostiene che la condotta di bancarotta documentale contestata in nulla si differenzierebbe dalla descrizione di una ipotesi di bancarotta semplice, non rilevando ai fini della qualificazione giuridica la mera constatazione della mancanza di una contabilità di magazzino o del libro degli inventari; appare al contrario assodato che fra le scritture presenti vi era il libro giornale, ex se sufficiente a consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari dell’impresa, come espressamente confermato dal curatore del fallimento. Nè risulta decisiva la circostanza, al contrario evidenziata dalla Corte territoriale, secondo cui nel predetto libro giornale risultava omessa l’annotazione di circa 3.000 scritture, trattandosi di semplice non aggiornamento della stampa di annotazioni comunque presenti nel sistema informatico della Faber (dato, questo, confermato dai periti nominati nel corso del giudizio di primo grado e idoneo già ad escludere il dolo necessario per ravvisare l’ipotesi criminosa più grave, della quale la difesa sollecita la derubricazione).

6. Nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., ancora con riguardo al capo 9.

I difensori del P. lamentano che la Corte di appello avrebbe segnalato la necessità di ascrivere all’imputato la responsabilità di “deliberate manipolazioni” strumentali a non rendere possibile la ricostruzione del movimento degli affari e degli atti dispositivi compiuti: condotta che però, alla luce della contestazione di reato effettivamente mossa e limitata all’addebito di omessa tenuta delle scritture, comporta una immutazione del fatto. Stando alle osservazioni dei giudici di secondo grado, sarebbe stato ravvisabile un reato di cui alla prima parte della *******., art. 216, comma 2, n. 2, per distruzione, sottrazione o falsificazione dei libri contabili, giammai contestato.

7. Illogicità della motivazione della sentenza impugnata per travisamento del fatto, sempre in relazione al capo 9.

I difensori rappresentano che il curatore del fallimento ***** dichiarò di “non essere in grado di stabilire se certi elaborati contabili (…) erano andati persi oppure erano stati fatti scomparire”; da questa sola affermazione la Corte territoriale avrebbe ricavato la conclusione che lo stesso curatore aveva riscontrato manipolazioni delle scritture, circostanza non rispondente al reale contenuto di quelle dichiarazioni.

Con atto depositato il 05/09/2013, gli stessi difensori del ricorrente hanno infine eccepito l’intervenuta prescrizione dei reati contestati al P., precisando che la causa estintiva sarebbe maturata il 27 agosto scorso. Nella ricostruzione operata in detta memoria, i termini di prescrizione sarebbero stati sospesi nel corso del giudizio di merito a seguito di tre rinvii:

– dal 27 aprile al 18 maggio 2006, su istanza di differimento per motivi di salute presentata dal difensore di una coimputata;

– dal 13 luglio al 23 novembre 2006, per effetto dell’astensione dei difensori, aderenti ad una iniziativa di categoria;

dal 6 dicembre 2012 al 21 febbraio 2013, su istanza di uno dei legali del P., motivata da ragioni di salute.

La tesi della difesa è che del primo rinvio non dovrebbe affatto tenersi conto, visto che riguardava la posizione di un soggetto cui erano addebitati reati diversi da quelli ascritti al P., mentre l’art. 161 c.p., comma 1, sancisce che la sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato, senza più contemplare – dopo la novella del 2005 – l’ipotesi dei reati connessi per cui si proceda congiuntamente; la seconda e la terza causa di sospensione dovrebbero invece operare, ma solo nel limite di 60 giorni previsto dall’art. 159 c.p., comma 2.

Motivi della decisione

1. Il ricorso merita un accoglimento soltanto parziale.

1.1 Il primo motivo è da considerare manifestamente infondato, dal momento che non si registra alcuna violazione del principio del contraddittorio, nei termini lamentati dai difensori del P..

Occorre infatti tenere presente che venne ammessa la produzione di una sentenza e di una relazione peritale, conformemente alle richieste avanzate nell’interesse dell’imputato (circostanze di cui non può certo essere la difesa a dolersi): a quel punto, era del tutto fisiologico e conforme al sistema processuale che la Corte territoriale, dovendo decidere sull’ulteriore istanza volta a far disporre l’audizione del suddetto perito, e ritenendo ultronea la rinnovazione dei dibattimento per acquisire – anche – la prova in questione, esprimesse una pur implicita valutazione sulla significatività delle prove già ammesse. Valutazione, del resto, in quel momento neppure limitata alla presa d’atto che, ad avviso della Corte medesima, quel che il perito avrebbe potuto dichiarare risultava desumibile dall’elaborato a sua firma, non avendo i giudici di appello formulato elementi di critica sul contenuto dell’anzidetta relazione prima che le parti avessero concluso: infatti, come risulta dal verbale di udienza prodotto in allegato al ricorso, sull’istanza di esaminare il perito i giudici torinesi si riservarono di decidere unitamente al merito.

