Efficacia della pronuncia di assoluzione/condanna nel giudizio civile e di autonomia del giudizio di liceità della condotta compiuto dal Giudice civile rispetto all’accertamento del Giudice penale (Trib. Brindisi, 30/12/2011) (inviata da A. I. Natali)

Redazione 30/12/11
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FATTO E DIRITTO
La domanda è fondata.
Consta agli atti di causa la sentenza depositata il 12/12/02 (Sent. n. 340/02 di N. 7628/97 RGNR) dal Giudice del Trib. di Ostuni e passata in giudicato il 24/03/03, con cui il convenuto è stato ritenuto responsabile dei reati ex artt. 40- 590-612 c.p., commessi in danno della M.
Emerge dalla stessa che l’odierna attrice subiva, a causa di un ombrellone distaccatosi dall’arenile dello stabilimento **********, gestito dal convenuto lesioni con postumi permanenti al viso, in particolare al naso; inoltre, subiva minacce, sempre dal L-, al fine di desistere dall’intento di chiedergli il risarcimento dei danni.

Invero, l’assunto del convenuto secondo cui l’ombrellone rovinato sul viso dell’attrice sarebbe di altro bagnante e di altro lido é smentito dalla prodotta sentenza penale che ha riconosciuto la veridicità dei fatti, posti a base della domanda risarcitoria,dedotta nel presente giudizio.
Pertanto, la causa delle lesioni attoree deve essere individuata nella caduta dell’ombrellone, verosimilmente volato, a causa del vento e del suo mancato o insufficiente ancoramento al suolo, sul volto della sig.ra M., la quale ha subito, altresì, minacce intimidatorie per impedirle di adire le vie giudiziarie.

La soppressione della pregiudizialità penale e gli attuali rapporti fra giudizio civile e penale.

L’originaria opzione del legislatore per la pregiudizialità penale costituiva espressione dell’humus culturale che permeava la legiferazione del tempo, senza dubbio, ispirata al primato della giurisdizione penale su quella civile, e dunque alla priorità riconosciuta all’accertamento del fatto in ambito penalistico, non fosse altro che in ragione dei più intensi, e potenzialmente illimitati, poteri istruttori del giudice penale rispetto a quelli conferiti al giudice civile, vincolato non solo al principio della domanda, e, quindi, al principio dispositivo, ma anche al rispetto delle richieste istruttorie delle parti.
Ed invero, principi cardini dell’ordinamento all’epoca vigente erano quelli dell’unitarietà della funzione giurisdizionale e della prevalenza della giurisdizione penale su quella civile; prevalenza che rinveniva la propria ragion d’essere nell’esigenza di evitare, nel superiore interesse alla certezza del diritto, giudicati contraddittori (art. 3 c.p.p. e 295 c.p.c.).
In ragione di tali principi ispiratori era marcata la tendenza a spostare in sede penale l’accertamento del fatto che fosse anche fonte di responsabilità civile.
Dalla disciplina del nuovo codice di procedura penale, si può agevolmente evincere che il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unitarietà della giurisdizione, come invece avveniva per il c.p.p. del 1930.
Prevale, invece, un’impostazione ispirata al diverso valore dell’autonomia di ciascun processo e della piena cognizione, da parte di ogni giudice, delle questioni giuridiche e di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della propria decisione.
Consegue che, fatta eccezione per alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall’art. 75, terzo comma, del nuovo codice di procedura penale (azione promossa in sede civile dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado), che trovano la propria ragion di essere in una circoscritta esigenza di raccordo delle due giurisdizioni; da un lato, il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall’altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti (ex multis: Cass., 10.08.2004, n. 15477; Cass., 09.04.2003, n. 5530; Cass., sez. Unite., ord., 05.11.2001, n. 13682).
Attualmente, e volendo distinguere fra ipotesi assolutoria e di condanna, l’efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile di danno è regolata dagli artt. 652 e 654 c.p.p. secondo i quali il giudicato penale di assoluzione (rispettivamente nell’ambito del giudizio civile di danni – nel caso dell’art. 652 c.p.p. – e nell’ambito degli altri giudizi civili nell’ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p.) ha effetto preclusivo in sede civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato, e non anche quando l’assoluzione sia determinata dal diverso accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma 2, (Cass. 20/09/2006, n. 20325;Cass. 1, 30/08/2004, 17401; Cass. 19/05/2003, 7765; Cass. 02/11/2000, 14328).
Ai fini della completezza dell’esposizione, si ricorda come, in applicazione del suddetto principio, l’accertamento, contenuto in una sentenza penale irrevocabile di assoluzione, pronunciata perché il fatto non costituisce reato, non ha efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 652 c.p.p., nel giudizio civile di danno, nel quale, in tal caso, compete al giudice il potere di accertare autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti dedotti in giudizio, e di pervenire a soluzioni e qualificazioni non vincolate all’esito del processo penale (Cass. 14/02/2006, n. 3193; Cass. 26/10/2004, n. 20751).
Infatti, la non qualificabilità di un fatto quale reato non ne implica, di per sé, l’inidoneità a produrre effetti risarcitori, perché posto in essere in violazione della regola del neminem laedere o di una pattuizione contrattuale.
Ne consegue che il giudicato penale di assoluzione produce gli effetti preclusivi previsti da tale norma, solo quando contiene un effettivo accertamento dell’insussistenza del fatto o dell’impossibilità di attribuirlo all’imputato e non quando l’assoluzione derivi geneticamente dalla mancanza di sufficienti elementi di prova in ordine al fatto o all’attribuibilità materiale e/o psicologica di esso all’imputato.
Da ciò la ragion d’essere del principio per cui “il giudice civile deve tenere conto anche della motivazione della sentenza penale, per individuare l’effettiva ragione dell’assoluzione dell’imputato, al fine di stabilire (a prescindere anche dalla formula assolutoria, eventualmente tecnicamente inesatta, indicata nel dispositivo) l’incidenza del giudicato penale nel giudizio civile (Cass. 26 giugno 19 71 n. 2048, cit., 12 novembre 1985 n. 5523, 20 maggio 1987 n. 4622)” (Cass. 4775/04).
Quanto alla sentenza penale di condanna, qual è quella agli atti, è noto come tal ultima, come fatto oggettivo, costituisce l’elemento pregiudiziale per la pronuncia di risarcimento del danno in sede civile.
Invero, il sistema dell’autonomia del processo penale da quello civile introdotto dal nuovo codice di procedura penale, che non ha riprodotto la norma di cui all’art. 3, comma 2 del codice abrogato, non ha inciso su tale norma.
Orbene, quanto all’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile risarcitorio, come espressamente previsto dall’art. 651 c.p.p., la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, con esclusione della colpevolezza il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile (Cass. 8 gennaio 1999 n. 11283).

