Efficacia del patteggiamento nel giudizio civile, la deposizione testimoniale non è sufficiente ai fini del risarcimento (Cass. n. 19871/2013)

Redazione 29/08/13
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Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di L’Aquila, con sentenza del 27 settembre 2006, confermando quella pronunciata dal Giudice di pace della medesima città, rigettava la domanda di risarcimento dei danni avanzata da **** nei confronti di T.O..

Nella specie, la domanda traeva origine da una denuncia penale presentata dal F. per il reato di danneggiamento, dalla quale era sorto un procedimento penale conclusosi con una sentenza di patteggiamento della pena da parte della T..

Osservava il Tribunale che la sentenza di patteggiamento non fa stato in sede civile, sicchè il F. avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza del danno lamentato e l’imputabilità del medesimo alla T.. L’istruttoria, invece, si era risolta nella sola deposizione della teste G. – moglie del F. e connotata da un sentimento di “ostilità manifesta verso la controparte” – e nell’acquisizione di un “preventivo di riparazione” del mezzo del F., successivo di quattro anni rispetto ai fatti, elementi che il Tribunale riteneva non sufficienti per l’accoglimento della domanda.

2. Contro la sentenza del Tribunale di L’Aquila propone ricorso il F., con atto affidato ad un solo motivo.

Resiste la T. con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), omessa motivazione su fatti decisivi per il giudizio.

Rileva il ricorrente che la sentenza impugnata non avrebbe valutato correttamente le prove esistenti, non tenendo in adeguata considerazione la deposizione della teste G. e la sentenza di patteggiamento della pena a carico della T.; da tali elementi si sarebbe dovuta dedurre la prova certa della responsabilità della T. nella determinazione del danno, anche perchè la sentenza suddetta dovrebbe comunque avere il valore di un elemento di prova dal quale il giudice si può discostare, ma solo fornendo un’adeguata motivazione.

2. Il ricorso non è fondato.

In esso il ricorrente presenta una censura ambigua, perchè da un lato prospetta un vizio di motivazione e dall’altro conclude formulando un quesito di diritto che presupporrebbe una censura di violazione di legge, in effetti non prospettata nel ricorso.

A prescindere da tale intrinseca contraddittorietà, il ricorso si risolve in un tentativo di ottenere da questa Corte una nuova e non consentita valutazione del materiale probatorio esistente, come risulta in modo evidente dal fatto che nello stesso si trascrive una parte della deposizione della teste G., quasi per sollecitare questa Corte ad un giudizio di merito che non le compete.

La sentenza di patteggiamento, come correttamente ha ricordato il Giudice d’appello, non fa stato in sede civile, per espressa previsione di legge; il Tribunale ha tenuto presente tale elemento, ed è pervenuto alla conclusione, correttamente argomentata e motivata senza vizi logici, per cui quella pronuncia, unita alla sola deposizione testimoniale della moglie del F., non poteva integrare gli estremi di una prova sufficiente, tanto più che la documentazione prodotta dall’odierno ricorrente a dimostrazione dell’entità dei danni asseritamente subiti era successiva di circa quattro anni rispetto ai fatti di causa.

Ne consegue che l’impugnata sentenza, avendo compiuto una valutazione globale delle prove esistenti, è anche rispettosa del principio affermato da questa Corte secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento) – pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile – contiene pur sempre un’ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare (sentenza 19 novembre 2007, n. 23906, ordinanza 6 dicembre 2011, n. 26263). Ed è proprio ciò che il Tribunale ha fatto, tenendo conto della sentenza di patteggiamento ma ritenendola insufficiente a far ritenere dimostrato l’illecito civile.

3. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 1.200, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 26 giugno 2013.

Redazione