1.2 L’assunto della Corte territoriale circa l’inutilità dell’escussione del ******** è invece formulato, del tutto ritualmente, nel corpo della sentenza impugnata: la motivazione, sul punto, appare immune dai vizi rappresentati dalla difesa, giacchè appariva senz’altro ragionevole considerare che il perito non avrebbe fatto altro che confermare i risultati delle sue analisi tecniche, adeguatamente compendiate nello scritto a sua firma. Come dovrà precisarsi tra breve, è l’analisi della Corte di appello sul contenuto della relazione ad apparire carente (quanto alla ritenuta derivazione causale del debito IVA di un miliardo e mezzo, insinuato al passivo fallimentare nel 2006, anche dalle presunte falsità nelle scritture contabili descritte in rubrica), non invece il giudizio circa l’inutilità di una prova che nulla avrebbe aggiunto rispetto alle acquisizioni istruttorie già disponibili.

1.3 Parimenti da disattendere è il terzo motivo di ricorso. La Corte di appello, infatti, non ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti di gravame perchè estranei rispetto ai profili di doglianza proposti in sede di impugnazione principale, ma ha ritenuto irrituale la produzione – in allegato ai motivi aggiunti, ex se ammessi – di un elaborato tecnico di parte, ritenendo conseguentemente di non dover esaminare la parte dei suddetti motivi aggiunti dedicata all’illustrazione della consulenza de qua. E’ del resto lo stesso tenore del ricorso a precisare che non si trattava di una memoria difensiva, bensì di una relazione sottoscritta da un consulente incaricato (della quale, in ipotesi, avrebbe dovuto farsi a sua volta istanza di ammissione ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.).

1.4 In ordine al problema del nesso di causalità tra falsità in bilancio ed aggravamento del dissesto, la giurisprudenza di questa Corte ha già più volte affermato – contrariamente alla tesi difensiva sostenuta nell’odierno ricorso – che “in tema di bancarotta societaria (*******., art. 223, comma 2, n. 1), rilevano ai fini della responsabilità penale anche le condotte successive alla irreversibilità del dissesto, in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause successive, espressamente dispiegata dall’art. 41 cod. pen. che disciplina il legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento, sia la circostanza per cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo (tanto da essere suscettibile di misurazione) assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di dissesto già maturato” (Cass., Sez. 5, n. 16259 del 04/03/2010, *****, Rv 247254).

Il principio, diffusamente illustrato nella motivazione della pronuncia ora richiamata, risulta ribadito anche nelle sentenze più recenti della Sezione Quinta, laddove si è sostenuto che “il reato di bancarotta impropria da reato societario sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare anche solo un aggravamento del dissesto già in atto della società” (Cass., Sez. 5, n. 17021 dell’11/01/2013, ******, Rv 255090), ovvero – in termini che potrebbero sembrare decisivi anche nella fattispecie oggi in esame, a sostegno dell’impianto accusatorio – che “integra il reato di bancarotta impropria da reato societario l’amministratore di società che esponga nel bilancio dati non veri al fine di occultare la sostanziale perdita del capitale sociale, evitando così che si palesasse la necessità di procedere al suo rifinanziamento o alla liquidazione della società, provvedimenti la cui mancata adozione determinava l’aggravamento del dissesto di quest’ultima” (Cass., Sez. 5, n. 28508 del 12/04/2013, *******, Rv 255575).

Venendo appunto al caso concreto, va considerato che, secondo i capi d’imputazione, le false appostazioni ivi descritte avrebbero comportato uno squilibrio assai rilevante tra realtà contabile e situazione effettiva della società; e, quand’anche fosse confermato che un dissesto si era già prodotto (aderendo alla “nozione dinamica” di dissesto che la sentenza ***** del 2010 fa propria), sarebbe inevitabile ascrivere valenza di aggravamento a condotte che avrebbero fatto apparire una perdita di meno di 200 milioni di lire a fronte di una realtà pari a 9 miliardi e mezzo, oppure di 3 miliardi quando sarebbe stato corretto indicarne 16.