Una volta affermata l’autonomia tra il giudizio civile e quello penale, il giudice civile deve accertare la fattispecie costitutiva della responsabilità aquiliana, posta al suo esame, con i mezzi suoi propri e, quindi, con i mezzi di prova offerti al giudice dal rito civile per la sua decisione.
Tra questi mezzi sono annoverabili, non solo la presunzione, legale o non, ma addirittura anche le c.d. “prove legali”, in cui la legge deroga al principio del libero convincimento del giudice (artt. 239 c.p.c., artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 27120, 2733; 2734, 2735, 2738 c.c.).
D’altronde, il consolidato orientamento giurisprudenziale, che escludeva la risarcibilità del danno non patrimoniale, allorquando la responsabilità dell’autore materiale del fatto illecito fosse stata affermata non già in base all’accertamento concreto dell’elemento psicologico (cioè almeno la colpa), ma in base a presunzioni, quali quelle stabilite dagli artt. 2050 a 2054 c.c., è stato modificato dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
Pertanto, può considerarsi acquisito il principio per cui non osta alla risarcibilità del danno non patrimoniale il mancato positivo accertamento della colpevolezza dell’autore del danno, se essa debba ritenersi sussistente in base ad una presunzione di legge (come l’art. 2054 c.c.) e se, ricorrendo la colpa, il fatto sarebbe qualificabile come reato (Cass., 12.05.2003, n. 7281).
Il principio della risarcibilità del danno non patrimoniale, derivante da reato, anche in assenza di un accertamento, in concreto, della colpa del reo, deve essere esteso anche all’ipotesi in cui la responsabilità sia costruita sul modello dell’imputazione oggettiva dell’evento dannoso come nell’ipotesi di cui all’art. 2050 c.c o di cui all’art. 2051 c.c. quale è quella di specie.
Dunque, nel caso di specie:
1) deve ritenersi già accertato, in sede penale, il fatto causativo del danno, nonché la sua iscrizione alla sfera di custodia del convenuto che risponde in virtù della mera verificazione dell’evento dannoso;
2) tal ultimo evento è risarcibile a prescindere dall’accertamento della colpa del convenuto.