Gli elementi di novità ritualmente acquisiti nel processo di appello celebrato a carico del P. (la sentenza intervenute nel giudizio a carico del C. e del N., e la relativa perizia) erano però assai significativi per far dubitare dell’esistenza stessa di un aggravamento del dissesto, a prescindere dall’indagine sulle cause o concause che lo avessero determinato: a pag. 13 di quella sentenza si legge infatti che “in ordine alla questione concernente l’andamento dell’indebitamento sociale nel periodo riguardato dalle false comunicazioni per cui è processo e, dunque, la configurabilità del nesso di causalità tra false comunicazioni sociali e dissesto, il perito nella relazione scritta esaminava l’andamento dell’indebitamento in capo alla Faber S.p.a. a partire dall’esercizio 1997 e fino alla data del fallimento, concludendo nel senso che sostanzialmente e complessivamente il passivo societario è rimasto pressochè uguale al 27/10/2000 rispetto al 31/12/1997;

spiegava il perito che, tenuto conto del fatto che l’analisi era stata predisposta senza poter disporre delle scritture contabili complete, onde non era stato possibile esaminare la modalità di calcolo attraverso la quale gli accantonamenti erano stati calcolati, l’esigua differenza tra i due ammontare di debiti – al 31/12/1997 ed al 27/10/2000 – permette di concludere per una sostanziale uguaglianza tra i due passivi, onde poteva concludersi nel senso che la gestione messa in atto dai responsabili a partire dal 01/01/1998 fino al fallimento non aveva prodotto un aggravamento del dissesto”.

Vero è che nella stessa sentenza si rappresenta che il ******** aveva corretto le proprie conclusioni, dando atto che il valore dell’aumento dell’indebitamento (espresso nella relazione in lire 289.228.235, di qui la sostanziale sovrapponibilità dei due passivi) avrebbe dovuto incrementarsi di circa un miliardo e mezzo, a fronte della insinuazione al passivo fallimentare di un debito capitale IVA sopravvenuta alla redazione dell’elaborato peritale: ma scrivono i giudici torinesi, sempre nella sentenza pronunciata nei confronti del C. e del N., che “la sopravvenienza dell’insinuazione tardiva per il predetto debito verso l’Erario – della quale il perito non aveva potuto tenere conto e della quale ha correttamente dato atto – non è tale da sovvertire le conclusioni peritali sopra ricordate, in quanto non trattasi di debito suscettibile di essere posto in rapporto di derivazione causale dalle false comunicazioni ascritte, e deriva da esercizio successivo a quelli (1997-1999) presi in considerazione dalle imputazioni di cui si discute”. Osservazione in vero ineccepibile, proprio perchè si trattava di un debito IVA concernente il 2000.

Al contrario, nella sentenza oggetto dell’odierno ricorso la Corte territoriale prende atto della esistenza di quella insinuazione tardiva per inferirne che un aumentato indebitamento (ergo, un aggravamento del dissesto) fra il 1997 e il 2000 vi fu senz’altro; ma non affronta in alcun modo il problema se quell’aggravato dissesto derivò almeno in parte dalle false appostazioni contabili di cui ai capi 4 e 5. Nè può aiutare a tal fine il tenore della rubrica, essendo impossibile trarre un rapporto di derivazione causale ictu oculi evidente fra una indebita capitalizzazione di spese pubblicitarie, ovvero una sopravvalutazione di rimanenze di magazzino, e un debito IVA. Si impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, in parte qua, con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Torino.

1.5 In ordine alla contestata bancarotta documentale, va innanzi tutto considerato che l’addebito non si fonda soltanto sull’omesso aggiornamento delle scritture quanto a 3.000 annotazioni, al di là di una possibilità di ricerca dei dati contabili nella memoria degli apparati informatici in uso presso la società fallita. A convincere di una ben più generale censura sulle modalità di tenuta dei libri è infatti la stessa sentenza emessa a carico del C. e del N., a loro volta condannati per il reato in questione (e senza derubricazioni di sorta): alle pagg. 17 e 18 si legge infatti che “il fondamento dell’imputazione si rinviene nei rilievi del curatore, il quale osservava che – oltre ad alcune mancanze formali (quali la mancanza del libro inventari per il 1994, 1997, 1998 e 1999) – dal punto di vista sostanziale l’apparato contabile era risultato estremamente carente al fine di ricostruire con certezza e chiarezza il movimento degli affari, tanto che il curatore ha dovuto provvedere con aggravio di attività e di dispendio a fare rielaborare da consulenti informatici situazioni contabili e patrimoniali (come il magazzino) che altrimenti non sarebbero mai emerse, ed ha rilevato deliberate manipolazioni al fine di rendere irricostruibile il patrimonio degli affari e, quanto più interessante, gli atti dispositivi posti in essere dagli amministratori (relazione del curatore, pag. 146). Ad esempio, notava il curatore che dalle rielaborazioni effettuate era emerso che 3.300 scritture contabili riferibili ad operazioni di chiusura del bilancio 1998 non trovavano riscontro sul libro giornale, fatto che era in sè sufficiente ad invalidare la sostanzialità delle scritture contabili della Faber ed aveva creato non poche difficoltà alla ricostruzione dei fatti amministrativi, e inoltre che la gestione finanziaria era improntata ad una sconsiderata movimentazione di cassa (relazione del curatore, pag. 146 s.). Anche la analisi della posizione contabile Faber S.p.a. / ************** rilevava una confusione ed una difficoltà interpretativa che rendeva inattendibile la contabilità sociale, con dubbi sulla effettiva movimentazione avvenuta (relazione del curatore, pag. 58)”.