Irrilevanza della qualificazione della fattispecie ex art. 2051 c.c, quale responsabilità oggettiva o di colpa presunta

L’affermazione circa la responsabilità del convenuto conserva la sua validità sia che si ricostruisca la fattispecie dell’art. 2051 c.c. come ipotesi di colpa presunta, riconoscendo al custode la possibilità di provare la propria diligenza in termini di rispetto del proprio dovere di vigilanza; sia che si aderisca alla diversa tesi della fattispecie de qua quale ipotesi di responsabilità oggettiva.
Lettura, tal ultima, che sembra imposta dallo stesso dato testuale della norma (“Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia”), dal quale si evince la sufficienza del rapporto di custodia fra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo.
Tale termine non presuppone un obbligo di custodire che, invece, contrassegna tipicamente contratti tipici come quello di deposito.
La norma, infatti, fa riferimento soltanto a una situazione di fatto e, soprattutto, a un concetto che va interpretato “in termini ampi e dinamici, volti ad individuare una relazione funzionale fra la cosa e il soggetto chiamato a custodirla” (Cass., sez. un., 11 novembre 1991, n. 12019).
Ne consegue la radicale irrilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 2051 c.c., di un’eventuale impossibilità di adempiere all’obbligo di controllo perché inerente al profilo soggettivo della colpa.
L’unico modo per sottrarsi all’applicazione della norma sarebbe, anche in tal caso, la prova del caso fortuito, quale circostanza specifica e puntuale con la conseguenza che, laddove la medesima non sia conosciuta, resta a carico del danneggiante-custode la causa ignota, idonea, di per sé, non ad escludere la colpa, ma ad interrompere il nesso di causalità fra condotta e evento.
Ebbene, dall’espletato giudizio penale, non constano elementi di prova che rispondano a siffatti requisiti di rigore.
Quanto alla condotta dell’attrice, nel caso concreto, la stessa, non essendovi ravvisabili profili di colpa a carico della stessa, appare inidonea a dare luogo ad un’ipotesi di caso fortuito, così come ad integrare una concausa efficiente nella produzione dell’evento dannoso.
Ne consegue che il convenuto deve essere condannato al risarcimento dei danni subiti e richiesti dall’attrice in conseguenza dell’evento e consistenti, nel danno non patrimoniale nella duplice valenza di: a) “danno biologico” e b) danno morale, per il patimento sofferto per effetto delle lesioni riportate.

I danni risarcibili

Quanto al primo profilo, e’ noto come le Sezioni Unite dell’11.11.2008 abbiano degradato il danno biologico a mera componente descrittiva della più ampia categoria del danno non patrimoniale.
Esso, va inteso come menomazione dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione.
Tale voce di danno, come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86, non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza del danneggiato, con il conseguente paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi sia sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione del soggetto o, persino – secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi – dei genitori.
Come espressamente affermato anche dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, per danno biologico deve, invece intendersi “la lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”.
Ciò premesso, il danno biologico consistente nella violazione dell’integrità psico-fisica della persona va considerato ai fini della determinazione del risarcimento, sia nel suo aspetto statico (diminuzione del bene primario dell’integrità psico-fisica in sè e per sè considerata) sia nel suo aspetto dinamico (manifestazione o espressione quotidiana del bene salute).

Orbene, l’espletata consulenza medico-legale, ha consentito di acclarare la entità delle lesioni riportate dall’attrice sotto il profilo sia dell’inabilità temporanea sia del danno permanente
Il Ctu ha accertato che, in conseguenza del sinistro de quo, l’attrice ha subito lesioni permanenti nella misura dell’8%, nonché una invalidità temporanea totale di giorni 15 ed una invalidità temporanea parziale al 50% di giorni 15.
Le conclusioni del medico legale sul danno biologico, sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un completo esame anamnestico e su un obiettivo, approfondito e coerente studio della documentazione medica prodotta, valutata con criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici.
Risulta, inoltre, provata, nel caso di specie, anche l’ulteriore figura descrittiva del danno non patrimoniale, individuata dalle Sezioni Unite del 2008, nel danno morale e, dalla stessa pronuncia, disancorato dal dato temporale, con conseguente abbandono dello schematismo concettuale per cui il danno morale deve necessariamente transeunte.
Si ritiene opportuno applicare, al caso di specie, ai fini della valutazione del danno individuato dal CTU, le tabelle di Milano, in quanto strutturate e concepite – diversamente dalle attuali Tabelle di Lecce – in funzione del nuovo inquadramento concettuale del danno non patrimoniale, quale categoria unitaria, cui sono approdate le Sezioni Unite dell’11.11. 2008.
Né la maggiore o minore diffusione delle stesse presso i tribunali locali – a fronte della prevalenza statistica delle tabelle milanesi sul territorio nazionale – può costituire ragione sufficiente ad impedirne l’applicazione nel caso di specie.
Le nuove Tabelle – approvate il 28 aprile 2009 e aggiornate nel 2011 – presentano profili di innovatività rispetto alle precedenti tabelle quanto alla liquidazione del danno permanente da lesione all’integrità psico-fisica. Infatti, esse individuano il nuovo valore del c.d. “punto” muovendo dal valore del “punto” delle Tabelle precedenti (connesso alla sola componente di danno non patrimoniale anatomo-funzionale, c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche della componente di danno non patrimoniale relativa alla “sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1 al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34 % di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26% al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad essere fisso al 50%), e prevedendo inoltre percentuali massime di aumento da utilizzarsi in via di c.d. personalizzazione.
Applicando le predette tabelle, il danno da invalidità permanente subito dall’attore deve essere quantificato in euro:
– € 14.474,00 (che discendono dal valore del “punto”, relativo al danno non patrimoniale ovvero € 2.233,68, moltiplicato per il numero dei punti di invalidità, applicato il demoltiplicatore correlato all’età, al momento del sinistro, pari a 39 anni).
– In considerazione dell’indubbia valenza estetica del pregiudizio e della sua idoneità ad incidere sulla capacità relazionale dell’attrice, peraltro, non ancora quarantenne al momento del sinistro, si ritiene equo maggiorare tale misura fino ad euro 17.000.
Quanto, invece, al calcolo del danno da inabilità temporanea, in applicazione dei suddetti valori tabellari e considerato che il risarcimento per ogni giorno di invalidità assoluta è pari ad euro 91,00, si quantifica in:
a) € 1365,00, l’ITT, giorni 15;
b) € 682,5, l’I.T.P. al 50% giorni 15, per complessivi euro 2047,50.
In totale, per i danni su indicati vanno liquidati all’attrice complessivi € 19.047,5, che derivano dalla liquidazione complessiva del pregiudizio non patrimoniale.
Essendo stato il danno liquidato alla stregua di criteri e valori aggiornati al 2011, non va accordata la rivalutazione, altrimenti, avendosi un’indebita duplicazione del risarcimento.
Devono, invece, computarsi gli interessi legali con decorrenza dal giorno dell’evento lesivo, ovvero dal 12.08.1997.
A tale importo vanno aggiunti € 800,00, liquidati in via equitativa, a titolo di ristoro delle spese sostenute in relazione alle trasferta, resasi necessaria per sottoporsi a CTU.
Non devono essere, invece,rimborsate le spese sostenute per il rientro “anticipato” in Germania dal momento che il fatto lesivo ha solo determinato l’anticipazione di un esborso che sarebbe stato, comunque, sostenuto.
Non sono, invece, computabili le spese per un eventuale intervento di rinoplastica, cui l’attrice vorrà eventualmente sottoporsi, dal momento che la liquidazione del danno correlato ai postumi permanenti è stata operata anche al fine di assicurare un idoneo ristoro del pregiudizio estetico e qualunque somma, liquidata ai fini della sua rimozione, per il tramite di un intervento chirurgico, costituirebbe un’inammissibile duplicazione risarcitoria.
Le spese, comprese quelle di ctu, seguono la soccombenza e si liquidano nell’importo in dispositivo fissato.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da M. R. nei confronti di *****, così provvede:
1) dichiara unico ed esclusivo responsabile dei fatti del 12/08/97 il sig. *****;
2) per l’effetto, condanna il sig. ***** al pagamento, in favore dell’attrice, di euro 800,00, a titolo di danno patrimoniale; nonché di euro 19.047,5, a titolo di danno non patrimoniale, oltre interessi di legge dal 12.08.1997;
3) condanna il convenuto al pagamento, in favore dell’attrice, delle spese e competenze di causa, liquidate in complessivi euro 3500,00 di cui euro 350,00 per spese, euro 2150,00 per diritti ed euro 1000,0 per onorario; oltre *** e Cap come per legge, da distrarsi in favore del procuratore che si dichiara anticipatario;
4) pone definitivamente a carico del convenuto le spese della disposta C.T.U.

IL GIUDICE
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