E’ dunque la stessa pronuncia offerta in produzione dalla difesa, la cui lettura non può certo limitarsi ai dati utili alla prospettazione del ricorrente, a sconfessare la fondatezza della doglianza in esame, come pure dei motivi di ricorso afferenti una presunta immutazione del fatto (laddove peraltro il concetto di “manipolazione” utilizzato nella motivazione della sentenza qui impugnata non sembra affatto essere inteso dai giudici di appello come sinonimo di artificio contabile).

1.8 Quanto infine alla dedotta prescrizione dei reati in rubrica, è sufficiente prendere atto della insostenibilità della tesi difensiva circa l’incidenza di un rinvio dovuto all’astensione del difensore da attività di udienza sulla sospensione dei termini di prescrizione.

La consolidata giurisprudenza degli ultimi anni afferma infatti che “la richiesta del difensore di differimento dell’udienza, motivata dall’adesione all’astensione collettiva dalle udienze, quantunque tutelata dall’ordinamento mediante il riconoscimento del diritto al rinvio, non costituisce, tuttavia, impedimento in senso tecnico, in quanto non discende da un’assoluta impossibilità a partecipare all’attività difensiva. Ne consegue che, in tale ipotesi, non si applica il limite massimo di 60 giorni di sospensione al corso della prescrizione, che resta sospeso per tutto il periodo del differimento” (Cass., Sez. 1, n. 25714 del 17/06/2008, Arena, Rv 240460). Ergo, non solo è doveroso tenere conto ai fini della prescrizione di un rinvio della trattazione del processo motivato dall’adesione del difensore ad una astensione dalle attività di udienza, ma occorre farlo senza contenere nel limite dei 60 giorni il correlato effetto sospensivo dei termini ex art. 159 cod. pen.; ancor più di recente, si è ribadito che “in tema di sospensione della prescrizione, il limite di 60 giorni previsto dall’art. 159 c.p., comma 1, n. 3, non si applica nel caso in cui il differimento dell’udienza sia determinato dalla scelta del difensore di aderire alla manifestazione di protesta indetta dalle Camere penali, con la conseguenza che, in tal caso, il corso della prescrizione può essere sospeso per il tempo, anche maggiore di 60 giorni, ritenuto adeguato in relazione alle esigenze anche organizzative dell’ufficio procedente” (Cass., Sez. 5, n. 18071 dell’08/02/2010, **********, Rv 247142).

Come ricordato, la difesa perviene a individuare la data di prescrizione nel 27 agosto 2013 rappresentando che il rinvio dovuto all’anzidetta astensione dovrebbe computarsi nei soli limiti di 60 giorni: il differimento de quo fu però dal 13 luglio al 23 novembre 2006, ergo di complessivi 133 giorni. Spostando in avanti di 73 giorni la data indicata nell’interesse del ricorrente si giunge all’8 novembre, il che esime questa Corte dal dover esaminare gli ulteriori argomenti portati a sostegno delle ragioni del P..

2. Si impone in definitiva l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, nei termini di cui al dispositivo, con riguardo alla ritenuta colpevolezza dell’imputato quanto ai reati suo 4 e 5 della rubrica; il rigetto del ricorso, nel resto, comporta il passaggio in giudicato della declaratoria di penale responsabilità del P. per il delitto di bancarotta documentale. Il giudice del rinvio dovrà comunque provvedere, in ordine a detto reato, alla eventuale rideterminazione del trattamento sanzionatorio, che nelle precedenti pronunce di merito non risulta oggetto di autonomo computo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alle statuizioni relative ai capi 4 e 5 della rubrica.

Rigetta il ricorso nel resto e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Torino per nuovo esame sui capi 4 e 5, nonchè per la rideterminazione della pena con riguardo al capo 9.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2013.

Redazione